30 novembre 2012

Danni da cose in custodia art. 2051 cod. civ.


Il primo motivo di ricorso è fondato per le ragioni che seguono.

I principi giuridici che, secondo la giurisprudenza di legittimità, governano la materia, possono così riassumersi: la responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia prevista dall'art. 2051 c.c., prescinde dall'accertamento del carattere colposo dell'attività o del comportamento del custode e ha natura oggettiva, necessitando, per la sua configurabilità, del mero rapporto eziologico tra cosa ed evento; tale responsabilità prescinde, altresì, dall'accertamento della pericolosità della cosa e sussiste in relazione a tutti i danni da essa cagionati, sia per la sua intrinseca natura, sia per l'insorgenza di agenti dannosi, essendo esclusa solo dal caso fortuito, che può essere rappresentato anche dal fatto del danneggiato, avente un'efficacia causale idonea a interrompere il nesso causale tra cosa ed evento dannoso (Cass. civ. 7 aprile 2010, n. 8229; Cass. civ. 19 febbraio 2008, n. 4279; Cass. civ. 5 dicembre 2008, n. 28811).

La radicale oggettivazione dell'ipotesi normativa, insita nella prospettiva adottata - che rende più congruo parlare di rischio da custodia (piuttosto che di colpa nella custodia) e di presunzione di responsabilità (piuttosto che di colpa presunta) - comporta che la responsabilità in questione non esige, per essere affermata, un'attività o una condotta colposa del custode, di talchè, in definitiva, il custode negligente non risponde in modo diverso dal custode perito e prudente, se la cosa ha provocato danni a terzi (Cass. civ. 19 febbraio 2008, n. 4279).

Assodato, dunque, che la responsabilità ex art. 2051 c.c. è esclusa solamente dal caso fortuito - che, si ripete, è qualificazione incidente sul nesso causale e non sull'elemento psicologico dell'illecito (confr. Cass. civ. 7 luglio 2010, n. 16029; Cass. civ. 19 febbraio 2008, n. 4279) - in relazione a talune fattispecie può essere necessario stabilire se l'evento derivi in tutto o in parte dal comportamento dello stesso danneggiato.

Ne consegue che corollario della regola sancita dall'art. 2051 c.c. è quella dettata dall'art. 1227 c.c., comma 1.

Peraltro il giudizio sull'autonoma idoneità causale del fattore esterno ed estraneo a produrre l'evento deve in ogni caso essere adeguato alla natura ed alla pericolosità della cosa, sicchè tanto meno essa è intrinsecamente pericolosa, tanto più la situazione di possibile pericolo è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l'adozione delle normali cautele da parte dello stesso danneggiato, tanto più incidente deve considerarsi l'efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, a partire dall'uso improprio della cosa, fino all'eventuale interruzione del nesso eziologico tra la stessa e il danno e alla esclusione di ogni responsabilità del custode (confr. Cass. civ. 24 febbraio 2011, n. 4476; Cass. civ. 19 febbraio 2008, n. 4279).

Cass. civ. Sez. III, Sent., 06-11-2012, n. 19154


Ancora alle SS.UU. l'impugnazione delle delibere assembleari.


Tale censura pone all'esame di questa Corte una questione di carattere generale e, cioè, se l'impugnazione, avverso la sentenza di primo grado relativa all'annullamento di una delibera condominiale, sia validamente proposta anche con ricorso e non con atto di citazione e, ad un tempo, se proposta con ricorso, per la tempestività dell'appello, debba farsi riferimento alla data della notifica del ricorso, oppure, a quella del deposito dello stesso in cancelleria.

A questo riguardo, questa S.C. si è pronunciata sui punti che seguono secondo alcune pronunce nei procedimenti nei quali l'appello, in base al principio di cui all'art. 342 cod. proc. civ., va proposto con citazione, ai fini della "vocatio in ius", vale la regola della conoscenza dell'atto da parte del destinatario. Ne consegue che se, erroneamente, l'impugnazione, anzichè con citazione, venga proposta con ricorso, per stabilirne la tempestività occorre avere riguardo, non alla data di deposito di quest'ultimo, ma a quelli in cui lo stesso risulta notificato alla controparte, unitamente al provvedimento del giudice di fissazione dell'udienza (Cass. N. 4498 del 2009). In altre parole, il deposito del ricorso anche se tempestivo non è idoneo alla costituzione di un valido rapporto processuale, il quale richiede che l'atto recettizio di impugnazione venga portato a conoscenza della parte nel termine perentorio di cui agl•i artt. 325 o 327 c.p.c., nella forma legale della notificazione e nel luogo indicato nell'art. 330 c.p.c., tale che l'eventuale sanatoria di tale atto nullo è ammissibile soltanto a condizione che non si sia verificata medio tempore alcuna decadenza che abbia determinato il passaggio in giudicato della sentenza e, quindi, l'inammissibilità dell'appello.

A tale giurisprudenza si è correlata quella secondo cui nei casi in cui l'appello si perfeziona con il deposito del ricorso in cancelleria, esso deve avvenire nel termine di legge, cosicchè è inammissibile ove sia proposto con citazione notificata, ma non deposita nei termini (ex multis: Cass. n. 21116 del 2001).

Più recentemente, le SS.UU. di questa Corte, con la pronuncia n. 8491 del 2011 in tema di condominio negli edifici, hanno stabilito che le impugnazioni delle delibere dell'assemblea, in applicazione della regola generale dettata dall'art. 163 cod. proc. civ., vanno proposte con citazione, non disciplinando: l'art. 1137 cod. civ., la forma di tali impugnazioni; possono, comunque, ritenersi valide le impugnazioni proposte impropriamente con ricorso, semprechè l'atto risulti depositato in cancelleria entro il termine stabilito dall'art. 1137 citato. La Suprema Corte di legittimità ha ritenuto che l'adozione della forma del ricorso non esclude l'idoneità al raggiungimento dello scopo di costituire il rapporto processuale, che sorge già mediante il tempestivo deposito in cancelleria, mentre estendere alla notificazione la necessità del rispetto del termine non risponde ad alcuno specifico e concreto interesse del convenuto, mentre grava l'attore di un incombente il cui inadempimento può non dipendere da una sua inerzia, ma dal tempo impiegato dall'ufficio giudiziario, dalla pronuncia del decreto di fissazione dell'udienza di comparizione.

Tale affermazione di principio della Corte attiene, però, ad una diversa fattispecie, considerato che riguarda l'impugnazione delle delibere assembleari e dunque l'atto di instaurazione del giudizio di primo grado tuttavia il principio espresso potrebbe trovare una generalizzazione posto che in ossequio al principio processuale della conservazione degli atti, l'impugnazione della sentenza di primo grado in tema di delibera condominiali è da ritenersi egualmente ammissibile.

Rivestendo tale questione, così come quella della forma che deve assumere l'appello avverso le sentenze emesse in materia di delibere condominiali, il carattere di particolare importanza, il Collegio ravvisa l'opportunità della trasmissione degli atti al Primo Presidente affinchè valuti l'opportunità di rimessione della causa alle Sezioni Unite, ove condivida l'esigenza di una risposta nomofilattica al più alto livello sulla questione.

Cass. civ. Sez. II, Ord., 09-11-2012, n. 19534

Domanda principale e subordinata e regime di impugnazione.


Il motivo è fondato.

Risulta dagli atti di causa - ai quali è possibile accedere, essendo denunciato un error in procedendo - che le attrici hanno proposto, dinanzi al Tribunale di Piacenza, una domanda principale ed una domanda subordinata: la prima, diretta a far dichiarare che il tributo di occupazione di suolo pubblico ed il canone ricognitorio non sono dovuti al Comune di Piacenza; la seconda, volta ad ottenere che la tassa ed il canone siano addebitati a tutti i condomini in proporzione ai rispettivi millesimi.

Il Tribunale ha accolto la domanda principale, affermando che "nulla può chiedere il Comune nè al condominio nè all'attrice", che "le cartelle impositive sono illegittime, e come tali, quantomeno, a disapplicarsi dall'AGO" e, ancora, che la somma richiesta in via monitoria non è dovuta "posto che il titolo a monte è illegittimo e come tale va disapplicato conseguendo che il condominio non è tenuto al pagamento della somma".

Il primo giudice ha, implicitamente, dichiarato assorbita la domanda incidentale.

Ora, per costante giurisprudenza di questa Corte, la parte integralmente vittoriosa in primo grado, qualora abbia in detto grado proposto, oltre alla domanda principale integralmente accolta, anche una domanda subordinata superata dall'accoglimento della domanda principale, è tenuta, in caso di appello della controparte, a riprodurre la relativa questione al giudice d'appello, e tale riproposizione può ritenersi rituale ai sensi dell'art. 346 c.p.c., solo se la relativa domanda è proposta con chiarezza e precisione sufficienti a renderla inequivocamente intellegibile per la controparte ed il giudicante (Cass., Sez. 3^, 19 luglio 2005, n. 15223; Cass., Sez. 2^, 14 dicembre 2005, n. 27570; Cass., Sez. 2^, 11 maggio 2009, n. 10796; Cass., Sez. lav., 25 novembre 2010, n. 23925).

Tale riproposizione non è avvenuta nella specie.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 09-11-2012, n. 19533


Parcheggi.


Il motivo è infondato.

In tema di spazi riservati a parcheggio nelle nuove costruzioni ai sensi della L. n. 765 del 1967, art. 18, qualora operi, per legge, a favore degli acquirenti delle singole unità abitative il diritto d'uso del parcheggio in contrasto con la volontà contrattuale, il diritto all'integrazione del prezzo, che ha la funzione di riequilibrare il sinallagma funzionale del contratto, spetta al venditore originario ma non al terzo eventuale successivo acquirente dell'area, che è estraneo al contratto intercorso fra venditore ed acquirenti (Cass. 2858/1995; 13143/2003; 18691/2007).

Pertanto, il venditore originario ha azione nei confronti di coloro ai quali ha alienato le singole unità abitative mentre, a seguito della declaratoria di nullità, la acquirente dell'area di parcheggio, sul quale è stato poi riconosciuto il vincolo di destinazione, avrà diritto di ripetere il prezzo al riguardo versato al soggetto che gliel'ha alienato.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 09-11-2012, n. 19531


Art. 1113 c.c. e litisconsorzio processuale.


La censura è infondata.

La Corte territoriale ha ritenuto che il disposto dell'art. 1113 c.c., comma 3 non configura una ipotesi di litisconsorzio processuale quale delineato dall'art. 102 c.p.c. con riferimento ad una decisione che non può pronunciarsi che in confronto di più parti di un rapporto sostanziale, e che nella fattispecie in esame l'instaurazione di un litisconsorzio processuale è rimessa alla scelta del condividente che intenda attribuire alla divisione giudiziale effetti nei confronti dei creditori iscritti e degli aventi causa; pertanto, in difetto di chiamata ad intervenire, la divisione avrà effetto tra le parti del rapporto sostanziale, ma rimarrà inopponibile ai suddetti soggetti, nei cui confronti i rapporti rimarranno regolati secondo l'anteriorità delle iscrizioni e delle trascrizioni.

Tale convincimento è pienamente condivisibile.

Occorre infatti muovere dal rilievo fondamentale che i creditori iscritti e gli aventi causa, pur avendo diritto ad intervenire nella divisione (art. 1113 c.c., comma 1), non sono parti in tale giudizio, configurandosi la divisione come scioglimento di un rapporto di comunione, con la conseguenza che soltanto i titolari di tale rapporto devono partecipare al giudizio finalizzato a detto scioglimento; è invero indubitabile che i creditori iscritti e gli aventi causa, intervenendo nel suddetto giudizio, potranno vigilare sul corretto svolgimento del procedimento divisionale con il richiamo al rispetto delle norme di legge, o potranno proporre opposizione alla divisione non ancora eseguita a seguito di un giudizio cui non hanno partecipato (art. 1113 c.c., comma 1), ma è altresì certo che essi non hanno alcun potere dispositivo proprio perchè non sono condividenti; pertanto la loro mancata evocazione nel giudizio di divisione comporterà che la divisione non avrà effetto nei loro confronti, come espressamente prevede l'art. 1113 c.c., comma 3 (Cass. 28-6-1986 n. 4330).

Cass. civ. Sez. II, Sent., 09-11-2012, n. 19529


L'art. 1193 cod. civ. e l'onere probatorio.


Il primo motivo di ricorso va accolto sotto il profilo del vizio di motivazione in relazione all'onere probatorio che incombe sul creditore.

La motivazione è, infatti, affetta da vizio logico e giuridico, per avere la Corte territoriale invertito l'onere della prova, nel ritenere che spettasse al creditore dimostrare che i pagamenti effettuati dal debitore fossero imputabili alle forniture dedotte in giudizio e non alle precedenti.

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il creditore che agisce per il pagamento di un suo credito è tenuto unicamente a fornire la prova del rapporto o del titolo dal quale deriva il suo diritto e non anche a provare il mancato pagamento, giacchè il pagamento integra un fatto estintivo, la cui prova incombe al debitore che l'eccepisca.

Soltanto di fronte alla comprovata esistenza di un pagamento avente efficacia estintiva, ossia puntualmente eseguito con riferimento ad un determinato credito, l'onere alla prova viene nuovamente a gravare sul creditore il quale controdeduca che il pagamento deve imputarsi ad un credito diverso; l'onere del convenuto di provare il fatto estintivo rappresenta, infatti, un prius logico rispetto all'onere di provare la diversa imputazione del pagamento, nel senso che l'onere del creditore acquista la sua ragion d'essere soltanto dopo che il debitore abbia dato la prova esauriente e completa del fatto estintivo (Cass. 11/3/1994 n. 2369 in analoga fattispecie; il principio, già in precedenza affermato da Cass. 7/9/1977 n. 3902 è costantemente riaffermato negli stessi termini, ancorchè in fattispecie diverse, da questa Corte di legittimità: Cass. 3/2/1998 n. 1041; Cass. 9/1/2007 n. 205; Cass. 4/10/2011 n. 20288).

Occorre ancora precisare che in caso di crediti di natura omogenea, la facoltà accordata al solo debitore dall'art. 1193 c.c., di indicare a quale debito debba essere imputato il pagamento, va esercitata e si consuma all'atto del pagamento medesimo, sicchè una successiva dichiarazione del debitore, senza l'adesione del creditore, è giuridicamente inefficace (Cass. 18/3/2002 n. 3941). Il precedente giurisprudenziale (Cass. 19/1/2005 n. 1064) richiamato nel controricorso non è pertinente perchè affronta il caso di un pagamento risultante da quietanza che si assume erroneamente interpretata, ma non risultavano provati altri crediti, essendo evidente che, in mancanza di prova di altri crediti il pagamento non può che essere riferito al credito in contestazione; alla mancata prova di altri crediti fa pure riferimento Cass. 31/3/2007 n. 8066 dove si afferma, appunto, che al creditore incombe l'onere di dar prova dell'esistenza di altri crediti, ma nel caso concreto la pluralità di crediti è provata dalla pluralità delle fatture e dalle scritture contabili.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 09-11-2012, n. 19527


Compenso al professionista e recesso.


Occorre invero dare atto che, come questa S.C. ha precisato, "l'art. 2237 c.c. - nel consentire al cliente di recedere dal contratto di prestazione di opera intellettuale - ammette, in senso solo parzialmente analogo a quanto stabilito dall'art. 2227 c.c., per il contratto d'opera, la facoltà di recesso indipendentemente da quello che è stato il comportamento del prestatore d'opera intellettuale, ossia prescindendo dalla presenza o meno di giusti motivi a carico di quest'ultimo. Tale amplissima facoltà - che trova la sua ragion d'essere nel preponderante rilievo attribuito al carattere fiduciario del rapporto nei confronti del cliente - ha come contropartita l'imposizione a carico di quest'ultimo dell'obbligo di rimborsare il prestatore delle spese sostenute e di corrispondergli il compenso per l'opera da lui svolta, mentre nessuna indennità è prevista (a differenza di quanto prescritto dal cit. art. 2227 c.c.) per il mancato guadagno" (Cass. n. 14702 del 25/06/2007). Ciò posto, occorre subito sottolineare che il giudice non poteva fare riferimento all'art. 2237 c.c. nella liquidazione del "compenso" (che prevede un'ipotesi diversa e distinta di quella contemplata dall'art. 2227 c.c.), se non violando il precetto di cui all'art. 112 c.p.c., mancando la corrispondente domanda delle parti, a cui peraltro non era certamente consentito sollecitare l'applicazione di siffatta norma solo in sede di giudizio di legittimità.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 09-11-2012, n. 19524


L'usucapione abbreviata ex art. 1159 c.c.


Il motivo è infondato.

Questa Corte ha più volte avuto modo di affermare che l'usucapione abbreviata ex art. 1159 c.c., per la sua particolare natura e per i suoi peculiari requisiti, deve essere specificamente invocata, e la sua deduzione non può considerarsi compresa in quella concernente l'usucapione ordinaria (v. Cass. 15-3-2010 n. 6238; Cass. 20-12-1994 n. 10962; Cass. 5-1-1983 n. 6; Cass. 18-5-1978 n. 2408; Cass. 28-4- 1971 n. 1245, Cass. 16-7-1966 n. 1923).

Ne consegue che l'usucapione abbreviata non può essere dedotta per la prima volta nella memoria di replica depositata in appello ai sensi dell'art. 190 c.p.c., nel testo (applicabile ratione temporis al presente giudizio) previgente alla novella del 1990, allorchè non risulti che i fatti costitutivi di tale forma di usucapione (titolo di acquisto a non dominò, trascrizione del titolo; possesso decennale; buona fede) abbiano costituito oggetto di allegazioni tempestivamente introdotte in giudizio, sulle quali la controparte abbia avuto la possibilità di difendersi e controdedurre.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 09-11-2012, n. 19517


Servitù


Il motivo è infondato.

L'art. 1075 cod. civ., stabilisce che l'uso parziale della servitù rispetto a quanto previsto dal titolo, anche se protratto nel tempo, non vale a ridurne il contenuto ovvero le utilità ritraibili, che vanno determinati in base a quanto previsto dai contraenti nel costituire il diritto. Orbene, secondo l'interpretazione del titolo data dai Giudici, la servitù di non edificare aveva a oggetto esclusivamente i nuovi corpi di fabbrica o l'alterazione del volume del manufatto preesistente, e non pure la ristrutturazione, la trasformazione o il mutamento di destinazione. La sentenza ha accertato che quello realizzato dai convenuti fu un unico e contestuale intervento compiuto per il consolidamento e il ripristino della preesistente struttura muraria e non precaria - come invece preteso dai ricorrenti, che formulano una diversa ricostruzione della fattispecie - e ciò in esecuzione dell'ordinanza emessa dal Comune a seguito del crollo. Ne consegue che, a stregua di quanto era previsto dal titolo, non vi fu alcuna violazione del diritto di servitù.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 09-11-2012, n. 19516


Gli artt. 1346 ss. cod. civ.


Va, intanto, precisato che la normativa di cui agli artt. 1346 ss. cod. civ. induce ad identificare un oggetto mediato ed un oggetto immediato del contratto: l'oggetto immediato è rappresentato dalle prestazioni dovute reciprocamente dai contraenti, mentre oggetto mediato è il bene (o la cosa, o se si vuole la rappresentazione di una res) che mediante il contratto diventa materia di trasferimento, di godimento e simile. Secondo la stessa normativa, l'oggetto del contratto, oltre ad essere possibile determinato o determinabile, è necessario, per la validità del contratto, che sia anche lecito.

Epperò, come, pure, avverte autorevole dottrina la prescrizione di liceità dell'oggetto di cui all'art. 1346 cod. civ. è fonte di equivoci, se non addirittura priva di senso, perchè se per oggetto del contratto deve intendersi il bene (o la cosa, o la rappresentazione di una res), cioè, l'oggetto mediato, che mediante il contratto, diventa materia di trasferimento, di godimento e simile e quindi di diritto soggettivo patrimoniale, un bene o un'attribuzione patrimoniale in sè non possono essere considerati dall'ordinamento leciti o illeciti, dato che non sarebbe possibile instaurare un rapporto tra identità diverse, cioè, tra una res e i valori del sistema giuridico.

Piuttosto, la liceità o illiceità di cui all'art. 1346 cod. civ. va riferita, più correttamente, alla "prestazione", cioè all'oggetto immediato del contratto, così come lascerebbe intendere, sia pure in modo poco chiaro, la normativa di cui agli artt. 1347 e ss. cod. civ. e, va identificata avuto riguardo al singolo atto di autonomia posto in essere dai privati. Secondo questa prospettiva, come pure sostiene la dottrina più attenta, l'oggetto sarebbe illecito se la legge (ovvero una norma imperativa o una norma desumibile dai principi dell'ordine pubblico o del buon costume) esclude: a) che il bene individuato dalle parti possa far parte dello specifico contratto posto in essere (per esempio: un contratto costitutivo di pegno non può avere ad oggetto un bene immobile); b) che il bene di che trattasi, possa costituire oggetto di commercio (beni demaniali, beni di cui la legge espressamente ne vieta la diffusione perchè per esempio nocive alla salute, "compravendita di sostanze stupefacenti", o per ragioni, per esempio, di indole monetaria o economica "compravendita di valuta estera").

Cass. civ. Sez. II, Sent., 09-11-2012, n. 19509


L'illeggibilità della firma del conferente la procura alla lite


Il ricorso è fondato.

La Corte di merito ha disatteso il principio affermato dalle S.U. della S.C., con sentenza n. 4810/2005, laddove è stato evidenziato:

che "l'illeggibilità della firma del conferente la procura alla lite, apposta in calce o a margine dell'atto con il quale sta in giudizio una società, esattamente indicata con la sua denominazione, è irrilevante non solo quando il nome del sottoscrittore risulti dal testo della procura stessa o dalla certificazione d'autografia resa dal difensore, ovvero dal testo di quell'atto, ma anche quando detto nome sia con certezza desumibile dall'indicazione di una specifica funzione o carica che ne renda identificabile il titolare per il tramite di documenti di causa o delle risultanze del registro delle imprese";

che, in assenza di tali condizioni e nei casi in cui non sia menzionata alcuna funzione o carica specifica, allegandosi genericamente la qualità di legale rappresentante, si determina nullità relativa, che la controparte può far valere con la prima difesa, ex art. 157 c.p.c., facendo, così carico alla parte istante d'integrare, con la prima replica, la lacunosità dell'atto iniziale mediante l'indicazione del nome dell'autore della firma illeggibile;

solo ove difetti, sia inadeguata o tardiva detta integrazione si verifica l'invalidità della procura e l'inammissibilità dell'atto cui accede.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 09-11-2012, n. 19504



Iscrizione negli elenchi degli aspiranti al collocamento agevolato


Il motivo è fondato.

Questa Corte ha, con recente pronuncia (cfr. Cass. n. 9502/2012) cui questo collegio ritiene di adeguarsi, affermato che il requisito dell'incollocamento al lavoro previsto dalla L. n. 118 del 1971, art. 13, prima della sostituzione della L. n. 247 del 2007, ex art. 1, comma 35, nel regime introdotto dalla L. n. 68 del 1999, può essere integrato anche dalla domanda rivolta alle commissioni sanitarie per l'accertamento dello stato di invalidità, presupposto di iscrizione negli elenchi degli aspiranti al collocamento agevolato.

E' stato sottolineato, con la pronuncia citata, che, a seguito della nuova disciplina dettata dalla L. n. 68 del 1999, non può darsi seguito al precedente indirizzo giurisprudenziale secondo il quale il requisito che l'interessato sia "incollocato al lavoro" come richiesto dalla L. n. 118 del 1971, art. 13, doveva essere provato attraverso l'iscrizione nelle liste di collocamento ed obbligatorio, iscrizione che poteva e doveva essere domandata anche in attesa della conclusione del procedimento per il riconoscimento di quel grado di invalidità necessario per fruire del collocamento obbligatorio.

Il citato precedente indirizzo giurisprudenziale poggiava sull'esame della L. n. 482 del 1968, art. 19, il quale non dettava regole sulla documentazione necessaria che formalmente subordinassero l'ammissibilità della domanda in questione al previo riconoscimento del previsto grado di invalidità da parte delle commissioni. Con la disciplina di cui alla L. n. 68 del 1999 (norme per il diritto al lavoro dei disabili) il quadro di riferimento risulta cambiato nel senso che l'esperimento del procedimento per l'accertamento dell'invalidità da parte delle apposite commissioni è rigorosamente propedeutico all'iscrizione negli elenchi degli invalidi aspiranti al collocamento agevolato. In detto regime, pertanto, assume rilievo anche la domanda di accertamento dello stato di invalidità presentata alle commissioni sanitarie. In tal senso depone l'esame della citata normativa ed in particolare i commi 1, 4 dell'art. 1 e il comma 1 dell'art. 8. L'art. 1 prevede che la legge si applica "alle persone in età lavorativa affette da minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali e ai portatori di handicap intellettivo, che comportino una riduzione della capacità lavorativa superiore al 45 per cento, accertata dalle competenti commissioni per il riconoscimento dell'invalidità civile in conformità alla tabella indicativa delle percentuali di invalidità per minorazioni e malattie invalidanti approvata, ai sensi del D.Lgs. 23 novembre 1988, n. 509, art. 2 dal Ministero della sanità sulla base della classificazione internazionale delle menomazioni elaborata dalla Organizzazione mondiale della sanità". Coerentemente il comma 4 precisa che "L'accertamento delle condizioni di disabilita di cui al presente articolo, che danno diritto di accedere al sistema per l'inserimento lavorativo dei disabili, è effettuato dalle commissioni di cui alla L. 5 febbraio 1992, n. 104, art. 4 secondo i criteri indicati nell'atto di indirizzo e coordinamento emanato dal Presidente del Consiglio dei ministri (...)". Infine l'art. 8, comma 1 citato, con specifico riferimento all'avviamento al lavoro e all'iscrizione nei relativi elenchi, fa riferimento alle "persone di cui all'art. 1, comma 1" e precisa che in occasione dell'iscrizione viene compilata un'apposita scheda in cui sono annotati, oltre alle capacità lavorative, le abilità, le competenze e le inclinazioni del lavoratore, la natura e il grado della minorazione, con analisi dei posti assegnabili al lavoratore disabile.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 09-11-2012, n. 19480


Institore o procuratore generale e regolarità della notifica.


Ai due quesiti, che coinvolgono questioni di diritto intrinsecamente connesse, e per tale ragione saranno esaminati congiuntamente, deve darsi risposta negativa. La tesi sostenuta dai ricorrenti si riassume nel principio che, dovendosi notificare l'atto introduttivo del giudizio a una persona giuridica, e non essendo stato possibile eseguire la notificazione presso la sede della società o all'indirizzo della persona fisica indicata nell'atto quale rappresentante della società medesima, non sarebbe consentita la notificazione a quest'ultima a norma dell'art. 145, u.c., se dal registro delle imprese risulti la nomina di un institore o di un procuratore generale, dovendosi in tal caso tentare la notifica presso questi ultimi.

[...]

L'identificazione della legittimazione processuale della persona giuridica convenuta, laddove sia contenuta nell'atto da notificare - in funzione strumentale all'applicazione dell'art. 145 c.p.c., comma 1, parte seconda e comma 3 - deve essere fatta, se si tratti di società, in base a quanto risulta del registro delle imprese. Se tale regola sia rispettata, la notificazione può essere eseguita, secondo quanto prevede l'art. 145, comma 1, parte seconda, alla persona fisica indicata nell'atto a norma dell'art. 138 (a mani proprie), art. 139 (nel comune di residenza, o di dimora o di domicilio,presso la casa di abitazione o dove ha l'ufficio o esercita l'industria o il commercio), o art. 141 c.p.c. (presso il domiciliatario eletto).

[...]

In conclusione il ricorso deve essere respinto in applicazione dei due seguenti principi di diritto:

- in tema di notificazione alle persone giuridiche, la notificazione alla persona fisica che rappresenta l'ente, a norma dell'art. 145 c.p.c., u.c., è consentita se la notificazione alla medesima persona fisica non possa essere eseguita a norma degli artt. 138, 139 e 141 c.p.c., e non è impedita dall'esistenza di altre persone fisiche che possano rappresentare l'ente, essendo l'art. 143 c.p.c., richiamato per la forma della notificazione con il rito degli irreperibili ma non anche per le condizioni alle quali il medesimo rito è subordinato, e che sono autonomamente dettate dall'art. 145 c.p.c., sicchè non è richiesto che non vi sia il procuratore previsto nell'art. 77 c.p.c.;

- l'iscrizione nel registro delle imprese di un institore o di un procuratore generale di una società a responsabilità limitata non comporta la cessazione della legittimazione processuale dell'amministratore unico e legale rappresentante della società iscritto nel medesimo registro, ma consente al creditore di notificare l'atto a una qualsiasi delle persone fisiche che rappresentino l'ente.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 09-11-2012, n. 19457


Regime patrimoniale dei coniugi.


I due motivi di ricorso sono infondati ma la motivazione della sentenza di secondo grado, sul punto, deve essere emendata. L'art. 179, comma 1, lett. f) secondo il quale gli acquisti effettuati con il prezzo del trasferimento dei beni personali conservano tale qualità purchè ciò sia espressamente dichiarato nell'atto di acquisto, ha ad oggetto i beni diversi da quelli immobili e mobili registrati. Per questi ultimi, il comma 2, art. 179 cod. civ. richiede non soltanto la partecipazione dell'altro coniuge all'atto traslativo ma anche il concorde riconoscimento della natura personale del bene e l'effettiva sussistenza di una delle cause di esclusione della comunione tassativamente indicate nell'art. 179, comma 1, lett. c), d) ed f) (Cass. S.U. 22755 del 2009). Risulta d'immediata evidenza che il legislatore ha tenuto conto, nel dettare la disciplina degli acquisti di beni mobili ed immobili, anche della radicale diversità del regime di circolazione di tali beni, escludendo per i beni mobili la condizione della partecipazione dell'altro coniuga all'acquisto, invece necessaria anche se non sufficiente per quelli immobiliari. La circolazione dei beni mobili è, infatti, tendenzialmente deformalizzata, e la necessità dell'atto scritto anche quando prevista (come per alcuni contratti stipulati con i consumatori) dalla legge, risulta finalizzata a garantire l'osservanza del principio di buona fede da parte del contraente più forte e non ad identificare il titolare del bene o del diritto trasferito, operando, in assenza di deroghe, il principio sancito dall'art. 1153 cod. civ..

L'equilibrio tra le contrapposte esigenze costituzionali di tutela solidaristica proprie della comunione legale e di tutela della libertà d'iniziativa economica proprie della circolazione dei beni è stato raggiunto, sul piano normativo, grazie alla netta differenza di regime giuridico posta dall'art. 179 cod. civ. tra i beni immobili e i beni mobili. La medesima esigenza di operare un corretto bilanciamento tra gli interessi in conflitto è alla base dell'interpretazione, di carattere restrittivo, costantemente fornita dalla giurisprudenza di legittimità in ordine alla necessità della espressa dichiarazione richiesta dall'art. 179, comma 1, lett. f) nell'atto di acquisto, da escludersi quando non vi sia incertezza sulla natura personale del bene (compreso il denaro) impiegato ai fini dell'acquisto (Cass. n. 1556 del 1993; n. 7437 del 1994; 24061 del 2008; 10855 del 2010). La Corte, pur riconoscendo la natura non facoltativa della dichiarazione, ne afferma il carattere ricognitivo e non dispositivo (Cass. 24061 del 2008), individuandone la necessità solo quando sia effettivamente incerta la provenienza dal trasferimento di beni personali della provvista necessaria per l'atto traslativo. Pertanto, pur condividendo il rilievo della parte ricorrente in ordine all'inapplicabilità dell'art. 195 cod. civ., che riguarda le condizioni per l'esercizio del diritto al prelevamento di beni mobili in sede di divisione, da parte di ciascuno dei coniugi, deve essere condivisa la conclusione della Corte d'Appello relativa alla certa provenienza da beni personali dello Z. della provvista impiegata per l'acquisto dei titoli, trattandosi di circostanza mai posta in dubbio dalla parte ricorrente. Quest'ultima, infatti, si è limitata a contestare che l'acquisto dei valori mobiliari fosse stato integralmente effettuato con il denaro ricavato dalla vendita immobiliare effettuata nel 1994, deducendo che una parte dei titoli erano stati acquistati anteriormente, ma non ha mai contestato che la provvista destinata a tali acquisti fosse tratta dal conto corrente personale dello Z..

Cass. civ. Sez. I, Sent., 09-11-2012, n. 19454


Interessi e la liquidità del credito


Con l'unico motivo di ricorso il Ministero dell'Economia e delle Finanze lamenta la violazione o falsa applicazione dell'art. 1282 c.c., deducendo che il credito vantato da P. e G. S. non poteva considerarsi liquido ed esigibile prima dell'emissione del titolo di spesa, salva la facoltà delle creditrici di mettere in mora l'Amministrazione nel caso di colpevole ritardo nell'espletamento delle procedure di liquidazione e di pagamento. In ogni caso, secondo il ricorrente, il credito non poteva considerarsi certo, liquido ed esigibile in considerazione della pendenza di un giudizio per il suo accertamento.

Il ricorso è fondato. Invero, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, "la liquidità e l'esigibilità del credito, necessari perchè questo produca interessi ai sensi dell'art. 1282 cod. civ., possono essere escluse anche da circostanze e modalità di accertamento dell'obbligazione in ragione della natura pubblicistica del soggetto debitore, così che, qualora ai fini della decorrenza degli interessi corrispettivi sia necessario stabilire il momento in cui il credito pecuniario verso la pubblica amministrazione è divenuto liquido ed esigibile, l'accertamento di tale duplice requisito non può prescindere dal presupposto formale dell'emissione del titolo di spesa che, sia pure alla stregua di una regola di condotta interna della pubblica amministrazione (che da una norma di legge ripete la sua efficacia vincolante interna), condiziona e realizza il requisito suddetto" (Cass. 23 febbraio 2000, n. 2071; conf. Cass. 25 maggio 2005, n. 11016). Tale principio non subisce deroghe quando, come nel caso in esame, le operazioni di verifica siano particolarmente semplici e consistano nella ricognizione della valutazione della perdita precedentemente effettuata e nella applicazione del coefficiente di riliquidazione; anche in questo caso, infatti, trova applicazione il principio secondo cui i debiti dello Stato divengono liquidi ed esigibili e perciò produttivi di interessi, solo quando la relativa spesa sia stata ordinata con l'emissione del mandato di pagamento, ai sensi dell'art. 270 del regolamento di contabilità generale dello stato (R.D. 23 maggio 1924, n. 827). D'altro canto, tale principio è applicabile ai soli interessi corrispettivi, con la conseguenza che, ove ricorrano i presupposti necessari per la configurabilità della mora, i relativi interessi sono dovuti dall'amministrazione pubblica debitrice indipendentemente dall'emissione o meno del titolo di spesa.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 09-11-2012, n. 19452


Difetto di giurisdizione


Ancorchè ammissibile, il ricorso va comunque disatteso.

Invero, a completamento di un processo di rilettura dell'art. 37 c.p.c., queste Sezioni unite hanno precisato (v. sent. 24883/08), con affermazione in seguito mai disattesa, che le sentenze di appello sono impugnabili per difetto di giurisdizione soltanto se sul punto non si sia formato giudicato esplicito o implicito, posto che la relativa preclusione opera anche per il giudice di legittimità. Nel solco di tale pronunzia, queste Sezioni Unite (cfr. sent. 12905/11, 2067/11, 3200/10, 14889/09) hanno, altresì, avuto modo di puntualizzare che - allorchè il giudice di primo grado abbia pronunciato nel merito, affermando, anche implicitamente, la propria giurisdizione - la parte che intende contestare tale riconoscimento è, sul punto, tenuta a proporre appello, eventualmente in via incidentale condizionata (trattandosi di parte vittoriosa), giacchè, altrimenti, l'esame della relativa questione resta preclusa in sede di legittimità, a causa dell'intervenuta formazione di giudicato implicito sulla giurisdizione.

Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 09-11-2012, n. 19388


La perentorietà del termine per la notifica stabilito dal giudice nel decreto di fissazione dell'udienza


Il ricorso è fondato.

La Corte di merito ha fatto riferimento ad una pronuncia delle Sezioni Unite (n. 20604/08) circa la perentorietà del termine per la notifica stabilito dal giudice nel decreto di fissazione dell'udienza, in tema di appello e opposizione a decreto ingiuntivo nel processo del lavoro, così applicando allo speciale procedimento di cognizione regolato dalla L. n. 89 del 2001 un principio di elaborazione giurisprudenziale relativo a procedimenti impugnatori di provvedimenti giurisdizionali.

Il principio applicato è che non si può disporre la rinnovazione di una notificazione inesistente, quale sarebbe quella effettuata dal ricorrente che ometta di depositare nei termini l'avviso di ricevimento della notificazione effettuata a mezzo del servizio postale.

Tuttavia, questa Corte, superando un precedente orientamento in senso diverso, ha stabilito che, qualora la notificazione sia rimasta inefficace (perchè omessa o inesistente) o non ne venga dimostrato il perfezionamento, come nel caso della mancata produzione dell'avviso di ricevimento della notifica a mezzo posta, il giudice deve ordinarne la rinnovazione, stante la prevalenza del principio del giusto processo, che impone la regolare costituzione del contraddittorio (art. 111 Cost.), rispetto a quello della ragionevole durata (v. Cass. n. 8727/2011, sez. un. n. 14124/2010).

Cass. civ. Sez. I, Sent., 08-11-2012, n. 19352


Deposito del ricorso per revocazione di una sentenza in grado di appello: decorre il termine breve per impugnare ?


Essa è fondata. E' giurisprudenza della Corte di Cassazione, dalla quale il collegio non ha motivo per discostarsi, secondo la quale, il deposito del ricorso per revocazione di una sentenza in grado di appello integra, nei confronti della parte istante, conoscenza legale della sentenza agli effetti della decorrenza del termine breve per proporre ricorso per cassazione. Conseguentemente la tempestività del successivo ricorso per cassazione proposto dallo stesso soggetto deve essere verificata oltre che con riferimento al termine di un anno dal deposito della sentenza, anche con riferimento al termine di 60 giorni dalla domanda di revocazione, salvo che il giudice chiamato a pronunciarsi in sede rescindente, abbia sospeso il termine per proporre ricorso per cassazione ex art. 398 c.p.c. (Cass. n 23592 del 2004).

Cass. civ. Sez. I, Sent., 08-11-2012, n. 19344

Notificazioni e comunicazioni


Secondo i ricorrenti sussisterebbe la nullità della sentenza di 1^ grado in quanto l'istanza di fissazione di udienza depositata dagli attori davanti al Tribunale Di Torre Annunziata con il pedissequo decreto era stata notificata in unica invece che in duplice copia al procuratore di P. e D.R.. Ad avviso dei ricorrenti il principio di cui all'art. 170, comma 2, secondo cui "se il procuratore è costituito per più parti è sufficiente la consegna di una sola copia dell'atto", opererebbe solo nel caso in cui il procuratore è costituito per più parti con un'unica cumulativa procura e non quando i mandati sono separati e gli atti di costituzione egualmente.

Il motivo è infondato.

L'art. 170 c.p.c., comma 2, non pone infatti tale limitazione sulla idoneità di una sola copia dell'atto da notificare o comunicare al procuratore costituito per più parti, alla sola ipotesi che procura o atto di costituzione per più parti siano unici.

Inoltre, come questa corte ha già rilevato, tale unicità della copia dell'atto da comunicare o notificare è sufficiente anche nell'ipotesi in cui più parti siano costituite con unico procuratore, ancorchè in relazione a procedimenti riuniti, mediante consegna (a mano o per mezzo di ufficiale giudiziario) di un unico biglietto di cancelleria al procuratore medesimo (art. 170 cod. proc. civ., comma 2 ) (Cass., 8 maggio 1982, n. 2862; Cass., 2094/1979).

Cass. civ. Sez. III, Sent., 08-11-2012, n. 19297


L'ente pubblico proprietario o concessionario di una strada, risponde comunque dei pregiudizi subiti dall'utente


E' principio consolidato che l'ente pubblico proprietario di una strada extraurbana ha l'obbligo di mantenere in buono stato anche la zona non asfaltata, posta a livello tra i margini della carreggiata e i limiti della sede stradale - zona definita "banchina" dal previgente codice della strada (D.P.R. 15 giugno 1959 n. 393, art. 2) - atteso che tale area, pur normalmente destinata ai pedoni, può, in caso di necessità, temporaneamente ospitare veicoli, per manovre di breve durata o di emergenza. In tale contesto si è pertanto ritenuto che l'ente proprietario abbia l'obbligo di segnalare qualsiasi situazione di pericolo o di insidia inerente alla banchina medesima, pena, in caso contrario, la responsabilità in ordine ai danni che ne siano derivati (confr. Cass. civ. 4 giugno 2004, n. 10654; Cass. civ. 19 luglio 2002, n. 10577; Cass. civ. 9 gennaio 2002, n. 203).

Peraltro, relativamente agli oneri deduttivi e probatori che connotano la materia, questo giudice di legittimità ha ripetutamente statuito che, qualora non venga in discussione la disciplina di cui all'art. 2051 cod. civ., l'ente pubblico proprietario o concessionario di una strada, risponde comunque dei pregiudizi subiti dall'utente, secondo la regola generale stabilita dall'art. 2043 cod. civ., norma che non limita affatto la responsabilità della P.A. per comportamento colposo alle sole ipotesi di esistenza di un'insidia o di un trabocchetto. Ne deriva che, mentre spetta al danneggiato provare l'anomalia del bene, la quale va considerata fatto di per sè idoneo - in linea di principio - a configurare il comportamento colposo della P.A., incombe a quest'ultima dimostrare i fatti impeditivi della propria responsabilità, quali la possibilità in cui l'utente si sia trovato di percepire o prevedere con l'ordinaria diligenza la suddetta anomalia o l'impossibilità di rimuovere, adottando tutte le misure idonee, la situazione di pericolo (confr. Cass. civ. 9 aprile 2009, n. 8692; Cass. 6 luglio 2006, n. 15383; vedi anche Corte cost. n. 156 del 1999).

Cass. civ. Sez. III, Sent., 06-11-2012, n. 19161


Dell'obbligazione dell'Istituto di vigilare sulla sicurezza e sull'incolumità dello scolaro


Infondato è invece il primo motivo.

Ciò di cui si dolgono le ricorrenti è che la nozione di orario scolastico non sia stata estesa alla fase di ingresso nell'edificio, sì che si possa predicare la sussistenza, sin dal momento in cui l'allievo si trovi sulle scale esterne di accesso allo stabile, ovvero in area immediatamente a questo prospiciente, dell'obbligazione dell'Istituto di vigilare sulla sicurezza e sull'incolumità dello scolaro.

Ma tale assunto non è condivisibile. Esso, per vero, anticipa l'operatività del vincolo negoziale, e del connesso regime di responsabilità, a un arco spaziale e temporale dai contorni indefiniti, nel quale, per soprammercato, il personale della scuola non ha, a ben vedere, alcuna seria possibilità di esercizio delle funzioni sue proprie.

In realtà gli obblighi di sorveglianza e di tutela dell'Istituto scattano solo allorchè l'allievo si trovi all'interno della struttura, mentre tutto quanto accade prima, per esempio sui gradini di ingresso, può, ricorrendone le condizioni, trovare ristoro attraverso l'attivazione della responsabilità del custode, ex art. 2051 cod. civ.. Ne deriva che le censure formulate nel mezzo - che sono esclusivamente volte ad anticipare nel tempo la responsabilità contrattuale dell'Istituto, ignorando il profilo della responsabilità extracontrattuale del custode, trattato in chiave di vizio motivazionale nei secondo motivo di ricorso, inammissibile, per quanto innanzi detto - sono prive di pregio. 6 Non è superfluo peraltro evidenziare che l'apparato argomentativo col quale il giudice di merito ha motivato il suo convincimento in ordine alla dinamica dell'incidente e al comportamento del personale dopo l'infortunio, è logicamente corretto ed esente da aporie o da contrasti disarticolanti con il contesto fattuale di riferimento. Ne deriva che le critiche, nella parte in cui hanno ad oggetto la ricostruzione della fattispecie concreta, attraverso la surrettizia deduzione di violazioni di legge e di vizi motivazionali, in realtà inesistenti, tendono a introdurre una revisione del merito del convincimento del giudice di appello, preclusa in sede di legittimità.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 06-11-2012, n. 19160


Danno cagionato dall'alunno a se stesso


Le censure non hanno pregio.

Costituisce principio ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, sì da potersi parlare al riguardo di un vero e proprio diritto vivente, che nel caso di danno cagionato dall'alunno a se stesso, la responsabilità dell'istituto scolastico e dell'insegnante non ha natura extracontrattuale, bensì contrattuale, atteso che - quanto all'istituto scolastico - l'accoglimento della domanda di iscrizione, con la conseguente ammissione dell'allievo nella scuola, determina l'instaurazione di un vincolo negoziale, dal quale sorge a carico dell'istituto l'obbligazione di vigilare sulla sicurezza e sull'incolumità della scolaresca, nel tempo in cui questa fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni e che - quanto al precettore - tra insegnante e discente si instaura, per contatto sociale, un rapporto giuridico, nell'ambito del quale l'insegnante assume, nel quadro del complessivo obbligo di istruire ed educare, anche uno specifico dovere di protezione e vigilanza, onde evitare che l'allievo si procuri da solo un danno alla persona (confr. Cass. civ. sez. un. 27 giugno 2002, n. 9346; Cass. civ. 26 aprile 2010, n. 9906).

Corollario di tale affermazione è che, nelle controversie instaurate per il risarcimento del danno da autolesione nei confronti dell'istituto scolastico e dell'insegnante, è applicabile il regime probatorio sancito dall'art. 1218 cod. civ., sicchè, mentre l'attore deve dimostrare che il danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, sull'altra parte incombe l'onere di dimostrare che l'infortunio è stato determinato da causa non imputabile nè alla scuola nè all'insegnante.

Non è superfluo aggiungere che il richiamo al disposto dell'art. 1228 cod. civ., al fine di escludere la legittimazione passiva del Ministero, è, al postutto, capzioso.

Si è già detto, infatti che la responsabilità del precettore nei confronti dell'allievo è una responsabilità contrattuale per contatto sociale. Peraltro è assolutamente consolidata la massima che, qualora si tratti di scuola pubblica, riscontrata la responsabilità dell'insegnante, la richiesta di risarcimento del danno deve essere proposta non direttamente nei confronti del docente, ma verso il Ministero della Pubblica Istruzione. E invero, la L. 11 luglio 1980, n. 312, art. 61, comma 2, nel prevedere la sostituzione dell'Amministrazione, salvo rivalsa nei casi di dolo o colpa grave, nelle responsabilità civili derivanti da iniziative giudiziarie promosse da terzi, esclude in radice la possibilità che gli insegnanti statali siano direttamente convenuti nelle azioni di risarcimento danni da culpa in vigilando, quale che sia il titolo, contrattuale o extracontrattuale, dell'azione (confr. Cass. civ. 26 aprile 2010, n. 9906; Cass. n. 3 marzo 2010, n. 5067; Cass. civ. sez. un. 27 giugno 2002, n. 9346).

E' stato in proposito segnatamente evidenziato che, anche dopo l'estensione della personalità giuridica, per effetto della Legge Delega n. 59 del 1997 e dei successivi provvedimenti di attuazione, ai circoli didattici, alle scuole medie e agli istituti di istruzione secondaria, il personale docente degli istituti statali - i quali costituiscono organi dello Stato muniti di personalità giuridica ed inseriti nell'organizzazione statale - sì trova in rapporto organico con l'Amministrazione della Pubblica Istruzione e non con i singoli istituti, che sono dotati di mera autonomia amministrativa. E invero la figura dell'organo con personalità giuridica, qui ricorrente, implica che lo stesso abbia legittimazione di diritto sostanziale e processuale in relazione alla titolarità di rapporti giuridici, ma che resti tuttavia soggetto, proprio in ragione della sua natura di organo, alle direttive e ai controlli dell'amministrazione di appartenenza.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 06-11-2012, n. 19158



Sinistri derivanti dalla circolazione stradale


Secondo parte ricorrente la Corte d'Appello non ha correttamente applicato la normativa sopra citata e non ha fornito alcuna motivazione in ordine al superamento della presunzione di responsabilità di cui all'art. 2054 c.c..

Il motivo non può essere accolto in quanto verte sulla ricostruzione della dinamica del sinistro.

In tema di sinistri derivanti dalla circolazione stradale, infatti, l'apprezzamento del giudice di merito relativo alla ricostruzione della dinamica dell'incidente, all'accertamento della condotta dei conducenti dei veicoli, alla sussistenza o meno della colpa dei soggetti coinvolti ed alla loro eventuale graduazione, al pari dell'accertamento dell'esistenza o dell'esclusione del rapporto di causalità tra i comportamenti dei singoli soggetti e l'evento dannoso, si concreta in un giudizio di mero fatto, che resta sottratto al sindacato di legittimità, qualora il ragionamento posto a base delle conclusioni sia caratterizzato da completezza, correttezza e coerenza dal punto di vista logico-giuridico, e ciò anche per quanto concerne il punto specifico se il conducente di uno dei veicoli abbia fornito la prova liberatoria di cui all'art. 2054 c.c. (Cass., 25 gennaio 2012, n. 1028).

Cass. civ. Sez. III, Sent., 06-11-2012, n. 19155



27 novembre 2012

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Buona navigazione.

Presunzioni su conti correnti cointestati


I motivi di ricorso, che essendo connessi consentono esame congiunto, si rivelano ammissibili in rapporto anche ai formulati quesiti di diritto e fondati.

Il F. aveva fondato la sua domanda restitutoria/risarcitoria sul presupposto della responsabilità della M. per appropriazione di somme che assumeva da lei indebitamente prelevate per scopi personali, dal conto corrente bancario cointestato ad entrambi ed a firma disgiunta ma in tesi aperto ed alimentato con versamenti effettuati soltanto da lui con proprio denaro.

Al rigetto di tale domanda la Corte distrettuale è pervenuta con argomentazioni estremamente sintetiche in ordine pure ai profili fattuali della vicenda ed ai prelievi in contestazione, le quali hanno anche reso superfluo verificare se fosse o meno emersa la prova di utilizzi di denaro altrui integranti appropriazione indebita. In particolare, pur ineccepibilmente richiamando il principio secondo cui la contestazione del conto corrente bancario fa presumere la contitolarità dell'oggetto del contratto se non risulta diversamente, i giudici di merito hanno sostanzialmente ritenuto che tale presunzione non fosse stata superata e ciò essenzialmente in ragione sia dell'andamento anche temporale e dell'entità dei prelievi attuati nel tempo e sino alla chiusura del conto in questione, da ciascuno dei due coniugi cointestari e sia ravvisando una donazione indiretta in favore della cointestataria, nel cospicuo versamento iniziale ritenuto effettuato dal solo F..

Entrambe le considerate ragioni, pur inserite nel contesto coniugale, non si rivelano idonee a sostenere l'affermata conclusione negativa circa il mancato superamento della menzionata presunzione iuris tantum, che da luogo soltanto all'inversione dell'onere probatorio e può essere superata anche attraverso presunzioni semplici - purchè gravi, precise e concordanti - dalla parte che deduca una situazione giuridica diversa da quella risultante dalla cointestazione stessa (in tema cfr. Cass. n. 28839 del 2008; n. 19305 del 2006; n. 5584 del 1981).

Cass. civ. Sez. I, Sent., 06-11-2012, n. 19115

Il rifiuto di intrattenere rapporti affettivi e sessuali con il coniuge configura e integra violazione dell'inderogabile dovere di assistenza morale sancito dall'art. 143 cod. civ.


Il motivo non è fondato.

La corte territoriale risulta infatti avere adeguatamente chiarito le ragioni dell'avversata statuizione di addebito della separazione alla ricorrente, a fronte dell'emerso comportamento della ricorrente e della relativa valutazione, coerente con il dettato normativo e col principio di diritto già affermato da questa Corte (cfr cass. n. 6276 del 2005), secondo cui "Il persistente rifiuto di intrattenere rapporti affettivi e sessuali con il coniuge - poichè, provocando oggettivamente frustrazione e disagio e, non di rado, irreversibili danni sul piano dell'equilibrio psicofisico, costituisce gravissima offesa alla dignità e alla personalità del partner - configura e integra violazione dell'inderogabile dovere di assistenza morale sancito dall'art. 143 cod. civ., che ricomprende tutti gli aspetti di sostegno nei quali si estrinseca il concetto di comunione coniugale.
Tale volontario comportamento sfugge, pertanto, ad ogni giudizio di comparazione, non potendo in alcun modo essere giustificato come reazione o ritorsione nei confronti del partner e legittima pienamente l'addebitamento della separazione, in quanto rende impossibile al coniuge il soddisfacimento delle proprie esigenze affettive e sessuali e impedisce l'esplicarsi della comunione di vita nel suo profondo significato". La sussistenza del nesso di causalità tra i comportamenti addebitati ed il determinarsi dell'intollerabilità della ulteriore convivenza appare, inoltre, plausibilmente seppure implicitamente correlata alle emerse risultanze processuali, mute in ordine ad antecedenti o concomitanti ragioni di reciproca ed insuperabile conflittualità coniugale, come tali inidonee pure a dimostrare la preesistenza di una rottura già irrimediabilmente in atto e non smentite dai passi delle deposizioni trascritte nel ricorso, prive sul punto alcun decisivo rilievo contrario. Conclusivamente il ricorso deve essere respinto, con condanna della soccombente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 06-11-2012, n. 19112


Diffida ad adempiere e termine inferiore a 15 giorni.


Il motivo è infondato.

E' noto che la regola secondo cui il termine concesso al debitore con la diffida ad adempiere, cui è strumentalmente collegata la risoluzione di diritto del contratto, non può essere inferiore a quindici giorni, non è assoluta, potendosi assegnare, a norma dell'art. 1454 c.c., comma 2, un termine inferiore ritenuto congruo per la natura del contratto e per gli usi. L'accertamento della congruità dei termine costituisce un giudizio di fatto di competenza del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se esente da errori logici e giuridici (Cass. 1-9-1990 n. 9085).

Nella specie, la Corte territoriale ha ritenuto eccessivamente breve il termine di sette giorni assegnato dal F. al S. con la lettera del 3-2-2000, sul rilievo che, gravando sul promittente acquirente la scelta del notaio, la condotta adempiente pretesa con la diffida doveva comprendere anche l'ottenimento di un appuntamento con il professionista per la predisposizione e la firma del rogito.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 06-11-2012, n. 19105


Appalto privato - risarcimento danni, riduzione del prezzo e risoluzione.


Il principio, più volta affermato da questa Corte, - Cass. Sez. 2 n. 9033/2006; Cass. Sez. 2 n. 23461/2004; Cass. Sez. 2, 11602/2002 - in forza del quale il risarcimento del danno in caso di vizi dell'opera appaltata è un rimedio alternativo ed autonomo rispetto alle tutele (riduzione del prezzo e risoluzione) approntate a favore del committente dall'art. 1668 c.c., comma 2 e che può normalmente consistere nel ristoro delle spese sopportate dall'appaltante per provvedere, a cura di terzi, ai lavori ripristinatori, deve essere raccordato con la particolare natura dell'opus commissionato: se infatti l'oggetto dell'appalto è costituito dalla realizzazione di una res allora gli interventi emendativi si rapportano all'opera come sarebbe dovuta risultare se essa fosse stata realizzata a regola d'arte; se invece oggetto della commissione d'appalto sia l'esecuzione di un'attività sul bene del committente - come nella fattispecie: messa a punto dei motori - allora il risarcimento del danno che si concreti in un radicale intervento di ripristino della res - come avvenuto nel caso in esame, non rispetterà più quei criteri di proporzionalità tra oggetto dell'appalto e danno, facendo conseguire al danneggiato una res qualitativamente migliore rispetto a quella de qua antea, nella quale pure l'originario oggetto dell'appalto viene ricompreso e, quindi, una overcompensation non consentita (cfr Cass. Sez. 2 n. 1334/1996; Cass. sez 2, n. 15247/2000).

La sentenza va dunque cassata in relazione al motivo accolto;

Cass. civ. Sez. II, Sent., 06-11-2012, n. 19103


Confessione stragiudiziale e vincolo per il giudice.


Il motivo è infondato.

Per costante giurisprudenza (tra le tante, Cass., Sez. 1, 28 giugno 2005, n. 13919), la quietanza, rilasciata dal creditore al debitore all'atto del pagamento, ha natura di confessione stragiudiziale su questo fatto estintivo dell'obbligazione secondo la previsione dell'art. 2735 cod. civ., e, come tale, solleva il debitore dal relativo onere probatorio, vincolando il giudice circa la verità del fatto stesso, se e nei limiti in cui sia fatta valere nella controversia in cui siano parti, anche in senso processuale, gli stessi soggetti rispettivamente autore e destinatario di quella dichiarazione di scienza.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 06-11-2012, n. 19101


Limiti del sindacato dell'atto amministrativo consentito al giudice ordinario.


Secondo l'insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte (Cfr.S.U. n. 3721/1990) il giudizio di opposizione è formalmente costruito,come giudizio d'impugnazione dell'atto, ma tende all'accertamento negativo della pretesa sanzionatoria, nel senso che l'atto consente di accedere al giudizio di merito, tramite l'impugnazione dell'atto relativamente alla sua legittimità formale e sostanziale.

La disapplicazione, riguardando l'atto amministrativo quale presupposto della sanzione, non può trovare applicazione quando con detto giudizio di merito si investe direttamente l'atto amministrativo, potendolo il giudice ordinario disapplicare solo allorchè la valutazione della relativa legittimità avvenga in via incidentale, ossia quando l'atto non rileva come causa della lesione del diritto del privato ma come mero antecedente (Cass. 12679/09).

Nel caso in esame la sentenza impugnata ha, in realtà, disapplicato in via principale l'atto di accertamento dell'infrazione in questione, in violazione dei limiti del sindacato dell'atto amministrativo consentito al giudice ordinario. Un provvedimento amministrativo può, invero, essere disapplicato, ai sensi della L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 5, all. F), ai fini della tutela del diritto soggettivo dedotto in giudizio, ove risulti inficiato da vizi di legittimità (Cass. n. 7912/2004), al di fuori di un sindacato di merito dell'operato della P.A.. Nella specie, invece, il Giudice di Pace ha fondato la decisione sul difetto di omologazione dell'apparecchiatura utilizzata al momento dell'accertamento dell'infrazione e sulla mancanza di un operatore di polizia stradale, così censurando, in sostanza, le modalità organizzative del servizio da parte della P.A. in violazione del principio affermato da questa Corte, secondo cui il verbale di accertamento di un'infrazione stradale fa piena prova fino a querela di falso dei fatti in esso attestati dal pubblico ufficiale come avvenuti in sua presenza e descritti senza margini di apprezzamento. Incombeva, peraltro, all'opponente provare il difetto di funzionamento delle apparecchiature previste dall'art. 142 C.d.S., dimostrandone il difettoso funzionamento in base a concrete circostanze di fatto (Cass. n. 16143/2005; n. 7667/97).

Cass. civ. Sez. II, Sent., 06-11-2012, n. 19085


Obblighi del mediatore immobiliare.


La censura merita accoglimento.

Secondo l'orientamento dominante nella giurisprudenza di questa Corte, che il Collegio intende ribadire, poichè la legge n. 39 del 1989 subordina l'esercizio dell'attività di mediazione al possesso di specifici requisiti di capacità professionale, configurandola come attività professionale, l'obbligo di informazione gravante sul mediatore a norma dell'art. 1759 c.c., va commisurato alla normale diligenza alla quale è tenuto a conformarsi nell'adempimento della sua prestazione il mediatore di media capacità, e pertanto deve ritenersi che il suddetto obbligo deve riguardare non solo le circostanze note, ma tutte le circostanze la cui conoscenza, in relazione all'ambito territoriale in cui opera il mediatore, al settore in cui svolge la sua attività ed ad ogni altro ulteriore utile parametro sia acquisibile da parte di un mediatore dotato di media capacità professionale con l'uso della normale diligenza.

Tuttavia, secondo il richiamato orientamento giurisprudenziale, non rientra nella comune ordinaria diligenza, alla quale il mediatore deve conformarsi nell'adempimento della prestazione ai sensi dell'art. 1176 c.c., lo svolgimento, in difetto di particolare incarico, di specifiche indagini di tipo tecnico giuridico, quale, con riguardo al caso di intermediazione in compravendita immobiliare, quella relativa all'accertamento, previo esame dei registri immobiliari, della libertà dell'immobile oggetto della trattativa, le trascrizioni ed iscrizioni pregiudizievoli (v., tra le altre, Cass., sentt. n. 15926 del 2009, 15274 e n. 822 del 2006, n. 16009 del 2003, n. 6389 del 2001, n. 4791 del 1999. Per un caso in cui si è ritenuto che l'obbligo del mediatore di riferire alle parti le circostanze dell'affare a sua conoscenza, ovvero che avrebbe dovuto conoscere con l'uso della diligenza da lui esigibile, ricomprenda, nel caso di mediazione immobiliare, le informazioni sulla esistenza di iscrizioni o trascrizioni pregiudizievoli, v. Cass., sent. n. 16382 del 2009).

Cass. civ. Sez. II, Sent., 06-11-2012, n. 19075


Prescrizione e decadenza in materia previdenziale.


Che è invece fondato il secondo motivo di ricorso con il quale si deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 639 del 1970, art. 47, del D.L. n. 103 del 1991, art. 6, conv. in L. n. 166 del 1991 e del D.L. n. 348 del 1992, art. 4, conv. in L. n. 438 del 1992, per avere la Corte territoriale ritenuto applicabile il regime decadenziale, delineato dalle norme richiamate, anche alla domanda di riliquidazione di prestazione già attribuita dall'Istituto previdenziale;

che invero, secondo l'orientamento prevalente di questa Corte, consolidatosi con recente pronuncia delle Sezioni unite (v. Sez.un. n. 12720 del 2009 - che conferma le tesi della precedente Cass. Sez. un. n. 6491 del 1996), decadenza di cui al D.P.R. n. 639 del 1970, art. 47, al D.L. n. 103 del 1991, art. 6, conv. in legge n. 166 del 1991 e all'ari. 4 d.l. n. 348 del 1992 conv. in L. n. 438 del 1992, non trova applicazione in tutti quei casi in cui la domanda giudiziale sia intesa non già al riconoscimento del diritto alla prestazione previdenziale in sè considerata, ma solo all'adeguamento della prestazione già ottenuta, perchè riconosciuta solo in parte e liquidata in un importo inferiore a quello dovuto;

che la correttezza della ricostruzione del quadro normativo di riferimento nei termini sopra richiamati, risulta indirettamente avvalorata, secondo quanto osservato da una recente pronunzia di questa Corte (Cass. n. 7245 del 2012), dal D.L. n. 98 del 2011, art. 38, comma 1, lett. d), convertito in L. n. 111 del 2011, che ha integrato, con ulteriore comma, l'art. 47, prevedendo l'assoggettabilità a decadenza (con decorrenza dal riconoscimento parziale della prestazione ovvero dal pagamento della sorte) delle azioni giudiziarie aventi ad oggetto l'adempimento di prestazioni riconosciute solo in parte o il pagamento di accessori del credito e l'applicabilità di tale disciplina anche ai giudizi pendenti in primo grado al momento di entrata in vigore della norma. Come, infatti, sottolineato nella richiamata sentenza n. 7245/2012, la espressa previsione di una limitata efficacia retroattiva del regime decadenziale rivela la consapevolezza nel legislatore del carattere modificativo della disposizione introdotta rispetto alla regola preesistente, quale consolidatasi per effetto della recente pronuncia delle Sezioni unite del 2009;

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 06-11-2012, n. 19072


Credito risarcitorio spettante all'espropriato.


Il ricorso è fondato.

Non è anzitutto esatto che la giurisprudenza di questa Corte sia divisa in due diversi indirizzi per la individuazione della data di irreversibile trasformazione del fondo privato (dal quale far decorrere anche la prescrizione del credito risarcitorio spettante all'espropriato): poichè fin dalle prime pronunce sulla c.d. occupazione espropriativa (cfr. Cass.2369/1985;2872/1985; sez.un. 1464/1983;3940/1988 ecc.),cui non ha fatto attenzione la Corte territoriale, ha distinto l'ipotesi in cui la radicale trasformazione dell'immobile si realizza durante il protrarsi di una situazione di detenzione illegittima, da quella in cui si verifica invece nel corso del periodo in cui l'utilizzazione del bene è autorizzata da un decreto di occupazione. Ha costantemente avvertito che in tal caso (e solo in tal caso),a differenza del primo, il momento consumativo dell'illecito deve essere differito alla scadenza dell'occupazione legittima: perchè tutto quanto sì produce durante il periodo suddetto ha, per definizione, il carattere della legittimità ed è quindi improduttivo di danno nei termini di cui all'art. 2043 c.c..

Nella fattispecie, la sentenza impugnata ha riconosciuto che l'asserito evento ablativo si è realizzato nel corso dell'anno 1985, durante il periodo di occupazione temporanea, allorchè il fondo era legittimamente detenuto dal comune in base al decreto 17 dicembre 1984; sicchè, tenuto conto che il verbale di immissione in possesso recava la data del 21 gennaio 1985,e che l'occupazione era autorizzata per un periodo di tre anni, prorogati ex legge di altri due dal D.L. n. 54 del 1987, art. 14 (conv., nella L. n. 47 del 1988), la stessa andava a scadere il 21 gennaio 1990: dalla quale conseguentemente è iniziato a decorrere il termine di prescrizione, subito interrotto (definitivamente) dalla citazione introduttiva del presente giudizio.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 05-11-2012, n. 18936


Dispositivo e motivazione della sentenza: il primo cristallizza il tutto.


Come ribadito, tra le ultime, nella pronuncia 21885/2010, è infatti ius receptum che nel rito del lavoro il dictum si esprime nel dispositivo della sentenza letto in udienza, il quale assume rilevanza autonoma in quanto contenente gli elementi del comando giudiziale che non possono essere mutati in sede di redazione della motivazione (cfr. ex plurimis: Cass. 279/1996; Cass. 9131/1992; Cass. 505/1938); il principio dell'interpretazione del dispositivo della sentenza mediante motivazione (Cass. 5337/2007), benchè applicabile anche nel rito del lavoro, inoltre, non può sanare contrasti irriducibili fra motivazione e dispositivo dovendo in tal caso darsi la prevalenza al secondo che, acquistando pubblicità con la lettura fattane in udienza, cristallizza stabilmente la statuizione emanata nella concreta fattispecie (Cass. 10095/1998).

Cass. civ. Sez. I, Sent., 05-11-2012, n. 18929


Il c.d. minimale contributivo.


Il ricorso principale è fondato e va pertanto accolto.

L'orientamento della giurisprudenza di legittimità è del tutto costante sin dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 11190 del 29 luglio 2002, la quale ha affermato il principio secondo cui l'importo della retribuzione da assumere come base di calcolo dei contributi previdenziali non può essere inferiore all'importo di quella che ai lavoratori di un determinato settore sarebbe dovuta in applicazione dei contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali più rappresentative su base nazionale (cd. "minimale contributivo"), secondo il riferimento ad essi fatto - con esclusiva incidenza sul rapporto previdenziale - dal D.L. 9 ottobre 1989 n. 338, art. 1 (convertito in L. 7 dicembre 1989 n. 389), senza le limitazioni derivanti dall'applicazione dei criteri di cui all'art. 36 Cost. (cd. "minimo retributivo costituzionale"), che sono rilevanti solo quando a detti contratti si ricorre - con incidenza sul distinto rapporto di lavoro - ai fini della determinazione della giusta retribuzione (da ultimo, Cass. n. 16 del 5 gennaio 2012).

La sentenza impugnata non ha deciso in modo conforme a tale principio di diritto e va, pertanto, cassata.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 05-11-2012, n. 18915


A chi spetta il potere di rappresentare la società commerciale di persone dopo la cancellazione ?


Il primo motivo del ricorso pone il quesito relativo a chi spetti il potere di rappresentare la società commerciale di persone dopo la cancellazione, questione che si inquadra nell'ambito del più generale problema degli effetti della cancellazione delle società commerciali di persona;

- le S.U., con le sentenze del 22 febbraio 2010, nn. 4060, 4061 e 4062 -superando il precedente orientamento di questa Corte, affermatosi prima della riforma del diritto societario e secondo cui l'estinzione della società si verificava nel momento della completa definizione dei rapporti con i terzi - hanno statuito che una lettura costituzionalmente orientala dell'art. 2495 c.c., comma 2, come modificato dal D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, art. 4 nella parte in cui ricollega alla cancellazione dal registro delle imprese l'estinzione immediata delle società di capitali, impone un ripensamento della disciplina relativa alle società commerciali di persone, in virtù del quale la cancellazione, pur avendo natura dichiarativa, consente di presumere il venir meno della loro capacità e soggettività limitata, negli stessi termini in cui analogo effetto si produce per le società di capitali, rendendo opponibile ai terzi tale evento, contestualmente alla pubblicità nell'ipotesi in cui essa sia stata effettuata successivamente all'entrata in vigore del D.Lgs. n. 6 del 2003, e con decorrenza dal 1 gennaio 2004 nel caso in cui abbia avuto luogo in data anteriore;

- in tale nuova prospettiva, recentemente le Sezioni Unite sono state investite della questione di massima di particolare importanza degli effetti della cancellazione della società, con riferimento, in particolare, all'esistenza - all'atto dell'estinzione - di eventuali rapporti ancora pendenti delle predette società ovvero di sopravvenienze attive o passive o di altri rapporti comunque collegati al patrimonio societario in astratto estinto e concretamente ancora in vita (Cass. sez. 1, O.I., 18 giugno 2012, n. 9943);

- risulta evidente che la questione rimessa alle Sezioni Unite è rilevante anche nel presente giudizio, in cui - più specificamente - si pone il problema, strettamente ad essa connesso, relativo all'individuazione del soggetto cui spetti la titolarità dei poteri rappresentativi della società commerciale di persone cancellata dal registro delle imprese;

Cass. civ. Sez. II, Ord., 05-11-2012, n. 18905


Distanze legali - inspectio e prospectio


Sul primo motivo va richiamato l'ormai consolidato orientamento di questa Suprema Corte.

La scala di un edificio, pur avendo una sua peculiare funzionalità, configura una veduta, e soggiace quindi alla relativa disciplina, quando, per le particolari situazioni e caratteristiche di fatto, risulti obiettivamente destinata, in via normale, anche all'esercizio della "prospectio" ed "inspectio" su o verso il fondo del vicino (Cass. 16 marzo 1981, n. 1451).

Quando da un pianerottolo sia possibile esercitare una comoda "inspectio" e "prospectio" e tale esercizio rappresenti un uso normale dell'opera, considerata alla stregua dei suoi elementi obiettivi di carattere strutturale e funzionale, a nulla rileva che essa serva anche a collegare la rampe di una scala, in quanto tale diversità non vale ad esercitare l'obiettiva esistenza di una servitù di veduta (Cass. 4 agosto 1977 n. 3502).

Le porte, i ballatoi e le scale di ingresso alle abitazioni, che in genere non costituiscono vedute, in quanto destinate fondamentalmente all'accesso, e solo occasionalmente od eccezionalmente utilizzabili per l'affaccio, possono configurare vedute quando, per le particolari situazioni e caratteristiche di fatto, risultino obiettivamente destinate, in via normale, anche all'esercizio della "prospectio" ed "inspectio" su o verso il fondo del vicino (Cass. 6 marzo 1976 n. 763, etc.).

In sostanza, il fatto che obbiettivamente sia possibile la "inspectio" e la "prospectio" comporta la configurabilità di una veduta normale, a prescindere dalla destinazione primaria al manufatto di cui ciò si verifica, se per tale esercizio non bisogna far ricorso all'ausilio di mezzi artificiali per sporgersi od affacciarsi.

Il Giudice di merito deve accertare l'oggettiva idoneità all'inspicere ed inspicere in attunum (Cass. 13.10.2004, n. 20205).

Ciò premesso, poichè la Corte di appello pur richiamando in generale i principi in astratto applicabili, non ha spiegato in concreto la situazione in ordine alla possibilità di inspectio e prospectio, la sentenza va cassata sul punto per un nuovo esame.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 05-11-2012, n. 18904


Simulazione dei contratti - eredi - abbandono della domanda non riproposta in sede di p.c.


Giova invero precisare che, nella fattispecie, l'attore non aveva proposto una domanda di riduzione e neppure di collazione, ma una domanda di accertamento di una simulazione relativa (costituita dalla falsa intestazione dell'immobile) per cui tale azione soggiaceva alle precise limitazioni previste dall'art. 1417 c.c. non potendo l'attore ritenersi quale terzo rispetto al negozio. A questo riguardo ha precisato questa S.C. che: "la prova della simulazione di un contratto solenne, stipulato da un soggetto poi deceduto, da parte degli eredi al medesimo succeduti a titolo universale, ed allo scopo di far ricomprendere l'immobile tra i beni facenti parte dell'asse ereditario, soggiace a tutte le limitazioni previste dalla legge (art. 1417 cod. civ.) per la prova della simulazione tra le parti, atteso che gli eredi, versando nelle stesse condizioni del "de cuius", non possono legittimamente dirsi "terzi" rispetto al negozio; deve pertanto escludersi a tal fine la prova per testimoni, per presunzioni ed a mezzo di interrogatorio formale diretto a provocare la confessione della controparte" (Cass. n. 6632 del 24/03/2006).

[...]

Secondo questa S.C. "l'omessa riproposizione, all'udienza di precisazione delle conclusioni, di alcune delle domande formulate nel corso del giudizio, o il semplice richiamo alle conclusioni originariamente proposte con l'atto di citazione introduttivo del giudizio, sono circostanze sufficienti a far presumere l'abbandono delle domande non riproposte, se dalla complessiva condotta della parte non si evidenzia in modo inequivoco l'intento di mantenere ferme tutte le domande, nonostante la materiale omissione di alcune di esse (Cass. n. 14783 del 02/08/2004; Cass. n. 10569 del 03/06/2004).

Questa Corte ha altresì ribadito che "la omessa riproduzione nelle conclusioni definitive di cui all'art. 189 c.p.c., di una delle domande proposte con l'atto di citazione implica soltanto una mera presunzione di abbandono della stessa, sicchè il giudice del merito, al quale spetta il compito di interpretare la volontà della parte, è tenuto ad accertare se, malgrado la materiale omissione, sussistano elementi sufficienti - ricavabili dalla complessiva condotta processuale o dalla stretta connessione della domanda non riproposta con quelle esplicitamente reiterate - per ritenere che la parte abbia inteso insistere nella domanda pretermessa in dette conclusioni. Tale presunzione deve ritenersi peraltro inoperante se, su invito del giudice, le parti abbiano precisato le conclusioni in ordine ad una questione preliminare di merito o pregiudiziale di rito (Cass. n. 14964 del 28/06/2006).

Cass. civ. Sez. II, Sent., 05-11-2012, n. 18902


In tema delle impugnazioni delle delibere dell'assemblea condominiale.


Da ultimo, deve segnalarsi che, sullo specifico tema delle impugnazioni delle delibere dell'assemblea condominiale, le Sezioni unite di questa Corte, con la sentenza n. 8491 del 2011, hanno affermato il principio secondo il quale tali impugnazioni si propongono con citazione, e non con il ricorso, e che tuttavia sono valide anche quelle proposte a mezzo di ricorso purchè il relativo atto sia depositato in cancelleria entro il termine di trenta giorni previsto dall'art. 1137 cod. civ., essendo irrilevante che la notificazione dell'atto avvenga in un momento successivo. Tale affermazione è peraltro riferita ad una fattispecie specifica. Ad una diversa soluzione è, invece, pervenuta la giurisprudenza di legittimità con riferimento alla questione della sanatoria di impugnazione proposta in generale nel rito ordinario con ricorso, anzichè con citazione, come prescritto, ovvero anche di quella erroneamente proposta secondo il rito ordinario allorchè questo sia già stato seguito nella trattazione della causa. Al riguardo, secondo l'indirizzo consolidato - del quale costituiscono espressione, tra l'altro, tra le più recenti, le sentenze della Sezione Seconda n. 6412 del 21 marzo 2011 e della Sezione Terza n. 12290 del 2011, la sanatoria è ammissibile solo se l'atto introduttivo del giudizio di appello sia stato non solo depositato nella cancelleria del giudice competente, ma anche notificato alla controparte nel termine perentorio di cui all'art. 325 cod. proc. civ..

Cass. civ. Sez. II, Ord., 05-11-2012, n. 18900


Fermo amministrativo e giurisdizione.


Il giudice tributario ha rilevato che il fermo amministrativo opposto concerne entrate patrimoniali ed ha, pertanto, contestato, sulla base della giurisprudenza delle Sezioni Unite (Cass. S.U. n. 14831 del 2008), la declinatoria di giurisdizione emessa dal giudice ordinario, che avrebbe dovuto, invece, trattenere la causa.

La posizione espressa dal giudice rimettente è corretta. La giurisprudenza di queste Sezioni Unite ha costantemente ribadito che la giurisdizione su controversie relative a qualunque fermo amministrativo spetta al giudice al quale è attribuita la cognizione della controversia sul diritto che da detto fermo è cautelato, giacchè sussiste uno stretto collegamento tra siffatta misura cautelare ed il diritto per la cui provvisoria tutela essa è concessa (Cass. S.U. 6 aprile 2012, n. 5575).

Poichè nel caso di specie il fermo è riferito a mancato pagamento di violazioni del codice della strada, il conflitto va risolto nel senso che spetti al giudice ordinario conoscere della causa che concerne esclusivamente entrate patrimoniali. Il giudice ordinario cui spetta di conoscere la causa deve essere individuato, ai sensi dell'art. 9 c.p.c., comma 2, nel Tribunale territorialmente competente, innanzi al quale devono essere rimesse le parti. Lo stesso Giudice provvederà anche in ordine alle spese dell'intero giudizio.

Cass. civ. Sez. Unite, Ord., 02-11-2012, n. 18880


Usucapione - atto di acquisto ed espressa menzione della servitù.


Il nono motivo denunzia violazione e/o falsa applicazione dell'art. 1146 cod. civ., comma 2, assumendo l'erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso che la società convenuta potesse unire, ai fini del perfezionamento del termine per usucapire, il proprio periodo di possesso con quello dei suoi danti causa, in ragione del fatto che la predetta servitù non era menzionata nel suo atto di acquisto, laddove, sostiene la ricorrente, ai fini dell'accessione nel possesso è sufficiente il trasferimento del bene in favore del quale è esercitato il possesso della servitù.

Il motivo è fondato.

L'art. 1146 cod. civ., comma 2, dispone che "il successore a titolo particolare può unire al proprio possesso quello del suo autore per goderne gli effetti ". La questione di diritto sollevata dal ricorso può essere riassunta nel quesito se, ai fini dell'accessione del possesso di una servitù in capo al successore a titolo particolare del fondo preteso dominante, occorra che la servitù sia menzionata nell'atto di acquisto ovvero sia sufficiente l'acquisto del fondo. La Corte di appello ha optato per la prima soluzione, facendo proprio un indirizzo che può contare su alcuni arresti di questa Corte (Cass. n. 3177 del 2006; Cass. n. 18750 del 2005; attengono invece a fattispecie diverse ed esprimono pertanto orientamenti non assimilabili a quello in esame le decisioni di questa Corte n. 6353 del 2010 e n. 22348 del 2011, richiamate dalla società controricorrente nella propria memoria). La ragione di tale scelta risiede nel rilievo che l'art. 1146 cod. civ., comma 2, contempla l'istituto della accessione del possesso in favore del solo " successore a titolo particolare ", qualifica che necessariamente richiede che chi lo invoca sia provvisto di un titolo astrattamente idoneo al trasferimento del diritto oggetto del possesso, ancorchè invalido o a non domino.

Questa motivazione non appare però convincente ed è stata sottoposta a consapevole revisione da parte di questa Corte che, con la sentenza n. 20287 del 2008, ha affermato che l'accessione del possesso della servitù, ai sensi dell'art. 1146 cod. civ., comma 2, si verifica, a favore del successore a titolo particolare nella proprietà del fondo dominante, anche in difetto di espressa menzione della servitù nel titolo traslativo della proprietà del fondo. Il Collegio ritiene di aderire a questo più recente orientamento. In suo favore depone, come pure è stato evidenziato, la considerazione che la servitù ha carattere accessorio rispetto alla res principale, qualità che fa sì che, come generalmente si ammette, per il principio della cd. ambulatorietà, essa si trasferisca assieme alla titolarità del fondo dominante anche in assenza di una sua espressa menzione nell'atto di trasferimento (Cass. n. 20817 del 2011; Cass. n. 17301 del 2006; Cass. n. 6680 del 1995).

Cass. civ. Sez. II, Sent., 31-10-2012, n. 18909


Curatore fallimentare e riscatto di polizza vita.


Risolvendo un precedente contrasto manifestatosi nella giurisprudenza di questa corte, infatti, le Sezioni unite, con la sentenza n. 8271 del 31 marzo 2008, hanno escluso che il curatore fallimentare sia legittimato ad agire nei confronti dell'assicuratore per ottenere il valore di riscatto di una polizza sulla vita stipulata dal fallito, in quanto tale rapporto assolve ad una funzione previdenziale e, come tale, rimane estraneo al fallimento. Ne consegue che detto valore di riscatto non rientra tra i beni compresi nell'attivo fallimentare, nè la funzione previdenziale riconoscibile al contratto assicurativo può dirsi circoscritta alle sole somme corrisposte a titolo d'indennizzo o risarcimento.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 31-10-2012, n. 18841


Cassette di sicurezza


Nel caso in esame, lo stesso fatto storico del furto è, invece, controverso e quindi bisognoso di prova: tanto più, alla luce della mancanza di segni di effrazione sulla cassetta di sicurezza ed in carenza di una plausibile ricostruzione delle modalità esecutive della sottrazione dei valori asseritamente ivi contenuti.

Sotto questo profilo, la denunzia penale finisce, allora, con l'acquisire un peso specifico innegabile nell'accertamento dell'evento dannoso, costituendo atto giuridicamente impegnativo e fonte di responsabilità, se accertato non veritiero (art. 367 cod. pen.). Tale, comunque, da determinare l'apertura di indagini da parte della polizia giudiziaria, in funzione della ricostruzione attendibile dell'accaduto: e dunque quanto meno a conferma indiretta della verità storica della commissione del reato.

La sua omissione ha impedito, per contro, qualsiasi indagine al riguardo; con il risultato di lasciare del tutto sprovvista di prova, anche indiziaria, l'allegazione dell'episodio criminoso: non essendo sufficiente, al riguardo, la concomitanza temporale del fatto con il trasloco delle cassette di sicurezza in altra agenzia, in assenza di analoghe denunzie di sottrazione da parte di terzi.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 31-10-2012, n. 18840


La domanda ex art. 2901 c.c. per atti del debitore poi fallito.


Al quesito deve essere data risposta negativa, con conseguente rilievo d'ufficio dell'improcedibilità dell'azione promossa da BNL contro A.C.. Infatti, secondo la giurisprudenza costante e consolidata di questa Corte, la domanda ex art. 2901 c.c. rivolta ad ottenere la declaratoria di inefficacia dell'atto di alienazione posto in essere dal debitore poi dichiarato fallito, va dichiarata improcedibile, in quanto la legittimazione all'esercizio dell'azione spetta in via esclusiva al curatore, il quale agisce come sostituto processuale della massa dei creditori, privati della legittimazione ad iniziare o proseguire l'azione per tutta la durata della procedura fallimentare, nonchè come sostituto processuale del debitore fallito, il quale perde la capacità di stare in giudizio rispetto ai rapporti patrimoniali compresi nel fallimento (per tutte Cass. S.U. n. 29420/08).

Cass. civ. Sez. I, Sent., 31-10-2012, n. 18839

Il criterio dell'estrazione a sorte previsto dall'art. 729 cod. civ.


Questa Corte ha già avuto modo di chiarire che il criterio dell'estrazione a sorte previsto dall'art. 729 cod. civ. nel caso di uguaglianza di quote a garanzia della trasparenza delle operazioni divisionali contro ogni possibile favoritismo - applicabile anche nell'ipotesi di divisione dei beni comuni, in virtù del rinvio recettizio di cui all'art. 1116 cod. civ. - non ha carattere assoluto, ma soltanto tendenziale, ed è pertanto derogabile in base a valutazioni prettamente discrezionali, che possono attenere non soltanto a ragioni oggettive legate alla condizione funzionale ed economica dei beni, quale risulterebbe dall'applicazione della regola del sorteggio, ma anche a fattori soggettivi di apprezzabile e comprovata opportunità, la cui valutazione è sindacabile in sede di legittimità soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione (Cass. n. 21319 del 2010; Cass. n. 1091 del 2007).

Cass. civ. Sez. II, Sent., 31-10-2012, n. 18836


Preliminare di compravendita di alloggio di edilizia economica.


Il motivo è fondato.

Va, anzitutto, osservato che il contratto preliminare di compravendita di un alloggio di edilizia economica e popolare, concluso nel periodo di inalienabilità del medesimo, può essere considerato valido e suscettibile di produrre effetti quando prevede la stipulazione di un contratto definitivo dopo la scadenza del periodo cennato. Tuttavia, il giudice del merito deve, pur sempre compiere, e ancor di più, se richiesto dalla parte interessata, un accertamento in fatto verificando l'esistenza del collegamento tra i due negozi (contratto preliminare e contratto definitivo), i motivi del preliminare e le effettive necessità abitative dell'assegnatario nonchè le ragioni del promissario acquirente, il godimento dell'immobile da parte di lui e il pagamento delle rate, per stabilire se il preliminare di per sè lecito,sia stato impiegato dalle parti come strumento per eludere il divieto di rivendere gli immobili di edilizia popolare ed economica, se, cioè, in virtù del collegamento tra il preliminare e la vendita definitiva le parti abbiano inteso realizzare un'unica causa complessa, un'unica attività negoziale, in frode alla legge, causativa della nullità del contratto preliminare.

La Corte catanese avrebbe dovuto - e non sembra lo abbia fatto - ricostruire l'effettiva volontà delle parti avuto riguardo non solo al senso letterale delle parole ma al comportamento antecedente coevo e successivo alla stipulazione del contratto stesso. Avrebbe dovuto, cioè, accertare quale fosse il reale significato del pagamento del prezzo a breve distanza dalla stipula del contratto preliminare e quale significato assumesse il trasferimento del possesso al promissario acquirente nonchè l'accollo del promissario acquirente degli oneri delle opere di miglioria e conservazione dell'immobile condominiale considerando che la L. n. 513 del 1977, art. 28 prevede che: "per un periodo di tempo di dieci anni dalla data di stipulazione del contratto e comunque fino a quando non ne sia stato pagato l'intero prezzo, l'alloggio acquistato non può essere alienato a nessun titolo nè su di esso può costituirsi alcun diritto reale di godimento". Alla luce dell'art. 28, appena richiamato, non era sufficiente evidenziare che i dati indicati non fossero incompatibili con l'intento di stipulare un semplice contratto preliminare di vendita o che le stesse integrassero un'anticipazione delle prestazioni del futuro contratto, soprattutto tenuto conto che nel contratto preliminare non era stata prevista alcuna data collocata in un tempo successivo a quella dell'inalienabilità del bene.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 31-10-2012, n. 18833


Cessione in proprietà ad un terzo del lastrico solare e diritto di sopraelevazione.


Alla stregua dell'orientamento espresso da questa Corte con la sentenza n. 1916 del 1987, che il Collegio intende ribadire, nell'ipotesi di cessione in proprietà ad un terzo del lastrico solare e del diritto di sopraelevazione, effettuata da chi ne era titolare anteriormente alla costituzione del condominio, non solo il lastrico solare rimane escluso dalla presunzione legale di proprietà comune, ma, nel caso di sopraelevazione, esso rimane di proprietà del titolare del precedente lastrico, indipendentemente dalla proprietà della costruzione. Il diritto di superficie, infatti, salvo che il titolo non ponga limiti di altezza al diritto di sopraelevazione, non si esaurisce con l'erezione della costruzione sul lastrico, nè il nuovo lastrico si trasforma in bene condominiale, poichè il titolare della superficie, allorchè eleva una nuova costruzione, anche se entra automaticamente nel condominio per le parti comuni ad esso, ha un solo obbligo nei confronti dello stesso, cioè quello di dare un tetto all'edificio, ma resta sempre titolare del diritto di sopralzo che è indipendente dalla proprietà della costruzione. E, dunque, il titolare della superficie non subisce alcuna limitazione all'esercizio del diritto di sopraelevazione.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 31-10-2012, n. 18822


La volontà delle parti e modalità di svolgimento del rapporto di lavoro.


Vero è invece che la Corte territoriale si è fondata, quanto alla qualificazione del rapporto, sulla volontà manifestata dalle parti, che era quella di instaurare un regime di subordinazione, come dimostrato dalla rituale procedura di assunzione, dal rilascio delle buste paga e al regolare versamento della contribuzione.

Ciò premesso la Corte ha considerato che non vi erano elementi idonei a contraddire quella che era stata la volontà delle parti, così attenendosi alla giurisprudenza di legittimità, che impone in ogni caso di prendere atto di tale volontà ma di verificare poi che le modalità di svolgimento di fatto del rapporto fossero coerenti con la volontà manifestata, essendosi ritenuto (tra le tante Cass. n. 17455 del 27/07/2009) che In tema di distinzione tra il rapporto di lavoro subordinato e il rapporto di lavoro autonomo, le concrete modalità di svolgimento del rapporto prevalgono sulla diversa volontà manifestata nella scrittura privata eventualmente sottoscritta dalle parti, ben potendo le qualificazioni riportate nell'atto scritto risultare non esatte, per mero errore delle parti o per volontà delle stesse, che intendano usufruire di una normativa specifica o eluderla. La valutazione degli elementi probatori, ivi compresa l'interpretazione degli atti scritti, è attività istituzionalmente riservata al giudice di merito, insindacabile in cassazione se non sotto il profilo della congruità della motivazione del relativo apprezzamento.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 31-10-2012, n. 18792


TSO - misura cautelare- gravame


Il motivo è fondato.

Se è vero che il ricorso deve avere ad oggetto "il provvedimento convalidato dal giudice tutelare", si deve tenere presente che il trattamento che dispone (o proroga) il TSO incide sulla libertà personale (del soggetto ad esso sottoposto) in misura analoga a quanto avviene con le ordinanze impositive di misure cautelari: ciò giustifica l'applicazione al primo dei principi, in materia di gravame, propri delle seconde, in ragione dello stretto collegamento tra il provvedimento inflittivo della misura e quello emesso in sede di riesame o revisione. Ne consegue che il provvedimento del sindaco che rigetta (o, come nella specie, dichiara inammissibile o improcedibile) la richiesta di revoca o modifica del provvedimento convalidato e inflittivo del trattamento è reclamabile dinanzi al tribunale, ai sensi dell'art. 35, comma 8, della medesima legge.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 31-10-2012, n. 18718