Appunti e lezioni di diritto

Questa sezione è dedicata ad un mio personale ripasso del diritto civile, penale e amministrativo. 
Con l'occasione, cari lettori, spero che questo mio intervento possa essere utile anche a Voi tutti.
Per gli operatori del diritto, sarà da stimolo per segnalare opportune precisazioni ed aggiornamenti del caso. Grazie e buona lettura.


DIRITTO CIVILE

14.7.2012 (12° appuntamento) (segue dal 7.7.2012)


LA COMPENSAZIONE

La compensazione (comp.) è regolata dal cc in una disciplina che la individua in 3 forme:

1-       comp. legale
2-       comp. giudiziale
3-       comp. volontaria

1- La comp. legale opera di diritto ed ha per presupposto l’esistenza di reciproci rapporti debito-credito tra debitore e creditore a condizione che tali rapporti siano reciproci (tra gli stessi soggetti), omogenei (stessa natura), per somme liquide (determinate nell’ammontare) ed infine esigibili (per somme scadute). In tal caso le corrispondenti poste di debito-credito si estinguono nelle medesime quantità, salvo il residuo che sarà dovuto. Ma quanto automatica sia la comp. legale, è necessario che sia oggetto di eccezione (eccezione preliminare di merito in senso tecnico: non rilevabile d’ufficio) da parte del soggetto (al tempo stesso debitore/creditore) a cui viene chiesto di pagare. In difetto di eccezione il deb. chiamato al pagamento è tenuto a pagare correndo il rischio di incorrere nella mora debendi salva la possibilità di far valere in separata sede autonomamente il proprio controcredito.

2- La comp. giudiziale è quel modo di estinzione del rapporto obb. pronunciato/dichiarato dal giudice. Nel giudizio, stante le eccezioni proposte, il giudice rigetta, per quanto di ragione in tutto o in parte la domanda, avendo accertato e dichiarato l’avvenuta comp. che infatti presenta tutti i requisiti della comp. legale (crediti reciproci, omogenei ed esigibili) meno uno: della liquidità. A maggior ragione in tale contesto risulta l’attività della parte perché non basterà una semplice eccezione di parte ma l’eccezione di comp. dovrà essere accompagnata da una richiesta di liquidazione dell’ammontare del controcredito. Avvocatiziamente nella gran parte dei casi si preferisce, in presenza di una parziale comp. giudiziale (per crediti omogenei, reciproci esigibili ma illiquidi), non limitarsi a formulare una semplice eccezione di comp. bensì proporre una domanda riconvenzionale, avente ad oggetto la determinazione del quantum sul quale poi far valere l’eccezione di comp. giudiziale: domanda non di condanna ma volta all’accertamento del quantitativo del controcredito eccepito, con ciò predisponendo gli strumenti che poi consentiranno a pieno titolo di eccepire la comp. (è preferibile perché si potrebbe correre il rischio di vedersi ritenere inammissibile l’eccezione di comp. giudiziale fatta tout cour in quanto i crediti sono illiquidi; perciò il giudice non deve solo “ratificare” la comp. ma deve necessariamente determinare l’ammontare dei crediti per procedere a comp. e ciò non lo può fare se non previa specifica domanda della parte interessata alla comp. giudiziale -non potendo fare uso della propria scienza privata-)

3- La comp. volontaria è quella che le parti volontariamente realizzano per il solo fatto della sussistenza di rapporti di credito-debito reciproci a prescindere dalla liquidità ed esigibilità: sotto tale profilo tale comp. volontaria assume la natura (secondo una delle accezioni più accreditate) di negozio di accertamento dove le parti si danno reciprocamente atto che per determinate somme e rapporti è intervenuta la reciproca estinzione delle partite debitorie e creditorie proprio per comune volontà delle parti. È un contratto e può avere embrionalmente un contenuto novativo o transattivo.

LA CONFUSIONE

Non solo è un modo di estinzione dell’obb. diverso dall’adempimento, ma opera anche nel settore dei diritti reali (es. alla morte dell’usufruttuario -art. 979 cc- o per cessioni successive -art. 980 cc-, l’usufrutto si estingue per consolidamento nella stessa persona della nuda proprietà e dell’usufrutto; in ipotesi di servitù, divenire proprietario del fondo dominante e del fondo servente ecc).
Per le obb. quando si riunisce nello stesso soggetto la figura dei creditore e debitore si ha, appunto, confusione e ciò non in forza di più rapporti debito-credito (ci sarebbe altrimenti compensazione e non confusione), ma in virtù del medesimo rapporto debito-credito. Es. può accadere che nella cessione del credito l’ultimo cessionario sia il creditore stesso: il rapporto si estingue per confusione.
Il settore in cui è più frequente tale modo di estinzione dell’obb. è dei titoli di credito destinati alla circolazione: assegni (circolari, bancari) cambiali, pagherò ecc..




°°°



7.7.2012 (11° appuntamento) (segue dal 30.6.2012)

GLI INTERESSI CORRISPETTIVI

L’interesse corrispettivo (int. corr.) trova la sua disciplina nell’art. 1282 cc e consiste nel corrispettivo che una parte deve all’altra in considerazione della sopravvenuta disponibilità di una somma di denaro liquida ed esigibile.
I presupposti per la debenza dell’int. corr. sono diversi dai presupposti per la debenza dell’interesse moratorio (che costituisce una forma di liquidazione legale di danno): infatti, mentre questo ultimo presuppone un ritardo nell’adempimento dell’obbligazione (risarcitoria o restitutoria), l’int. corr. presuppone l’avvenuta dazione / l’avvenuto pagamento di una somma di denaro LIQUIDA (cioè determinata nel suo ammontare) ed ESIGIBILE (cioè scaduta, pagabile, non sottoposta a termine iniziale o a condizione sospensiva); somma che deve poi essere restituita.
L’int. corr. è l’interesse classico / tipico che deve essere corrisposto a seguito della stipulazione del contratto di mutuo (che si caratterizza per la previsione ex lege di un int. corr. pattuito tra mutuante e mutuatario). Normalmente è la banca (mutuante) che mette a disposizione una somma di denaro ad un soggetto (detto mutuatario) il quale deve restituire tale somma nel corso degli anni secondo un piano / programma di ammortamento (a seconda dei piani di ammortamento le somme mutuate vengono restituite a scadenze semestrali o annuali per un determinato numero di anni: es. da 10-15 anni a 30-35 anni). Il contratto di mutuo è un contratto reale (si perfeziona con la datio rei ossia con la consegna materiale della somma di denaro mutuata da mutuante al mutuatario) ad effetti reali (la proprietà delle banconote si trasferisce al mutuatario con obbligo per questo ultimo di restituire il tantundem). Con riferimento al contratto di mutuo vanno fatte alcune precisazioni:

1^ precisazione: fino a qualche anno fa i mutui, soprattutto i mutui fondiari (cioè quelli destinati all’acquisto di beni immobili) avevano tassi di interesse convenzionali molto elevati i quali facevano allontanare gli utenti dalla richiesta di mutuo. Si assisteva, inoltre, ad un fenomeno assai rilevante sia sul piano civilistico che sul piano penalistico, ossia l’usura (il fenomeno dell’usura esiste ancora oggi anche se in misura molto minore rispetto a qualche anno fa). Da un punto di vista penale mancavano norme espresse che sanzionassero l’usura; pertanto in un primo momento si è dovuto ricorrere, per contrastare il fenomeno ad altre norme contenute nel codice penale, relative a reati diversi. Successivamente è intervenuta una legge ad hoc la L. 108/1996 conosciuta come legge anti-usura: essa contiene previsioni sia sotto il profilo penalistico che sotto il profilo civilistico:

- sotto il profilo penalistico prevede il delitto di usura (consiste nella erogazione di denaro da restituirsi con un saggio di interesse superiore ai limiti stabiliti dalla legge. È costruito come un reato a dolo specifico: ai fini dell’applicazione della pena infatti non occorre che l’usuraio consegua di fatto un ingiusto profitto, ma è sufficiente che agisca con lo scopo di conseguire un ingiusto profitto);
- sotto il profilo civilistico la L. 108/96 ha introdotto importanti novità con riferimento al contratto di mutuo: l’art. 1815 cc sancisce una regola rilevante in base alla quale se le parti hanno pattuito convenzionalmente un interesse usurario (ossia l’interesse pattuito in misura superiore alla misura che il Ministero dell’economia e delle finanze di concerto con il comitato interministeriale per il credito e il risparmio -CICR- fissa con proprio decreto anno per anno), non solo il mutuante incorre nel reato di usura, ma addirittura il mutuo si presume gratutito.

Al momento dell’entrata in vigore della legge anti-usura nacque un contenzioso con riferimento ai mutui in corso nei quali le somme di denaro erano state erogate a tassi di interesse elevati: secondo la lettera della l. 108/96 le rate di tali mutui che ancora dovevano scadere, avrebbero dovuto essere a tasso zero (si tratta del c.d. problema del regime intertemporale conseguito all’entrata in vigore della legge anti-usura: si sarebbe dovuto restituire solo il capitale, presumendo da quel momento in poi la gratuità del mutuo). In realtà la soluzione adottata a fronte del suddetto problema fu quello della c.d. rinegoziazione del tasso di interesse. Vennero in sostanza pattuiti int. corr. non usurari rinegoziati (le banche via via riconvocano i clienti e rinegoziavano il tasso di interesse riconducendolo entro limiti dell’usura; ciò che in passato era stato pagato in più veniva compensato prevedendo per le rate ancora da pagare una notevole riduzione del tasso di interesse originariamente pattuito).

2^ precisazione: nei casi di stipulazione di un contratto di mutuo per l’acquisto di immobili l’istituto mutuante non eroga la somma di denaro nell’atto della vendita. NB si devono predisporre 2 atti separati (entrambi in forma di atto pubblico: davanti al notaio): 1) atto di vendita; 2) atto di mutuo. L’erogazione del mutuo (dunque il perfezionamento del contratto che, in quanto contratto reale, avviene solo con la consegna materiale della somma di denaro) avviene solo dopo 11 giorni dalla stipulazione del contratto. Infatti solo all’undicesimo giorno si consolida l’ipoteca (è ipoteca volontaria anche se di fatto è una condizione per l’erogazione del mutuo) che il mutuante iscrive sul bene oggetto di compravendita a proprio favore e contro il mutuatario. Normalmente l’ipoteca è iscritta per il doppio del valore della somma mutuata: da ciò si evince che mai potrà essere mutuabile l’intero valore dell’immobile che si va ad acquistare.
Prima che siano trascorsi i suddetti 11 giorni, in realtà, il contratto non si è ancora perfezionato. Si ha la c.d. promessa di mutuo (art. 1822 cc) o preliminare di mutuo. È interessante notare che l’art. 1822 cc fa eccezione alla regola secondo cui il contratto preliminare non può avere ad oggetto un contratto reale, ma normalmente si collega / correla ad un contratto consensuale.
In passato alcune banche che erogavano mutui erano riuscite ad erogare le somme mutuate prima del consolidamento dell’ipoteca; attualmente non è più così: nel rogito notarile il notaio attesta che le parti si danno atto dell’avvenuto pagamento integrale della somma mutuata ma inserisce solitamente una clausola, che recita “subordinatamente al consolidamento dell’ipoteca”.

3^ precisazione: nel momento in cui istituto mutuante e privato mutuatario pattuiscono il tasso di int. corr. l’istituto mutuante stabilisce un piano di ammortamento (programma di restituzione della somma mutuata in un determinato arco di tempo). Ogni rata di mutuo sezionata presenta al suo interno 2 parti: i) una parte rappresenta il capitale mutuato che si va a restituire; ii) l’altra parte è formata invece dall’int. corr. pattuito convenzionalmente dalle parti entro i limiti dell’usura. I piani di ammortamento sono congegnati in modo che le prime rate (specie nei mutui ultra-ventennali) siano per lo più quasi interamente formate da interessi e non dal capitale: ciò perché se si restituisce solo una piccola percentuale di capitale, il capitale residuo è ancora fruttifero, è ancora produttivo di interessi per la banca. Viceversa, se il capitale venisse restituito con le prime rate, verrebbe meno per la banca la possibilità di esigere gli int. corr. i quali esistono solo in quanto esiste il capitale.

4^ precisazione: può accadere che il mutuatario ritardi il pagamento di una singola rata di mutuo. In tal caso per il periodo di ritardo sono dovuti gli interessi moratori (calcolati con la modalità descritta nell’ambito dei crediti di valuta: l’interesse moratorio nel caso esemplificato è dovuto nella misura del saggio legale; quasi mai -o mai- si avrà rivalutazione monetaria). L’interesse moratorio si calcola sulla rata complessiva della quale è stato ritardato il pagamento che consta di: capitale e int. corr. ( l’interesse moratorio si calcola su un coacervo formato da capitale e int. corr.).

Il caso sopra descritto è una ipotesi di mora ex re (si tratta infatti di un debito portabile -ossia da pagare ad una certa scadenza al domicilio del creditore- che viene pagato in ritardo) che scatta automaticamente, senza il bisogno di un atto di costituzione in mora.

GLI INTERESSI COMPENSATIVI

Alcuni autori hanno individuato, accanto agli interessi moratori e agli interessi corrispettivi, un ulteriore categoria di interessi: gli interessi compensativi (int. comp.) (anche se non tutti concordano sul fatto che si tratti di una vera e propria categoria di interessi a se stante).
Il cc si occupa degli int. comp. all’art. 1499 cc il quale regola l’ipotesi in cui è avvenuto il trasferimento della proprietà o anche solo il godimento del bene ma non è ancora stato effettuato il pagamento del prezzo, il quale, su accordo delle parti, avverrà in un momento successivo. La previsione dell’art. 1499 cc trova la sua applicazione istituzionale nelle vendite immobiliari rateali dove la proprietà del bene passa all’acquirente solo con il pagamento dell’ultima rata del prezzo, mentre il godimento del bene è immediato ed il rischio del perimento della cosa grava da subito sul compratore, anche se costui non è ancora divenuto proprietario.
Gli interessi in esame si chiamano compensativi proprio perché compensano il sacrificio di chi si spoglia di un bene senza ricevere il pagamento immediato del corrispettivo. Anche gli int. comp. sono dovuti nella misura del saggio legale; tuttavia, essi non hanno nulla a che fare con gli interessi moratori. Al limite si può ravvisare una somiglianza tra int. corrispettivi ed int. comp. anche se con riferimento a questi ultimi vengono in considerazione non somme di denaro mutuate, bensì beni il cui prezzo viene pagato in un momento successivo rispetto al trasferimento della proprietà o all’immissione nel godimento del bene non per inadempimento da parte dell’acquirente ma per pattuizione delle parti. L’orientamento prevalente è nel senso di considerare gli int. comp. più che come interessi come elementi naturali del contratto di compravendita (analogamente alla garanzia per i vizi occulti e per l’evizione: si tratta di effetti che si producono indipendentemente dalla loro pattuizione anche se possono essere esclusi dalle parti).

NB nel momento in cui il debitore adempie nei confronti del creditore pagando una determinata somma di denaro, tale somma va imputata prima agli interessi e poi al capitale, salvo che il creditore intenda operare diversamente. Es. il debitore ha un debito complessivo di € 10.000,00 e ne paga 1.000,00 il creditore imputa i 1.000,00 ricevuti agli interessi. Se la somma ricevuta in pagamento venisse imputata al capitale si avrebbe un ingiustificato arricchimento del debitore, il quale da un lato paga una parte del suo debito, riducendo però, dall’altro lato, il capitale e conseguentemente anche gli interessi (da corrispondere successivamente), i quali esistono solo se esiste il capitale, produttivo di essi.

LA MORA DEL DEBITORE

Nelle riflessioni che precedono abbiamo esaminato la principale conseguenza della mora del debitore, ossia il pagamento degli interessi moratori. Vediamo ora le ulteriori conseguenze della mora debendi:
1^ conseguenza: (si verifica specie nei casi di mora nella consegna della cosa) il rischio del perimento della cosa grava per l’intero sul debitore che è in ritardo, anche se il perimento derivi dal fortuito, ossia indipendentemente dalla sua volontà;
2^ conseguenza: (siamo nell’ambito o di pagamenti rateizzati o comunque di obbligazioni da adempiere ad una certa scadenza, in un determinato termine) si verifica per il debitore la decadenza del beneficio del termine (art. 1186 cc: disposizione che prevede che il debitore in mora nel pagamento di una singola rata decada dal beneficio del termine per il pagamento delle rate successive, ossia il debitore deve o può essere chiamato a pagare subito per l’intero). NB La decadenza dal beneficio del termine si verifica anche in altre due ipotesi: a) quando il debitore non ha dato le garanzie (reali o personali) promesse; b) quando le garanzie date dal debitore sono diminuite di valore anche per causa non imputabile al debitore stesso e questo ultimo non le abbia tempestivamente reintegrate.

LA MORA DEL CREDITORE

La mora del creditore (c.d. mora accipiendi o credendi) si ha nel caso in cui il creditore rifiuti ingiustificatamente di ricevere la prestazione o il pagamento (NB si è discusso a lungo sul significato da attribuire all’espressione "rifiuto ingiustificato". In giurisprudenza è pacifico che si ha rifiuto "giustificato" nei casi in cui vi sia un aliud pro alio -una cosa per un’altra-. Per contro il "rifiuto ingiustificato" si ha quando il debitore è pronto ad adempiere offrendo di dare la res debita).
A ≠ della mora del debitore, la mora del creditore non è mai mora ex re, ma è sempre mora ex persona. L’ordinamento, infatti, prevede, innanzitutto, che il debitore metta in mora il creditore attraverso un’offerta formale della cosa o del denaro (a seconda dei casi). Tale offerta può assumere 2 connotazioni:

α) un’offerta reale ossia una richiesta di ricezione della cosa o del pagamento (si tratta di una vera e propria consegna brevi manu);
β) un’offerta per intimazione a prendere possesso di un immobile.

Una volta avvenuta l’offerta formale da parte del debitore scattano le seguenti conseguenze:

I^ conseguenza:  il debitore ha diritto al rimborso delle spese eventualmente sostenute per la custodia / conservazione della cosa che non ha potuto consegnare;
II^ conseguenza: nel periodo della mora accipiendi il rischio del perimento della cosa si trasferisce sul creditore che ha ingiustificatamente rifiutato l’offerta;
III^ conseguenza: (di origine giurisprudenziale) non debenza di eventuali interessi che il debitore avrebbe dovuto corrispondere al creditore a partire dalla data della costituzione in mora del creditore.

NB tra gli effetti fisiologici / normali della mora accipiendi non c’è l’effetto liberatorio del debitore il quale continua a rimanere debitore. Tuttavia il debitore può, se vuole, conseguire l’effetto liberatorio attraverso una speciale procedimento: il deb. deve proporre un’autonoma istanza indirizzata al giudice e finalizzata alla nomina di un custode giudiziario del bene mobile o immobile da consegnare. All’esito del provvedimento del giudice la cosa viene affidata alle cure del custode al quale naturalmente è riconosciuto un compenso; solo a partire da questo momento si produce l’effetto liberatorio a beneficio del debitore. Trattasi del sequestro liberatorio ma non deve essere confuso con il sequestro di cui agli artt. 670 e 671 cpc (di natura processual-civilistico) ossia: sequestro giudiziario (c’è una res litigiosa e si deve stabilire a chi appartiene) e sequestro conservativo (mezzo di conservazione della garanzia patrimoniale).

I MODI DI ESTINZIONE DELLE OBBLIGAZIONI

Il rapporto obbligatorio (che dà luogo all’endiadi d. soggettivo relativo-obbligo) così come si costituisce può anche estinguersi. La forma tradizionale di estinzione dell’obbligazione (in modo satisfattivo) è costituita dall’adempimento, sia esso proveniente dal deb. (atto giuridico in senso stretto) o da un suo delegato / incaricato (l’incaricato del deb. prende il nome di adiectus solutionis causa), sia esso proveniente da un terzo spontaneamente (negozio giuridico unilaterale v. supra l’ademp. del 3° se esatto non è rifiutabile da parte del cre. salvo che si tratti di obbligazioni intuitus personae oppure che vi sia stata opposizione -che facoltizza il cre. al rifiuto ma non lo obbliga al rifiuto- all’adempimento da parte del deb.).

Se l’adempimento è la forma principale di estinzione dell’obbligazione, esistono anche altre e ≠ forme ulteriori di estinzione dell’obbligazione le quali sono distinte (distinzione puramente didattica didascalica sulla quale si potrebbe a lungo discutere) in:

I)                    satisfattive: vi rientrano la novazione oggettiva e la remissione del credito;
II)                 non satisfattive: vi rientrano la compensazione (volontaria, legale e giudiziale) e la confusione.

La novazione oggettiva

Il cc regola la sola nov. ogg. (quella soggettiva è regolata nella parte dedicata alle vicende modificative del rapporto obb. dal lato passivo: delegazione, estromissione e accollo, vedi sopra) e costituisce una modalità attraverso la quale l’obb. precedente si estingue e sulle sue ceneri per accordo delle parti ne sorge una nuova, tra le stesse parti, ma diversa per l’oggetto o per il titolo. La nov. è un contratto di tipo solutorio finalizzato: i) da un lato a far estinguere un’obb.; ii) dall’altro lato a farne sorgere una nuova. NB la semplice apposizione o eliminazione di un elemento accidentale non comporta novazione.
Per aversi nov. si richiedono 3 requisiti:

  1. l’obb. originaria c.d. obligatio novanda (cioè da novare);
  2. l’elemento di novità c.d. aliquid novi;
  3. l’intenzione dei contraenti c.d. animus novandi.

a. obligatio novanda. Il 1° requisito è quello più problematico: infatti ci si chiede se tutte le obb. possono novarsi o se ci siano delle obb. non novabili. Normalmente le obb. legali non consentono novazione (sono quelle che discendono direttamente dalla legge. Es. obbligo agli alimenti; obbligo di mantenimento, di educazione, di istruzione dei genitori nei confronti dei figli, ecc).
La categoria più delicata di obb. non novabili è quella delle obb. naturali (art. 2034 cc). L’orientamento largamente maggioritario in dottrina e in giurisprudenza esclude la possibilità di novare le obb. naturali: infatti il presupposto perché vi sia novazione è che l’obb. originaria sia uno iuris vinculum vero e proprio (ossia un’obb. civile ≠ le obb. naturali non si fondano su un vincolo giuridico vero e proprio, ma si caratterizzano per l’adempimento spontaneo ad un dovere morale e sociale).
Si devono fare 2 precisazioni:
-1^ l’impossibilità di novare un’obb. naturale costituisce una ≠ sostanziale rispetto al diritto romano che invece consentiva la novabilità delle obb. naturali. In realtà se ne ammetteva la novabilità attraverso una soluzione di tipo processuale cioè il diritto romano ha conosciuto 3 periodi del processo: il processo delle leges actiones (dove ogni azione aveva una legis actio: es l. a. sacramenti in rem, in personam ecc. e questo a dispetto della tutela giurisdizionale dei diritti che è generale in quanto basta avere la situazione soggettiva di diritto in base alla quale fare l’azione); quando dalla meccanica delle leges actiones si passò al processo formulare, dalla fase in iure alla fase in iudicio (contenziosa) il praetor (urbanus -se viveva nella città di Roma urbe- o peregrinus -se viveva nella nella provincia-) dava o negava la actio, e nel dare o negare la actio concedeva la formula, una sorta di actio iudicati sganciata dalla originaria vincolo obb. correlata ad esso ma autonomamente azionabile; e se la detta actio era concessa sulla base di un’obb. naturale attraverso la litis contestatio si procedeva l’ordine del giudice.
-2^ l’importanza dell’affermazione o della negazione della novabilità delle obbligazioni naturali si può valutare specie con riferimento  ad istituti che trovano applicazione nell’ambito della famiglia di fatto: i c.d. patti di convivenza (vincolanti durante la convivenza). Anche se il fenomeno non è regolato dalla legge, è possibile che i reciproci rapporti patrimoniali (in termini di assistenza, mantenimento ecc) siano regolamentati con una convenzione stipulata tra due conviventi more uxorio senza figli (se avessero dei figli si dovrebbero applicare regole diverse). Il problema sorge quando cessa la convivenza more uxorio: ci si chiede, infatti, se venuta meno la convivenza, gli obblighi contenuti nel patto di convivenza possano o meno essere ancora invocati. A tale quesito sono state date risposte contrastanti: coloro che volevano accreditare la tesi della vincolatività dei patti di convivenza (anche dopo la cessazione di questa) hanno sostenuto che tali patti costituiscono una novazione di un’obb. naturale, viceversa la giurisprudenza ha escluso la vincolatività dei patti di convivenza ribadendo che, cessata la convivenza, tra ex-conviventi more uxorio esistono solo obb. naturali le quali non possono essere novate.

b. aliquid novi. La nuova obb. deve essere ≠ dalla precedente per l’oggetto o per il titolo (ossia avere un oggetto diverso o deve essere diversa per quanto riguarda la causa concreta cioè la funzione economico-individuale perseguita dalle parti. Può essere ≠ anche la causa in senso oggettivo). Tuttavia la nuova obb. deve contenere un contrarius actus, ossia è necessaria una espressa manifestazione di volontà di estinzione dell’obb. precedente (le parti devono espressamente stabilire che il nuovo accordo nova l’accordo precedente. Il presente requisito nella pratica è enormemente importante con riferimento al contratto di transazione (art. 1965 cc contratto per cui è richiesta la forma scritta ad probationem -non si può provare la transazione se non per atto scritto-): si tratta di un contratto tipico in base al quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine ad una lite o prevengono l’insorgenza di una lite. La transazione è così denominata se stragiudiziale; viceversa se la transazione avviene davanti al giudice, essa prende il nome di conciliazione giudiziale (art. 185 cpc conciliazioni civili e 410 cpc conciliazione in materia lavoro) e si tratta di un atto personale che deve essere sottoscritto dalle parti personalmente -non basta la firma del difensore-. Spesso sentiamo parlare di transazione novativa o conciliazione giudiziale novativa (NB l’aggettivo “novativo” viene usato per intendere che, con riferimento a quel rapporto considerato, tutto il pregresso è cancellato, è assorbito dal nuovo accordo -normalmente a fronte di una rinuncia alla lite si ha un corrispettivo in denaro-). La transazione novativa è un contratto misto tra 1- transazione e 2- novazione.
NB non necessariamente la transazione e la conciliazione giudiziale sono novative; esse possono anche essere non novative.

c. animus novandi. Rappresenta la concorde volontà delle parti di estinguere l’obb. originaria, facendo sorgere sulle sue ceneri una nuova obb.. Ad es. non c’è animus novandi: a- nella datio in solutum in cui lo scopo è quello di estinguere l’obb., non di novare il rapporto obb.; b- nella cessio bonorum (istituto meno utilizzato della datio in solutum ma non meno importante) ossia la cessione dei beni ai creditori da parte del debitore a scomputo del debito. I cre. vendono i beni loro ceduti e si soddisfano sul ricavato della vendita; tuttavia qualora tale ricavato sia superiore al loro credito, i cre. dovranno restituire l’eventuale avanzo al deb.. La cessio bonorum ha una funziona liquidatoria di estinzione dell’obb. e non ha funzione novativa.

La remissione del credito

Remissione del debito (rdc) significa rinunziare incondizionatamente al proprio diritto di credito. La rdc deve provenire dal cre. personalmente, il quale deve comunicarla al deb. in forma solenne, ossia con atto notificato a mezzo di Ufficiale Giudiziario. La questione più significativa in materia di rdc riguarda la rifiutabilità o meno da parte del deb. della rdc. Innanzitutto dobbiamo sottolineare che la rdc è un negozio giuridico unilaterale recettizio, con la conseguenza che l’obb. si estingue quando la dichiarazione / la volontà del cre. giunge all’indirizzo  del deb., senza alcun bisogno di accettazione, di adesione da parte di questo ultimo (la rdc estingue l’obb. indipendentemente dalla volontà del deb., automaticamente, mentre a ≠ la semplice rinuncia al diritto non produce l’effetto estintivo automatico). Dunque, una volta estinta l’obb. (a seguito della rdc), se il deb. paga ugualmente il suo debito egli adempie ad un’obb. naturale. L’effetto estintivo dell’obb. prodotto dalla rdc potrebbe sembrare una deroga al principio dell’intangibilità delle sfere giuridico patrimoniali dei terzi, ma in realtà non lo è: il deb. infatti se vuole può adempiere nonostante la emissione, anche se appunto si tratterà di obb. naturale.
Altro aspetto interessante riguarda la possibilità o meno di considerare la rdc come atto di liberalità (diminuzione del proprio patrimonio e dell’arricchimento del patrimonio altrui senza che vi sia un rapporto obb. pregresso). La risposta è tendenzialmente negativa per una ragione giuridica: per aversi atto di liberalità (e dunque animus donandi) tra i soggetti non deve esserci alcuna obb. pregressa, la quale invece sussiste nell’ipotesi della rdc.



°°°




30.6.2012 (10° appuntamento) (segue dal 23.6.2012)

L’ADEMPIMENTO DELL’OBBLIGAZIONE

L’adempimento (adem.), inteso in senso tecnico, costituisce la forma solutoria tradizionale del rapporto obb. nel senso che l’adem. è il modo fisiologico di estinzione, in modo satisfattivo, del rapporto obb.. Si è discusso se l’adem. abbia natura di negozio giuridico o di atto giuridico in senso stretto: la ≠ è importante non solo sul piano teorico. Vediamo:

  • adem. come negozio giuridico: il soggetto che adem. deve avere la capacità d’agire (capacità negoziale), ossia deve essere maggiorenne, non interdetto e inabilitato; e chi adem. deve avere un animus solvendi inteso come finalizzazione del pagamento alla liberazione dal vincolo. Se ciò fosse vero il pagamento fatto dal deb. incapace d’agire dovrebbe ritenersi annullabile e ripetibile: ma l’opinione maggioritaria si è attestata nel senso di ricondurre l’adem. non al negozio giuridico bensì all’atto giuridico;
  • adem come atto giuridico: ai fini della validità dell’atto si richiede la sola capacità di intendere e volere e non anche la capacità d’agire; l’effetto liberatorio (di estinzione del rapporto obb.) prodotto dall’adem. si produce automaticamente all’adem. stesso senza che il soggetto debba dar prova dell’animus solvendi (NB nell’atto giuridico in senso stretto quello che conta è la volontà dell’atto: che si caratterizza per la sua volontarietà e provenienza umana, e non occorre anche la volontà degli effetti -come nel negozio giuridico- che sono in toto disciplinati dall’ordinamento).

L’adem. deve essere “esatto” e non aliud pro alio (una cosa per un’altra), e se conforme all’obb. il cre. non può rifiutare l’adem. esatto tranne che non si tratti di prestazioni personali ovvero non si tratti di prestazioni per le quali è stata manifestata opposizione all’adem. da parte del deb. principale, cosa che può accadere nell’adem. del terzo: in questo caso il cre. può (ma non deve) rifiutare l’adem. del terzo. Con opposizione del deb. principale, cioè, il cre. ha facoltà, non dovere, di rifiutare la prestazione: è importante tale giustificazione se valutata alla stregua della mora accipiendi (o mora del creditore: rifiuto ingiustificato di ricevere la prestazione offerta dal deb. o dal terzo).
Circa l’adem. del terzo, posto che il cre. non può rifiutare l’adem. del terzo a meno che non si tratti di prestazioni intuitu personae o di fare infungibili oppure non ci sia stato opposizione del deb. principale, a ≠ dell’adem. da parte del deb. ha invece natura negoziale: con la conseguenza che l’incapacità d’agire del terzo che adempie può portare all’annullamento e alla ripetizione.

I problemi sorgono specie dal confronto tra l’adem. del terzo rispetto alla delegazione solvendi causa (delega di pagamento) e dalla fideiussione. Trattasi di 3 istituti distinti. Vediamo gli elementi distintivi, con riserva di meglio approfondirli:

­       adempimento del terzo: il 3° in luogo del deb. esegue la prestazione che il cre. non può rifiutare a meno che non ci sia stata opposizione del deb. principale o che non si tratti di prestazioni intuitu personae o di fare infungibili, e in tal caso ha facoltà di rifiutare la prestazione (NB se questa è parziale può altrettanto essere rifiutata -perché inesatto adem.- a ≠ della materia cambiaria dove l’adem. parziale non è mai rifiutabile); tale adem. si caratterizza per la spontaneità: il 3° non deve necessariamente avere un pregresso rapporto con il deb. principale (ci potrà essere, ma non incide o impone l’adem. che è appunto spontaneo).
­         delegatio solvendi: c.d. delega di pagamento, un soggetto deb. originario (delegante) ordina ad altro soggetto (delegato) di pagare ad un terzo (delegatario). Il rapporto delegante-delegatario è il rapporto debito-credito originario (rapporto di valuta: rapporto sottostante) e il delegante invece di pagare personalmente ordina al delegato (altrettanto debitore) di pagare. E mentre il delegante è deb. del delegatario, il delegato è deb. del delegante (nel c.d. rapporto di provvista): delegante e delegato sono cioè entrambi debitori ma non condebitori. La delegazione serve a estinguere due rapporti obb. con un solo pagamento (ovvio, se entrambi i rapporti siano del medesimo importo): principio di economicità degli scambi commerciali. Rispetto all’adem. del 3° (che è spontaneo), nella delegazione si ha un ordine.
­       fideiussione: è il prototipo delle garanzie personali; è contratto avente natura accessoria (come normalmente sono tutte le garanzie personali) con la conseguenza che venendo meno il rapporto principale cade automaticamente il rapporto accessorio di garanzia. Assomiglia alla estromissione (dove c’è accordo tra il cre. ed un terzo). È un accordo tra il cre. e un terzo (fideiussore) per cui questo ultimo garantisce l’adem. dell’obb. altrui; tra obb. principale e fideiussore vi è responsabilità solidale salvo che non si sia pattuito precedentemente il beneficium ordinis (NB la ≠ tra il beneficium ordinis e beneficium exussionis: in questo ultimo il cre. potrà rivolgersi all’altro o agli altri condebitori solo dopo aver infruttuosamente aggredito -da provare mediante verbali di pignoramento negativo- il patrimonio del deb. chiamato ad adem. -cioè potrò chiamare in giudizio tutti, precostituendomi il titolo contro tutti, ma poi dovrò attivarmi esecutivamente sul chiamato ad adempiere e solo se si avrà una attività infruttuosa potrò attivarmi esecutivamente contro gli altri-: deve essere espressamente pattuito o previsto dalla legge in quanto con la solidarietà si può andare da chiunque -es. nella SNC società in nome collettivo dove mi rivolgo ad un socio e chiedo l’intero mentre la posizione degli altri soci è di responsabilità solidale illimitata e sussidiaria, cioè devo aver infruttuosamente escusso il patrimonio dell’altro socio-; mentre il primo -il b. ordinis- è caratteristico della fideiussione -NB qui non ci sarà mai beneficium exussionis- dove, se è vero che c’è solidarietà, cre. e fideiussore possono pattuire il b. ordinis, ossia non la necessaria escussione del patrimonio del deb. obb. principale ma dopo che sia data la prova della semplice “richiesta” del pagamento rimasta infruttuosa fatta nei confronti del chiamato ad adem., si può aggredire il fideiussore). Rispetto all’adem. del 3° cambia la natura: lì il 3° adempie (come nella delegazione) mentre nella fideiussione si obbliga, promette (è una forma di garanzia dell’adem. del terzo).

Ricapitolando:

adem. del 3° → c’è il pagamento e c’è spontaneità;
delegazione di pagamento → c’è il pagamento ma non c’è spontaneità;
fideiussione → non c’è pagamento ma c’è la spontaneità.

LE OBBLIGAZIONI PECUNIARIE

In tale contesto è nota la tripartizione degli interessi in a) int. moratori; b) int. corrispettivi; c) int. compensativi.
Per obb. pecuniaria si intende una obb. che ha ad oggetto una somma di denaro pagabile ad una data scadenza. Sotto tale profilo le obb. pecuniarie appartengono al genus delle obb. generiche con la conseguenza che in tale settore non trova applicazione la regola della risoluzione per l’impossibilità sopravvenuta non imputabile (essendo un genus: genus perire non potest). Le obb. pecuniarie sono rette dal principio nominalistico ex art. 1277 cc secondo cui tali obb. si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato al momento dell’adem. e per il loro valore nominale. L’ordinamento disciplina (sia per le obb. pecuniarie sia per altre tipologie di obb.: ma per adesso limitiamoci a trattare quelle pecuniarie) particolari categorie che la dottrina chiama accessori del credito, nel senso ci si può trovare di fronte, fondamentalmente, a due distinti tipologie di credito:

α) crediti risarcitori (crediti di valore) derivanti dal risarcimento dei danni da resp. contrattuale (art. 1218 cc) ed extracontrattuale (art. 2043 cc);
β) crediti restitutori (crediti di valuta) che non sono connessi ad un risarcimento danni, bensì al godimento di una somma di denaro protratta oltre il termine entro cui si sarebbe dovuta restituire.

Iniziando dal settore dei crediti β) (crediti restitutori), vengono in considerazione due distinte categorie di accessori del credito: β)1 int. moratori (art. 1224 cc); β)2 int. corrispettivi (art. 1282 cc). I primi presuppongono che il deb. sia in mora, ossia ritardi la restituzione o l’erogazione di una somma ricevuta a titolo corrispettivo: trattasi della c.d. mora debendi a sua volta distinta in:

- mora ex re che opera automaticamente senza necessità di alcun atto formale di costituzione in mora (art. 1219 cc ) quando: 1- il deb. dichiara espressamente di non voler adempiere; 2- trattandosi di un credito portabile (ossia adempibile al domicilio del cre. entro un certo termine) il mancato adem. porta alla mora; 3- responsabilità extracontrattuale (dalla data del sinistro decorrono gli int. moratori);
- mora ex persona: in tutti gli altri casi ≠ dai precedenti opera la regola della necessità di una formale dichiarazione detta costituzione in mora.

Gli int. moratori costituiscono una forma di liquidazione legale di danno da ritardo nell’adempimento di obb. pecuniarie nel senso che il cre. in caso di ritardo nel pagamento o restituzione ha il diritto di esigere al deb. oltre al capitale anche gli int. moratori, e ciò può pretenderlo anche se non provi di aver patito alcun danno. Tali int. sono dovuti nella misura del saggio legale: ma il II co. dell’art. 1224 cc (se il I co. esonera dal dover provare il danno nei limiti del saggio legale: danno in re ipsa) dà la possibilità di ottener il maggior danno, subordinandolo alla prova che il cre. deve dare. Tale regola del maggior danno non opera se i contraenti hanno convenzionalmente pattuito la misura dell’int. moratorio (in misura maggiore al saggio legale). Di certo la verifica della prova del maggior danno non è agevole: la giurisprudenza al riguardo si è avvalsa di escamotage probatori, e sia in ordine all’an del maggior danno e sia in ordine al quantum del maggior danno:

- an: si intende identificare il maggior danno nella svalutazione monetaria, ossia si parametra il maggior danno all’indice ISTAT dei prezzi al consumo che costituisce un fatto notorio (art. 115 cpc: argomento di prova);
- quantum: la giurisprudenza fa riferimento all’indice dei prezzi al consumo ISTAT (NB l’indice ISTAT è richiamato testualmente dall’art. 150 disp. att. cpc).

Da tener conto che nell’ipotesi in cui l’indice ISTAT fosse superiore al tasso legale d’int. (oggi 2,5 %) si potrà pretendere solo il maggiore dei due importi (quello calcolato relativamente al dato ISTAT o quello calcolato con riferimento al tasso legale d’int.. Schematicamente nell’ambito dei crediti restitutori β) avremo:

interessi moratori: crediti restitutori / di valuta

Per una somma iniziale di K = 100.000,00 € che si doveva pagare nel 2001 e dove si intende IL = valore calcolato al saggio legale (es. IL1 = 5%; IL2 = 10 %; IL3 = 5% NB sul capitale iniziale nudo) e per RM = valore calcolato con rivalutazione monetaria (es. RM1 = 10%; RM2 = 5%; RM3 = 10% NB sempre sul capitale iniziale nudo), se il pagamento non avviene né nel ’02, ’03 ma a fine ’04

art.       1224 I co              1224 II co.

   IL                           RM        


’02          IL1                         RM1                      se RM1 è > di IL1 si prenderà in considerazione RM1

’03          IL2                         RM2                      se RM2 è < di IL2 si prenderà in considerazione IL2

’04          IL3                         RM3                      se RM3 è > di IL3 si prenderà in considerazione RM3

____________________________________

K + ∆IL (ossia, nel nostro caso solo IL2) + (eventuale) ∆RM (ossia, nel nostro caso RM1 + RM3) = somma da restituire

Quindi dovendo calcolare il maggior danno, dovrò depennare la corrispondente somma IL1 (quale minor danno) se es. sia pari a 5.000,00 (5% di 100.000,00 capitale nudo) mentre RM1 (maggior danno) è pari a 10.000,00 (10% di 100.000,00 capitale nudo), depennare RM2 se es. sia pari a 5.000,00 (5% di 100.000,00 capitale nudo) mentre IL2 è pari a 10.000,00 (10% di 100.000,00 capitale nudo) e infine depennare IL3 se es. sia pari a 5.000,00 (5% di 100.000,00 capitale nudo) mentre RM3 è pari a 10.000,00 (10% di 100.000,00 capitale nudo). La somma da restituire sarà perciò K (100.000,00 = capitale iniziale) + ∆ IL (10.000,00 = interessi sul capitale nudo senza montante) + ∆ RM (20.000,00 rivalutazione sul capitale nudo senza montante) = 130.000,00

interessi moratori: crediti risarcitori / di valore

Trattando, invece, sempre degli int. moratori ma nei crediti di valore α) (crediti risarcitori) diciamo subito che il credito di valore (credito illiquido, ma liquidato con perizia o giudizialmente) deriva da un danno: si deve conservare inalterato, dal sinistro o dall’inadempimento, il valore della cosa o del contratto che aveva all’epoca, conservandogli, appunto, il valore reale che aveva al tempo del sinistro o del contratto. Bisogna attualizzare il valore del bene.

Per una somma iniziale di K = 100.000,00 € che si doveva pagare nel 2001 (somma coincidente col danno avvenuto nel 2001: il danno alla data dell’inadempimento o del sinistro ammontava a quella cifra) e dove si intende IL = saggio legale e per RM = rivalutazione monetaria, se il pagamento non avviene né nel ’02, ’03 ma a fine ’04

    RM             IL          


’02          RM1            IL1         (int. legale del ’02 calcolato sul capitale iniziale K + la rivalutazione del ’02)

’03          RM2            IL2         (int. legale del ’03 calcolato sul capitale iniziale K + la rivalutazione del ’03)

’04          RM3            IL3         (int. legale del ’04 calcolato sul capitale iniziale K + la rivalutazione del ’04)

_________________________

               K + ∆ RM + ∆ IL = somma da risarcire

Il danno del 2001 occorrerà rivalutarlo nel ’02 (quindi per conservare il valore di 100.000,00 € passato un anno dovrò rivalutare tale somma, allineandoci all’es. precedente, del 10%) e sulla somma ottenuta, sull’intero coacervo, devo calcolare l’interesse del ’02 (es. 5%). Il secondo anno (’03) sempre sul capitale nudo dovrò calcolare l’indice ISTAT per rivalutare, appunto al ’03, il capitale iniziale: sulla somma ottenuta calcolerò l’interesse moratorio dell’anno ’03 (es. 10%) e così anche per il calcolo del ’04.
La somma da risarcire risulterà, perciò il capitale iniziale (K) più la somma della rivalutazione di tale capitale ottenuto anno per anno (colonna che non può mai mancare: ∆ RM) più la somma degli interessi calcolati anno per anno (colonna che non può mai mancare: ∆ IL).

DOMANDE GIUDIZIALI SU PAGAMENTO DI SOMME

Le domande giudiziali al pagamento di somme non sono tutte uguali. Suddividiamo le domande nei due tipi:

1)    dom. per condanna al pagamento di somme corrispettive e restitutorie (normalmente liquide per definizione in quanto determinate nel loro ammontare);
                                                                                                                     
2)      dom. per cond. al pagamento di somme a titolo risarcitorio (illiquide)     resp. contr. 1218; resp. extrac. 2043.

1)a Ad es. ci possiamo trovare di fronte alla richiesta di pagamento di rate scadute: strumento normalmente usato è il ricorso per ingiunzione, ma si noti, solo per i ratei scaduti oltre agli interessi moratori. “Voglia l’Ill.mo giudicante ingiungere al Sig. Tizio (NB se Tizio è titolare di una ditta individuale non si potrà fare riferimento a questa semplicemente, ma riferirsi sempre a Tizio nella qualità di titolare della omonima ditta individuale) di pagare all’intestato Sig. Caio la somma complessiva di €… oltre agli interessi legali dalle singole rate scadute fino al saldo nonché le spese del presente procedimento da liquidare come da nota spese e da distrarre al procuratore anticipatario ex art.93 cpc”.

1)b Ma non solo con D.I., ma anche con atto di citazione possono porsi in essere le domande restitutorie (NB e tramite tale struttura è possibile richiedere anche i ratei non scaduti: ciò attraverso l’accertamento dell’inadempimento del convenuto). “Voglia l’Ill.mo giudicante, previo accertamento dell’inadempimento del contratto concluso in data … per fatto e colpa del sig. Tizio, condannare quest’ultimo al pagamento delle somme complessive di € …, così quantificato come in narrativa, oltre interessi legali dalle singole rate scadute fino al saldo nonché le spese del presente procedimento da liquidare come da nota spese e da distrarre al procuratore anticipatario ex art.93 cpc”.

1)c e 2) le domande di risoluzione che possono caratterizzare sia le domande restitutorie che le domande a titolo risarcitorio: è azione costitutiva (NB le azioni costitutive sono: - risoluzione, - rescissione, - annullamento, - divisione, - azione di divisione ereditaria, - azioni attinenti agli status come la paternità). Ex art. 1453 cc possono porsi in essere due operazioni in alternativa:

α) esecuzione del contratto (se la prestazione è di fare): “voglia l’Ill.mo giudicante ordinare nei confronti di Tizio l’esecuzione del contratto concluso in data …, condannando, per l’effetto, parte convenuta all’adempimento delle conseguenti obbligazioni oltre al risarcimento del danno da liquidare nella somma di € … o nella maggiore o minore ritenuta di giustizia con rivalutazione monetaria ed interessi legali dall’occorso fino al soddisfo”.

β) risoluzione per inadempimento (se la prestazione è di dare): “voglia l’Ill.mo giudicante pronunciare la risoluzione per inadempimento del contratto stipulato in data … e per l’effetto, condannare parte convenuta alle conseguenti restituzioni nonché al risarcimento del danno da reputare nella somma di € … o nella maggiore o minore ritenuta di giustizia con rivalutazione monetaria ed interessi legali dall’occorso fino al soddisfo”.

NB volendo esattamente scrivere le conclusioni, anche alla luce delle considerazione che precedono

Ambito risarcitorio: “… si condanni parte convenuta al pagamento in favore di parte attrice della somma complessiva di € … oltre rivalutazione monetaria da computarsi anno per anno nonché interessi legali sulle somme via via rivalutate fino al soddisfo”(per resp. contrattuale, extracontrattuale e ex art. 429 cpc crediti di lavoro privato -non previdenziali- non in quanto sono crediti risarcitori, ma perché c’è appunto il riferimento normativo. NB no nel pubblico impiego, nemmeno quello privatizzato dove sono dovuti solo l’interessi legali)

Ambito restitutorie: “… si condanni parte convenuta al pagamento in favore di parte attrice della somma complessiva di € … oltre interessi nella misura legale ed eventuale maggior danno da svalutazione monetaria dall’insorgenza del diritto al soddisfo”.



°°°


23.6.2012 (9° appuntamento) (segue dal 16.6.2012)

C) IL VINCOLO GIURIDICO (iuris vinculum: i.v.)

Occorre, per concludere, esaminare lo i.v.. A ≠ del diritto romano (dove lo i.v. era di natura puramente personale), nel diritto civile vigente lo i.v. si sostanzia in un vincolo di natura personale/patrimoniale (da collegarsi all’art. 2740 cc). Va anzitutto esaminata una categoria particolare di obb.: quelle c.d. naturali che non si fondano (si ritiene in dottrina) su uno i.v. (quantomeno attuale) bensì solo su un vincolo a formazione progressiva. Il fondamento normativo delle obb. naturali si rinviene ex art. 2034 cc che fa riferimento all’adempimento spontaneo eseguito da persona capace a doveri morali o sociali: e in virtù di tale adempimento ne consegue l’irripetibilità (o soluti retentio) di quanto sia stato dato. Ma occorre fare delle precisazioni. Anzitutto l’art. 2034 cc richiede che il soggetto adempia ad un dovere morale o sociale, in particolare si è osservato trattarsi di un dovere unico (morale o sociale) della morale sociale corrente (dovere sociale e dovere morale – secondo Gazzoni – sono una endiadi ossia due facce della stessa medaglia, lo stesso concetto espresso da due parole similari). E cosa si intende per dovere della morale sociale corrente? NB alcuni autori erroneamente abbinano tale dovere con la meritevolezza e tutela dell’interesse perseguito ex art. 1322 cc. Ma tale giudizio, come è noto, ha ad oggetto la causa concreta del contratto (causa in senso soggettivo): in particolare il II co. dell’art. 1322 cc si avvale di tale nozione di meritevolezza e tutela dell’interesse perseguito al fine di far transitare un istituto dal giuridicamente irrilevante al giuridicamente rilevante (vedi la tematica dell’atipico: es. di atipico sono il trasporto di cortesia, il vitalizio assistenziale, la cessione di cubatura, ecc.). E tale giudizio può definirsi come dignità sociale, rilevanza socio-economica dell’interesse concreto perseguito dalle parti in un dato momento storico: perciò un concetto di meritevolezza (dignità sociale rilevanza socio-economica…) che non si identifica con la necessaria patrimonialità della prestazione di cui all’art. 1174 cc (art. che, d’altro canto, soggiunge anche che la prestazione può corrispondere ad un interesse anche non patrimoniale per il creditore). Per contro l’obb. naturale ex art. 2034 cc, ossia l’adempimento ad un dovere sociale o morale, concerne soprattutto la vincolatività del dovere stesso rispetto al soggetto chiamato ad adempiervi; con la conseguenza che l’adempimento a tale dovere non trasforma l’obb. naturale in obb. civile (i.v. pieno e completo), ma comporta il più modesto effetto di rendere non ripetibile ciò che è stato dato da persona capace. In tal senso l’ordinamento è come se operasse una fictio in termini di vincolatività del dovere valutandolo comparativamente rispetto all’adempimento effettuato. 
In particolare tra le obb. naturali vengono richiamante:

1-            il pagamento del debito di gioco;
2-            il pagamento del debito prescritto;
3-            la fiducia testamentaria.

Circa la 1^ ipotesi giova ricordare che il TULPS non consente l’esercizio di case da gioco se non in locali all’uopo istituzionalizzati (Casinò: i croupier sono poi iscritti in particolari elenchi e sono ad ogni effetti lavoratori dipendenti appartenenti al settore dello spettacolo e come tali assicurato presso l’EMPALS, prima dell'assorbimento del detto ente nell'INPS).

Con riferimento alla 2^ ipotesi si è discusso in ordine alla sua corretta riconducibilità nell’ambito delle obb. naturali. Una certa dottrina (Gazzoni) ritiene che il pagamento del debito prescritto, stante il divieto di rilievo d’ufficio della prescrizione da parte del giudice, consiste in una rinunzia all’eccezione di prescrizione e non già una obb. naturale: teoria corretta dal lato processuale (dal lato dell’operatività della prescrizione) non essendo rilevabile d’ufficio (né nel giudizio ordinario, né monitorio) la relativa eccezione (che è eccezione di merito in senso tecnico che incorre nelle preclusioni), ma dal lato del diritto sostanziale non pare particolarmente decisiva.

Ultima ipotesi (la 3^) è la fiducia testamentaria ex art. 627 cc che concerne l’ipotesi in cui (nel caso di testamento) si preveda che l’erede onerato debba devolvere la somma o effettuare la prestazione a vantaggio di un soggetto terzo del tutto estraneo al rapporto successorio (né erede, né legatario) la norma precisa che l’adempimento a tale disposizione (fiduciaria) comporta come effetto la sola irripetibilità di quanto è stato spontaneamente dato e non costituisce alcun vincolo nei confronti dell’erede onerato. Per capire l’istituto della fiducia testamentaria occorre fare delle precisazioni.
La fiducia testamentaria è una delle residue ipotesi applicative del contratto di diritto romano denominato fiducia (fonte di obb. re contracte: con il comodato, deposito e il pegno) e consisteva in una alienazione di un bene con l’obbligo per l’acquirente di restituire il bene stesso ad nutum, a richiesta dell’alienante senza che ci fosse giusta causa, con la corrispondente restituzione del prezzo: il tal caso la vendita (che nel d. romano era un contratto consensuale ad effetti obbligatori: emptio venditio) era accompagnata (nel caso appunto di fiducia) da un atto (accessorio) che si chiamava pactum fiducae che portava il detto meccanismo. La ragione pratica di questa operazione stava nell’esigenza della c.d. intestazione fiduciaria di un bene (specie se immobile), di modo che in un determinato periodo il reale proprietario uscisse di scena potendo però riacquistare il suo originario status dopo decorso un dato tempo (comportando magari frode ai creditori). Nel cc attuale non c’è richiamo a tale istituto, mentre la stessa giurisprudenza si è da tempo saldamente orientata nel ritenere illecite ipotesi simili quali le vendite a scopo di garanzia. Strumenti fraudolenti che consistono nella vendita (ma NB l’operazione fraudolenta può derivare anche da un cessione di credito -contratto consensuale ad effetti reali-), le quali presuppongono un pregresso rapporto credito-debito tra venditore (deb.) e compratore (cre.) e che sono, segnatamente:

A- vendita risolutivamente condizionata all’adempimento: dove l’effetto traslativo è immediato e il bene passa dal deb./venditore al cre./compratore solo che si ri-trasferisce automaticamente al momento stesso in cui il deb./venditore adempie l’obb.;
B- vendita sospensivamente condizionata all’inadempimento: dove non c’è un effetto traslativo immediato dal deb. al cre., ma il bene transiterà solo se ed in quanto il deb. sia inadempiente.

Figure che, si è detto, sono ritenute illecite dal nostro ordinamento non tanto sotto il profilo di ipotesi di vendita simulata (anzi l’effetto garanzia -posto che sono vendite a scopo di garanzia- è che le vendite non siano affatto simulate), ma per violazione di norma imperativa (nullità ex art. 1418 cc), norma imperativa individuata dalla giurisprudenza nell’art. 2744 cc., la quale contiene il divieto di patto commissorio (disciplinato testualmente solo in materia di pegno quale diritto reale di garanzia, contratto reale che si perfeziona con la datio rei) per cui il creditore pignoratizio (che è una di quelle figure ibride a cui non si riesce ancora a dare una collocazione definitiva se possessore o detentore: il diritto romano lo ha posizionato eo tempore nella figura intermedia dei precaristi) di fronte all’inadempimento del proprio deb. non può far suo il bene costituito in pegno, ma solo rivolgersi al giudice dell’esecuzione e fare una istanza di assegnazione forzata o di vendita del bene all’incanto (senza passare dal processo di cognizione). L’art. 2744 cc è stato interpretato dalla giurisprudenza come norma imperativa avente carattere generale, di modo che quale che sia lo strumento giuridico utilizzato, la violazione dell’art. in esame comporta nullità per violazione di norma imperativa: tra gli strumenti utilizzati per bay-passare l’art. 2744 cc la giurisprudenza ha individuato entrambe le ipotesi di vendita a scopo di garanzia (sia quella risolutivamente che quella sospensivamente). 

NB ≠ tra:

illiceità del contratto: la si può sintetizzare come contrasto con norme imperative, ordine pubblico o buon costume; si applica il principio della nullità (con conseguente ripetizione di indebito oggettivo di ciò che è stato dato sulla base di un contratto nullo; si prescrive in 10 anni). Il cc la riferisce di volta in volta alla causa (art. 1343 cc), al motivo comune ad entrambe le parti e determinante del consenso (art. 1345 cc), alla frode alla legge (art. 1344 cc), alla condizione (v ≠ tra condizione illecita e condizione impossibile in materia di nullità: la prima, sia sospensiva che risolutiva, porta sempre alla nullità del contratto, mentre nella seconda solo la sospensiva impossibile porta alla nullità del contratto mentre se è risolutiva porta al consolidamento del contratto), ma anche all’oggetto inteso come prestazione (sempre come contrasto con norme imperative, ordine pubblico o buon costume). NB l’art. 2033 cc prevede, nel caso in cui la prestazione sia illecita anche per chi deve eseguirla e soprattutto contra bona mores – contro il sentimento del pudore –, prevede che operi la regola della immoralità bilaterale (ed è il caso del compenso alla prostituta) con irripetibilità di quanto è stato dato (non basta per aversi immoralità bilaterale, quindi irripetibilità, che ci sia stato l’illiceità della prestazione, ma occorre che la prestazione sia illecita perché contro il buon costume, contra bona mores): nell’es. del croupier non ci sarà illiceità per immoralità bilaterale ma violazione di norma imperativa, per cui non si applicherà l’art. 2033 ma l’art. 2126 cc, dove l’illiceità della prestazione fa salve le sole retribuzioni.

illegittimità del contratto: di regola la nozione di illegittimità si identifica con la nozione di annullabilità, la quale può derivare da vizi della volontà (errore, violenza e dolo), dall’incapacità d’agire del soggetto (come es. del minore, dell’interdetto o dell’inabilitato) ovvero può derivare dall’incapacità di intendere e volere (ex art. 428 cc: temporanea incapacità di intendere e volere in soggetti capaci d’agire). NB il contratto illegittimo/annullabile è idoneo a produrre i propri effetti fin tanto che il soggetto nel cui interesse sia posta la norma violata (l’incapace quando riacquista la capacità, l’interdetto riabilitato, il soggetto il cui consenso sia dato per errore al momento in cui si avvede dell’errore ecc.) esperisca la relativa azione di annullamento, ricorrendone i presupposti (azione di natura costitutiva a ≠ dell’azione di nullità di natura dichiarativa; NB l’accertamento della nullità ha sempre effetto retroattivo tra le parti e verso i terzi, mentre la pronuncia di annullamento produce, in linea di principio, effetto retroattivo solo tra le parti, tuttavia può produrre effetto caducatorio retroattivo anche nei confronti dei terzi se si abbia operato in mala fede e a titolo gratuito, se invece è fatto a titolo oneroso e in buona fede non produce effetto retroattivo verso i terzi fatte salve le ipotesi dell’incapacità legale -che è il contrario dell’incapacità naturale ed è quella del minore, dell’interdetto, dell’inabilitato e del fallito- dove invece l’annullamento ha effetto retroattivo).

Tornando alla fiducia testamentaria, da ultimo, occorre precisare che questa non colloca il beneficiario in una posizione analoga a quella del legatario che, invece, è un creditore dell’asse ereditario.



°°°


16.6.2012 (8° appuntamento) (segue dal 9.6.2012)

Dopo aver esaminato le prestazioni di dare e di fare, ci manca da trattare le prestazioni di non fare: qui si richiede che l’ordinamento preveda uno specifico obbligo di attivarsi, nel senso che il non facere può operare su due piani diversi derivando di volta in volta o direttamente dal neminem laedere oppure da un accordo tra i contraenti. Nel 1° caso la violazione dell’obbligo di non fare sarà fonte di resp. extracontrattuale, mentre nel 2° sarà fonte di resp. contrattuale.

Una ulteriore distinzione da fare nell’ambito del rapporto obb. e che si colloca a metà strada tra i soggetti e la prestazione è quella inerente i rapporti tra obb. divisibili o indivisibili da un lato ed obb. parziarie e solidali dall’altro lato.

OBB. DIVISIBILI E INDIVISIBILI

È una ≠ che attiene alla prestazione oggetto dell’obb..
Una prestazione può per natura, per legge o per volontà delle stesse parti essere prefigurata come INDIVISIBILE. Ove vi sia un solo deb. e un solo cre. non sorgono problemi (il solo deb. è tenuto alla prestazione indivisibile, il solo cre. può esigere la prestazione indivisibile) NB posto che in natura tutto può essere diviso, la giurisprudenza ha affermato che, ferma restando la divisibilità per natura e quella per legge, la ≠ tra la parte e tutto deve essere una ≠ quantitativa e non qualitativa (un kg di farina e un etto di farina differiscono solo per la quantità, mentre una macchina e un kg di lamiera della stessa sono qualitativamente ≠). NB l’indivisibilità opera anche nei confronti degli eredi: con più coeredi che devono adempiere ad una obb. indivisibile il creditore dell’eredità ha il diritto di esigere l’intero da ciascun erede. I problemi sorgono, sempre nell’ambito di prestazioni indivisibili, quando esistono più condeb. o concre., per cui ciascun condeb. (vedi l’es. di prima degli eredi) è tenuto a prestare l’intero e ciascun concre. ha il diritto ad ottenere l’intero.
Se invece la prestazione, oggetto dell’obb., ha come oggetto un bene DIVISIBILE, posto che anche qui non sorgono problemi ove vi sia un solo deb. e un solo cre., i problemi sorgono nelle obb. soggettivamente complesse, nelle quali coesistono più condeb. e/o più concre.. L’obb. divisibile è, o dovrebbe essere, parziaria, ossia ciascun condeb. sarà obbligato solo a dare la sua quota parte, e ciascun concre. potrà pretendere solo la sua quota parte. Tuttavia il nostro ordinamento introduce un meccanismo presuntivo (presunzione iuris tantum) di solidarietà passiva, appunto, tra i condebitori: si presume che, esistendo più condebitori, vi sia solidarietà passiva. Nel silenzio (cioè se non diversamente disposto) ciascun creditore o il solo creditore potrà pretendere l’intero da ciascun condebitore anche se l’obbligazione è divisibile. Quindi nell’ambito delle obb. divisibili il rapporto tra obb. parziaria e solidale passiva (dal lato del deb.) è il seguente: l’obb. solidale è la regola, l’obb. parziaria è l’eccezione. Viceversa la solidarietà attiva (in presenza di più creditori) la solidarietà tra concre. non si presume mai: salvo che non sia espressamente previsto il contrario, l’obb. divisibile è parziaria tra concre. (il concreditore può pretendere solo la sua quota: ipotesi legali di solidarietà attiva è es. il contratto di conto corrente bancario dove i coniugi possono, come creditori, distintamente prelevare, anche prosciugando il conto, non potendo invece singolarmente estinguere il detto conto in quanto il contratto, nato come plurilaterale, potrà essere sciolto solo con un contrarius actus in cui siano presenti tutte le parti originarie). Ma quale è la ragione per cui la solidarietà passiva si presume sempre, mentre la solidarietà attiva non si presume mai ? Perché la solidarietà passiva, nell’obb. divisibili, è uno strumento di rafforzamento della garanzia patrimoniale (come se il creditore potesse contare sui patrimoni di tutti di condebitori).

NB regna grande confusione tra l’indivisibilità della prestazione e la solidarietà: l’indivisibilità attiene alla prestazione, la solidarietà attiene ai soggetti. Gli effetti sono però i medesimi perché nelle prestazioni indivisibili se si hanno tanti debitori, ciascun deb. non potrà che adempiere alla richiesta del cre.; lo stesso nell’obb. solidali (con solidarietà passiva e se non previsto diversamente) per cui ciascun condebitore dovrà dare l’intero. Il problema nasce dal fatto che l’indivisibilità viene prima della solidarietà: non ha senso parlare di obb. solidali con riferimento a prestazioni indivisibili perché è il più che contiene il meno, cioè non interessa se sia solidale perché se la prestazione è indivisibile è solidale per forza.
Il rapporto tra l’indivisibilità e la solidarietà è il seguente: l’indivisibilità (in presenza di situazioni soggettivamente complesse) della prestazione è un prius rispetto alla solidarietà passiva che è un posterius, ossia l’indivisibilità della prestazione viene prima della solidarietà dell’obb., perché solidale non è la prestazione ma solidale è l’obb., mentre indivisibile è la prestazione. Se ciò è vero (come lo è) che la prestazione è indivisibile, il problema dell’eventuale solidarietà passiva in una prestazione indivisibile è un problema che non si pone neppure; va da sé che gli effetti siano i medesimi, in quanto prevale la disciplina naturalistica (in quanto prius) dell’indivisibilità della prestazione. Viceversa la solidarietà passiva viene in considerazione di fronte a prestazioni divisibili che potrebbero anche essere parziarie (anche con il temperamento della presunzione di solidarietà). Tra l’altro, a ben guardare, indivisibilità e solidarietà passiva in ordine agli effetti sono lievemente ≠ in quanto l’indivisibilità è ontologica, è strutturale dell’obb., mentre la solidarietà non è ontologica, ma è giuridica. Consegue da ciò che di fronte ad una obb. indivisibile, l’indivisibilità persiste anche nei confronti degli eredi, ma non la solidarietà: un obb. già solidale nei confronti degli eredi diventa parziaria per espressa previsione normativa (art. 1315 cc che fa da contrappunto all’art. 1295 cc).

LA SOLIDARIETÀ

È governata da una regola fondamentale (sia per i condeb. -dove la sol. è la regola- sia tra concre. -dove la sol. è l’eccezione-), per cui si comunicano i fatti favorevoli mentre non si comunicano quelli sfavorevoli, cioè tutte le questioni giuridiche e fattuali inerenti il singolo condeb. o concred., se favorevoli se ne giovano anche gli altri, se sfavorevoli no. Es. costituzione in mora fatta dal cre. nei confronti di uno solo dei condeb. solidali (solidarietà passiva): è effetto sfavorevole perciò il cred. se ne potrà avvalere solo con riguardo al deb. “compulsato” (i.e.: invitato a pagare) ma non nei confronti degli altri (ma v. infra). Ancora, costituzione in mora fatta da uno dei concre. solidali (solidarietà attiva): è effetto favorevole e si estende agli altri concre..
Ci sono però istituti particolari che fanno storia a sé rispetto alla citata regola generale (eff. favorevoli si comunicano, eff. sfavorevoli non si comunicano) e autonomamente disciplinati dal legislatore: es. sospensione e interruzione della prescrizione . La sospensione della prescrizione crea una parentesi nel decorso del termine prescrizionale nel senso che la prescrizione non ri-inizia a decorrere da zero ma al periodo già decorso si somma un nuovo periodo; poi il presupposto giuridico in materia di sosp. della prescrizione è che per tutto il periodo della sosp. risulta difficile o praticamente impossibile l’esercizio del diritto (es. c’è sosp. della prescrizione nei rapporti credito-debito tra coniugi; ancora c’è sosp. della prescrizione per effetto di sentenza della Corte Cost. nei rapporti debito-credito tra lavoratore subordinato e il datore di lavoro per tutto il corso del rapporto di lavoro se questo non è assistito da tutela reale). Ovviamente la sosp. giova al cre. e non al deb. così come l’interruzione. In materia di obb. solidali, se è vero (come è vero) che la parentesi che si apre con la sosp. nel decorso del termine prescrizionale è strettamente legata ad un rapporto particolare personale tra deb. e cre., la sosp. della prescrizione non sarà mai estensibile, né in bonam partem né in malam partem, perché varrà solo tra quel cre. e quel deb. che si trovano in quella data situazione. Circa l’interruzione della prescrizione (dove ri-inizia a decorrere un nuovo termine prescrizionale) la forma tipica di interr. è la costituzione in mora, ma a ≠ della costituzione in mora prima detta, l’interr. della prescrizione nelle obb. solidali vale a favore o contro tutti (si estende sia in bonam partem che in malam partem): segue la regola tra concreditori (perché giova) mentre è una eccezione tra i condebitori (perché è sfavorevole: è eccezione alla regola fondamentale per cui gli effetti sfavorevoli non si estendono a tutti v. supra). Con ciò il legislatore ha voluto far prevalere la disciplina della prescrizione su quella della solidarietà (questa ultima essendo una sovrastruttura -abbiamo detto prima che non è ontologica, ma giuridica- ne viene preferita la natura della prescrizione).

Trattiamo ora delle conseguenze che derivano dall’adempimento liberatorio (per tutti) da parte del deb. compulsato che paga l’intero. Sotto tale profilo non è ipotizzabile, anzitutto, un difetto di legittimazione passiva in un eventuale giudizio quando la domanda giudiziale è dal cre. rivolta solo ad uno dei condeb. solidali in quanto deve l’intero (solve et repete), altrimenti finisce lo scopo della solidarietà. Una volta che il condeb. paga l’intero sorge per lui una duplice posizione alternativa, per cui può avvalersi della c.d. azione di regresso contro gli altri condeb. (art. 1299 cc) o, appunto in alternativa, può avvalersi della surroga legale (art. 1203 n. 3 cc) -NB si chiama volgarmente azione di surroga, ma non è, in materia civilistica, un’azione, come es. lo può essere in materia lavoristica, ma è una surroga legale-. Vediamole:

-         REGRESSO: il deb che paga l’intero può agire nei confronti di tutti gli altri condeb. solidali ciascuno pro-quota (cioè il regresso è sempre parziario, non per l’intero). NB dal lato processuale, l’azione di regresso può essere cumulata nello stesso processo nel quale il cre. chiede il pagamento all’obbligato in solido ? L’opinione maggioritaria è nel senso negativo in quanto il presupposto del regresso è il pagamento: non si può fare una chiamata in garanzia, una chiamata in causa e fare un regresso secundum eventus litis (se sono condannato faccio regresso e se non sono condannato non lo faccio: non è possibile, ma devo fare un autonomo giudizio). Occorre anche che il deb. (che ha pagato l’intero al cre.) abbia pagato bene, cioè cha alla data del pagamento non vi fossero eccezioni comuni (non personali) a tutti i condeb. che il deb. avrebbe potuto e dovuto opporre al cre., tali eccezioni paralizzando la pretesa di questo ultimo (es. il deb. che deve pagare è a conoscenza che il pagamento è stato gia effettuato da altri, oppure che il pagamento è prescritto, o ancora che c’è un controcredito in compensazione: in tali casi il mancato rilievo di queste eccezioni comuni paralizzano il regresso). L’azione di regresso è autonoma, separata e distinta rispetto all’obb. originaria: la causa petendi trae origine dal pagamento fatto dal condeb. solidale. Perciò chi agisce in via di regresso non può avvalersi delle garanzie reali o personali date all’inizio del rapporto obb. da lui o da altri condeb. perché è azione autonoma, non è successione a titolo particolare nel credito. NB perciò principio cardine della solidarietà passiva se ne deduce è che la solidarietà passiva opera solo verso l’esterno e non verso l’interno (opera solo tra i condeb. e il cre. mentre tra gli stessi condeb. l’obb. resta sempre parziaria). Il regresso si prescrive in 10 anni dalla data dell’avvenuto pagamento.
-         SURROGA: il cc conosce delle particolari figure denominate pagamento con surrogazione, tutte testuali e tassative ex artt. 1201, 1202 e 1203 cc: tutte ipotesi nelle quali malgrado sia avvenuto il pagamento, l’adempimento, l’obbligazione stessa non si estingue (perciò occorre la previsione di legge) ma prosegue, di modo che chi paga si sostituisce, si surroga all’originario creditore. Art. 1201 cc surroga per volontà del cre. (c.d. surroga per quietanza); art. 1202 cc surroga per volontà del deb. (c.d. surroga per imprestito: tipica surroga nel contratto di mutuo); art. 1203 cc surroga per volontà della legge (c.d. surroga legale) nel senso che il deb. coobbligato in solido, pagando l’intero, salvo che non esperisca il regresso, si surroga al creditore, andando ad occupare la posizione di questo ultimo nei confronti degli altri condeb.: l’obb. non si estingue (perché lo dice la legge). NB ≠ con il regresso: lì si estingue l’obb. nella surroga non si estingue; ancora nella prima il deb. che agisce in via di regresso, perde le garanzie (si è detto) e può chiedere agli altri deb. solidali il pagamento del capitale, degli interessi (da quando lui ha pagato a quando gli altri lo hanno rimborsato) e il pagamento, la rifusione, di eventuali spese, cosa che non c’è nella surroga dove il deb., andando ad occupare la posizione del cre., non potrà pretendere se non ciò che il cre. poteva pretendere loro ed eccependo solo le eccezioni inerenti il rapporto di valuta.

Tornando alla prestazione [B) vedi il 7° appuntamento], all’oggetto dell’obb. come punto di partenza, si distinguono anche qui obb. oggettivamente (cioè intese all’oggetto) complesse ed obb. oggettivamente semplici (NB nelle obb. il semplice o il complesso deve essere sempre aggettivato: obb. oggettivamente/soggettivamente semplici/complesse). Queste ultime si connotano per il fatto che la prestazione dedotta nello iuris vinculum (i.v.) è unica e il deb. di conseguenza è liberato effettuando la prestazione dedotta. Le obb. oggettivamente complesse sono obb. nelle quali siano dedotte più prestazioni separate e distinte nello i.v.. Qui l’obb può essere di 3 tipi:

1-       CUMULATIVA: qui il deb. per potersi liberare deve eseguire tutte le prestazioni dedotte nello i.v. nessuna esclusa.
2-       ALTERNATIVA: qui si hanno più prestazioni nello i.v. ma una sola prestazione è dedotta nell’adempimento: il deb si libera eseguendo a sua scelta una qualsiasi delle prestazioni dedotte nella i.v.. Il regime delle obb. alternative funziona così: salvo diversamente pattuito la scelta di quale prestazione eseguire spetta al deb. il quale se no la effettua (la scelta) questa può essere fatta o dal cre. o, se pattuito, rimessa la giudice. Prima della scelta la sopravvenuta impossibilità non imputabile di una delle prestazioni non libera il debitore che resterà obb. ad adempiere all’altra o altre prestazioni. Viceversa, una volta avvenuta la scelta (c.d. concentrazione dell’obb.) di modo che l’impossibilità sopravvenuta della prestazione sulla quale è avvenuta tale scelta (sempre se non imputabile) ha effetto liberatorio. Es. normative di obb. alternative (NB non si tratta di obb. alternativa in materia di inadempimento la scelta tra l’agire per il mantenimento del contratto con il risarcimento del danno o per la risoluzione del contratto con il risarcimento del danno: è una alternativa ma non è una obb. alternativa) è l’adempimento agli obblighi alimentari (art. 433 cc): i soggetti tenuti agli alimenti (primo della lista è il donatario) possono a scelta o corrispondere all’alimentando una rendita periodica oppure tenerlo presso di sé ed accudirlo per tutte le esigenze minimali di vita. NB per l’ipotesi di colpa di una delle parti la relativa disciplina è dettata ex art. 1289 cc.
3-       FACOLTATIVA: quando la prestazione è unica, sia quella dedotta dallo i.v. sia quella alla quale si deve dare esecuzione. Tuttavia il deb., per accordo iniziale con il cre., si riserva la facoltà di adempiere effettuando una prestazione diversa da quella originariamente pattuita. L’impossibilità sopravvenuta non imputabile della prestazione principale ha sempre effetto liberatorio; mentre per la prestazione facoltativa ? Non ha rilevanza rimanendo ancora obbligato ad eseguire la prestazione principale. Es. normativo è il c.d. ius commutationis ex art. 537 III co cc: è l’ipotesi in cui chiamati all’eredità siano contestualmente figli legittimi e naturali riconosciuti e i figli legittimi, se non c’è opposizione (lo ius commutationis non è un diritto potestativo: altrimenti sarebbe incostituzionale) da parte dei figli naturali, possono estrometterli dall’asse ereditario liquidandogli la loro quota. Ma quale è la ≠ tra obb. facoltativa e datio in solutum ? Questa ultima è la prestazione diversa da quella dovuta inizialmente, con capacità estintiva del rapporto obb.: è possibile con il consenso del cre. che il deb. si liberi dando una cosa diversa (un aliud pro alio) da quella pattuita, ma ciò solo nella fase adempitiva (tecnicamente in executivis: all’atto dell’adempimento) non è un accordo preliminare, ma il cre. accetta obtorto collo una cosa diversa da quella pattuita, mentre nella obb. facoltativa c’era una riserva nella possibilità di eseguire una prestazione (quella facoltativa) diversa dalla principale. Secondo la migliore dottrina, la datio in solutum (come natura giuridica) è un contratto solutorio reale (ci vuole la datio rei). Ma la datio in solutum è una novazione oggettiva ? No perché (dice il Trabucchi che la ≠ tra novazione oggettiva e datio in solutum è la seguente: con la datio si dà, mentre nella novazione oggettiva si promette) con la datio si estingue il rapporto e basta, mentre con la novazione si ha contestualmente all’estinzione anche la costituzione di una nuova obb.



°°°


9.6.2012 (7° appuntamento) (segue dal 2.6.2012)

IL RAPPORTO OBBLIGATORIO

Il nostro ordinamento conosce l’endiadi d. soggettivi relativi/obblighi nel senso che all'interno del d. sogg. (che è il prototipo della posizione di vantaggio nel d. civile) si può distinguere tra il d. sogg. assoluto e d. sogg. relativo; altrettanto noto è che di fronte ad un d. assoluto (es. i d. reali o della personalità) si colloca dal lato passivo una situazione di dovere giuridico (o dovere generico) per evidenziarne due requisiti: 1) la negatività di contenuto (tale dovere consiste in un non facere ossia nel non frapporre ostacoli al libero esercizio di godimento della situazione tra soggetto e bene -c.d. situazione finale, che si soddisfa di per sé senza bisogno di collaborazione altrui-); 2) la generalità di soggetti cui fa capo (il dovere giuridico opera erga omnes). Per contro di fronte ad un d. soggettivo relativo si colloca non un dovere giuridico, ma una situazione soggettiva definita di obbligo, che dà luogo ad una situazione strumentale, tale che si soddisfa solo con la collaborazione altrui: per tale ragione l’obbligo si connota per due requisiti: I) la positività di contenuto (in un dare, in un fare o non fare -qui di contenuto positivo-); II) specificità del soggetto cui fa capo (l’obbligo opera inter partes e non erga omnes). 
Da ciò si evince la nozione giuridica di obbligazione (obb.) intesa come rapporto particolare che lega due soggetti, uno dei quali detto debitore, è tenuto ad eseguire una data prestazione a vantaggio di un altro soggetto detto creditore che ha il corrispondente diritto di esigerla. 
Gli elementi di struttura del rapporto obbligatorio sono 3: A) i soggetti; B) la prestazione; C) il vincolo giuridico (iuris vinculum: i.v.) che costituisce l’elemento di unione dei soggetti e della prestazione.

A) I SOGGETTI

Devono essere almeno due, creditore (cre.) e debitore (deb.), determinati o almeno determinabili. Tuttavia una dottrina (minoritaria: Giorgianni) sostiene che deb. e cre. debbano essere determinati fino dall’inizio e in difetto non sorge un rapporto obbligatorio; in proposito viene utilizzata l’esemplificazione della promessa al pubblico, art. 1989 cc (una delle tipiche promesse unilaterali -tipiche perché le promesse unilaterali sono tipizzate: le altre sono la promessa di pagamento e la ricognizione di debito-), in cui l’obbligo alla ricompensa sorge solo quando la prestazione richiesta sia adempiuta (es. ritrovamento avvenuto del cane smarrito). Viceversa la norma riferisce il sorgere dello i.v. ad un momento anteriore (es. rispetto al ritrovamento), ossia quello in cui la promessa al pubblico è esternata. Tale concezione di Giorgianni ha poi consentito ad altra dottrina (Bigliatti-Geri) la controversa e dubbia figura dell’interesse legittimo di diritto privato (tale interesse coprirebbe il periodo che va dal momento in cui la promessa è resa pubblica fino al ritrovamento: tutti i potenziali ritrovatori avrebbero un interesse e pretesa al corretto esercizio -secondo correttezza e buona fede- del potere di scelta, es. dell’animale da ritrovare. NB tale concetto di int. leg. di d. privato non trova tutela giurisdizionale, conoscendo il giudice di d. sogg. o int. leg. di d. pubblico).

Nondimeno esistono rapporti obbligatori nei quali di volta in volta cre. e deb. sono determinabili per relationem rispetto, di regola, alla loro titolarità di altro diritto reale. In materia la dottrina parla di obb. ambulatorie (attiva o passiva a seconda che sia dal lato del cre. o dal lato del deb.).

Con riferimento alle OBB. AMBULATORIE DAL LATO PASSIVO (dal lato del soggetto deb.) l’ordinamento individua l’obbligato alla stregua della titolarità di un dato diritto per lo più reale (es. il proprietario del muro posto sul confine tra due fondi contigui è obbligato alla manutenzione ordinaria e alle riparazioni straordinarie al pari dell’altro proprietario, con la conseguenza che chiunque subentri nella titolarità del fondo diviene automaticamente obbligato ad eseguire le su estese riparazioni -ma limitatamente a quelle future, non anche per quelle passate-). Notevole interesse ha suscitato, in tale materia, la tematica dei c.d. oneri condominiali. Questi si collocano nell’ambito del condominio degli edifici (art. 1117 ss. c.c.) che è di origine germanistica e che ha struttura composita: ossia si affianca, ad una comunione necessaria ed indivisibile nelle parti comuni dell’edificio per tutti i condomini, un proprietà separata e isolata delle singole porzioni di piano. Consegue perciò che qualsiasi atto avente ad oggetto la cosa di proprietà separata, incide ipso iure, sulle parti comuni dell’edificio; la disciplina di queste ultime può essere contenuta in un regolamento (approvato a maggioranza qualificata dell’assemblea di convocazione straordinaria ed obbligatorio per condominio con più di 10 appartamenti), che può essere autonomamente trascritto presso la Conservatoria dei Registri Immobiliari ai fini dell’opponibilità dei terzi subacquirenti. Anche per gli oneri condominiali vale la regola della sequela nel senso che gravano sui successivi subacquirenti dell’unità immobiliare. Tuttavia dal combinato disposto degli art. 63 e 64 delle disp. att. cc si desume che ciascun sub-acquirente è tenuto non solo al pagamento degli oneri maturandi, ma anche di quelli già maturati e non pagati dall’alienante con il limite dell’anno in corso e di quello precedente. Inoltre, sempre dalle medesime norme, si ricava che il condominio in persona dell’amministratore in carica p.t. è legittimato a chiedere ed ottenere dai singoli condomini il pagamento degli oneri anche servendosi del procedimento per D.I. che, per la fattispecie, è provvisoriamente esecutivo ex lege (NB).
E nell’ambito delle obb. ambulatorie dal lato passivo sorge il problema di operare la distinzione tra obbligationes propter rem e oneri reali. Secondo la dottrina prevalente il distinguo tra i due istituti va individuato a seconda che obbligata sia la persona (obbligationes propter rem) oppure obbligata sia la cosa (oneri reali). Su questa base l’onere reale grava sulla cosa per intero (presente, passato e futuro) a prescindere dall’attuale titolarità della cosa. Viceversa nelle obbligationes propter rem il vincolo riguarda solo le obb. maturate in epoca successiva al trasferimento della titolarità del bene, mentre per quelle pregresse resta vincolato il deb. originario. Es. di onere reale concerne l’enfieteusi, e in particolare l’ipotesi di successione di un nuovo enfiteuta a quello originario: in tal caso il c.c. espressamente prevede che i canoni non pagati dal 1° enfiteuta (originario) restano per intero a carico dell’enfiteuta cessionario (obbligato in solido con il cedente). E alla domanda se gli oneri condominiali siano una obb. propter rem o un onere reale si può rispondere che sono entrambi in quanto per l’anno in corso e per l’anno immediatamente precedente sono oneri reali (dovendo rispondere per gli onere pregressi e non pagati), mentre saranno obb. propter rem relativamente agli oneri ancora precedenti.

Con riferimento alle OBB. AMBULATORIE DAL LATO ATTIVO (dal lato del soggetto cre.), l’ipotesi più significativa è la promessa al pubblico (art. 1989 c.c.).

B) LA PRESTAZIONE

La prestazione si caratterizza come elemento di struttura del rapporto obb. e può essere variamente classificata; una prima tripartizione è quella: 
i) di dare,
ii) di fare, 
iii) non fare. 
È opportuno soffermarsi su alcuni concetti.
Anzitutto la prestazione di dare può avere, a sua volta, un duplice significato: in una prima accezione “dare” può intendersi come “consegnare” e dunque il dare, sotto tale profilo, opera sul solo piano del trasferimento del possesso o detenzione (es. nella compravendita la consegna materiale della cosa opera solo sul piano possessorio in quanto la proprietà è già trasferita alla stregua del principio consensualistico ex art. 1376 c.c.); inoltre “dare” può anche essere preso in considerazione come “momento perfezionativo del contratto” come ad es. nei contratti reali nei quali la datio rei -oltre al consenso- è elemento perfezionativo del consenso (es. deposito, comodato, pegno, mutuo). In materia occorre segnalare la regola civilistica in base alla quale res perit domino (la cosa perisce in danno del proprietario), con la conseguenza che fin tanto che non si è perfezionato l’atto traslativo, il rischio di perimento resta a carico dell’alienante. Tuttavia a questa regola fa eccezione la vendita con patto di riservato dominio (con riserva di proprietà, c.d. vendita a rate), nella quale il passaggio della proprietà avviene solo con il pagamento dell’ultima rata, mentre il godimento della cosa ed il connesso rischio di perimento della stessa si trasferisce a carico dell’acquirente, anche nelle more, ossia pur non essendo ancora proprietario. L’obb. di dare assume poi una particolare connotazione nel senso di “restituire”, nelle obb. restitutorie, come ad es. nel deposito o nel comodato, dove il depositario ed il comodatario sono obbligati a restituire la cosa alla controparte e rispondono dell’impossibilità sopravvenuta di restituzione (dovendo risarcire il danno) salvo che non provino (positivamente) il fortuito (ossia caso fortuito, forza maggiore, factum principis o fatto del terzo), altrimenti l’impossibilità sopravvenuta, a prescindere dallo stato soggettivo (di dolo o colpa), è a carico del depositario o comodatario: NB tale responsabilità nelle obb. restitutorie tecnicamente si chiama responsabilità ex recepto (v. infra).
Circa la prestazione di fare viene in considerazione la summa divisio tra obb. di mezzi e obb. di risultato. Distinzione che ha avuto in dottrina alterne vicende al punto da essere ritenuta superflua e in ogni caso fine a se stessa nel senso che ogni obb. di mezzi è anche obb. di risultato e viceversa (Gazzoni). Tuttavia ad un più attento esame la citata distinzione conserva tuttora un notevole significato normativo. In particolare nelle obb. di mezzi l’interesse del cre. si soddisfa tramite l’attività posta in essere dal deb. quale che sia il risultato conseguito o conseguibile; viceversa nelle obb. di risultato l’interesse del cre. si soddisfa solo con il conseguimento di un dato risultato (es. promessa del fatto del terzo 1381 c.c., vendita di cosa altrui art. 1478 c.c.). NB per valorizzare la distinzione occorre descriverla secondo la prospettiva del cre. non del deb.: 
a) OBB. DI MEZZI dove solo il comportamento qualificato del deb. appaga il cre., indipendentemente dal fatto che l’attività sia prodromica ad un successivo risultato; 
b) OBB. DI RISULTATO dove solo con il conseguimento del risultato si ha il soddisfacimento del cre..
La detta distinzione è importante sul piano della distribuzione della resp. contrattuale: in b) l’obbligato è resp. sic et simpliciter per non aver conseguito il risultato a prescindere dalla sua diligenza o negligenza adempitiva; di conseguenza l’obbligato non sarà esonerato da resp. provando la propria diligenza ma solo con la prova positiva (del caso fortuito, forza maggiore, factum principis o fatto del terzo) per cui il risultato è mancato per causa a lui non imputabile. In a) nell’obb. di mezzi il deb. deve provare di aver tenuto un comportamento ispirato alle regole di correttezza e buona fede contrattuale (artt. 1175 e 1375 c.c.) per poter andare esente da resp. restando estraneo al rapporto obbligatorio il conseguimento o meno di un qualsivoglia risultato. In determinate attività (es. le libere professioni intellettuali) l’art. 2236 c.c. limita la resp. del professionista, che debba affrontare problemi di particolare complessità, alla sussistenza del solo dolo o colpa grave. Perciò il criterio di imputazione della resp. nelle obb. di risultato è un criterio oggettivo o soggettivo ? È oggettivo, mentre in quello di mezzi è soggettivo. E ciò a fronte della resp. extracontrattuale imperniata complessivamente su un criterio di imputazione di tipo soggettivo. 
NB nella prestazione di dare intesa come “restituire” (es. il comodato) si ha una obb. di mezzi e non c’è una obb. di risultato, eppure il criterio di imputazione della resp. è come quello delle obb. di risultato, ossia un criterio oggettivo, perciò la dottrina le ha definite come una determinata forma di resp. quale quella, appunto, ex recepto (letteralmente dalla ricezione deriva la resp.).


°°°


2.6.2012 (6° appuntamento) (segue dal 26.5.2012)

EFFETTI DEL CONTRATTO TRA LE PARTI E NEI CONFRONTI DEI TERZI

Un con. può produrre effetti (diretti e/o riflessi) ultra vires, cioè anche nei confronti di soggetti diversi dai contraenti?

In proposito soccorre l’art. 1372 cc per cui si afferma solennemente al I co. che “il contratto ha forza di legge tra le parti” soggiungendo inoltre al II co. che può produrre anche “effetto rispetto ai terzi” nei soli casi tassativi previsti dalla legge. Il I co. afferma perciò il principio civilistico (che a sua volta si incardina nel principio romanistico res inter alios acta neque prodest neque nocet) dell’intangibilità delle sfere giuridiche private (sia in bonam partem: ossia in senso accrescitivo del patrimonio altrui; sia in malam partem: ossia in senso diminutivo del patrimonio altrui). Posto che la legge deve individuare i casi in cui il con. può produrre effetto (per adesso diretti; vedremo poi quelli riflessi) verso i terzi, la dottrina si è interrogata nell’operare la migliore classificazione possibile, più efficace. La classificazione preferibile (Rescigno) è tra a) eff. favorevoli b) eff. sfavorevoli.

a) EFF. DIRETTI FAVOREVOLI: qui si colloca un istituto di portata generale del cc, il con. a favore di terzi ex art. 1411 ss. cc, il quale prevede che un soggetto terzo (c.d. beneficiario), che non è, né diventa, parte contrattuale, si pone come destinatario di eff. favorevoli di un accordo tra altri soggetti e segnatamente il promittente e lo stipulante laddove questo ultimo si obbliga ad eseguire una prestazione a vantaggio del beneficiario. In tale norma si richiede espressamente che il 3° beneficiario della prestazione, affinché questa possa produrre i propri effetti, debba aderire alla conventio inter alios: su tenore testuale della norma della necessità di adesione all’accordo si è discusso nel senso che, se il 3° deve aderire, per il solo fatto dell’adesione dovrebbe diventare parte; ma tale soluzione non può essere accolta in quanto vanificherebbe il contenuto precettivo della stessa norma. Si è cercato, allora, di dare un altro significato al concetto di adesione del 3°: l’adesione non è requisito di eff. né condizione di esigibilità della prestazione, ma è un momento di completamento (perciò non di perfezionamento) della fattispecie rendendo irrevocabile l’accordo tra le parti originarie. All’art. 1411 cc sono riconducibili talune ipotesi applicative (es. artt. 1689, 1875, 1920, 1273 cc) tra cui spicca l’accollo (art. 1273) quale vicenda modificativa del rapporto obbligatorio dal lato passivo.
Le 3 principali vicende modificative del rapporto obbligatorio dal lato passivo sono la delegazione, l’espromissione e l’accollo. Questi istituti (artt.1268-1276 cc.) possono avere diverse modalità di funzionamento. Funzionamento cumulativo, nel senso che si aggiunge al debitore originale un nuovo debitore e ne risponde solidalmente, nell’espromissione e accollo, mentre nella delegazione il creditore deve prima chiedere il pagamento al delegato e poi al delegante. Queste vicende modificative possono avere una funzione ed una modalità di attuazione liberatoria (liberazione del debitore originario) con l’aggiunta al debitore originario di un nuovo debitore. Tale modalità liberatoria può essere consentita attraverso due diversi strumenti: 1) privativo o cessione particolare di debito; 2) novativo o novazione successiva passiva. È importante questa distinzione in quanto nell’ipotesi di delegazione privativa avremo una cessione particolare del debito di modo che il rapporto obbligatorio resta sempre quello (onde l’eventuale termine prescrizionale continua a decorrere e non è interrotto dall’ingresso di un nuovo debitore). Invece con lo strumento novativo nasce un rapporto nuovo che coinvolge il precedente (e avremo conseguenze es. relativamente al termine prescrizionale). Se tutto ciò è vero la novazione successiva passiva la troveremo solo nella delegazione e nell’espromissione: l’accollo novativo non è configurabile (vedi infra).

La delegazione

Si distingue tra delegazione di pagamento (delegatio solvendi causa) e la delegatio promittendi causa. Anche tale distinzione è importante poiché nella delega di pagamento (quella che si fa in banca o alla posta per il pagamento di tasse e imposte) il delegato è solo delegato al pagamento, non assume l’adempimento di una obbligazione, anche se poi il pagamento adempie il suo obbligo con il delegante, ma ciò non importa perché importa solo che sia chiamato ad eseguire quel pagamento. Il delegato quando andrà a pagare potrà opporre (es. l’avvenuto pagamento ecc.) ciò che è relativo al rapporto di provvista, ma non potrà opporre ciò che è relativo al rapporto di valuta, ossia al rapporto originario. Viceversa nella promittendi causa il delegato non è chiamato a pagare, ma è chiamato ad assumere l’adempimento di una obbligazione altrui: perciò non solo potrà opporre al creditore originario le eccezioni a lui personali, ma anche tutte quelle eccezioni che avrebbe potuto opporre il deb. originario (es. rescindibilità, risolubilità ecc.). Tale distinzione si collega con la distinzione ulteriore tra delegazione pura o astratta e delegazione causale: distinzione che non ha un diretto riscontro normativo ma dottrinale. È delegazione pura quella in cui si raggiunge l’accordo di delegazione prescindendo da accordi sottostanti: non è altro che una delega di pagamento. A fronte della delegazione astratta abbiamo la delegazione causale dove viene evocato il rapporto causale e a cui corrisponde la delegazione promittendi causa. Ma è da riscontrare che anche nella delegazione promittendi causa c’è sempre una pur parziale astrazione causale: in tale delegazione causale, dove io delegato voglio riversare il rapporto obbligatorio sottostante, non posso opporre al delegatario le eccezioni che avrei potuto opporre al mio creditore, ossia al delegante, tuttalpiù posso opporre quella della valuta ma non quelle della provvista. L’interesse da noi posto a tale istituto della delegazione viene fuori non tanto e non solo come vicenda modificativa del rapporto obbligatorio dal lato passivo: nella delegazione si è ritenuto di rilevare la problematica dell’astrazione causale. C’è il quesito, che non trova risposta, se negli ordinamenti sia configurabile un’attività negoziale caratterizzata da astrazione causale. Nella delegazione abbiamo astrazione causale (è l’istituto di punta dell’astrazione causale) relativamente al rapporto delegante-delegato. Ci può essere anche nel rapporto di valuta un’astrazione causale? Si, in riferimento alla delegazione astratta o nella delegazione di pagamento. Quindi alla domanda: quali sono le diverse forme in cui si atteggia l’astrazione causale nella delegazione? Sono due: a) un’astrazione causale totale, sia dal rapporto di valuta che dal rapporto di provvista nella delegazione astratta o comunque nella delegazione di pagamento; b) un’astrazione causale parziale, dal solo rapporto di provvista, nella delegazione promittendi causa. La delegazione è espressione del principio, riscontrabile nel nostro ordinamento, dell’astrazione causale. C’è però un caso in cui l’estremo baluardo dell’astrazione causale parziale (cioè limitato al rapporto di provvista) cade al punto che il delegato può opporre al delegatario tutte le eccezioni, sia quelle personali sia quelle inerenti alla valuta: non si ha astrazione causale (la quale è la regola per lo meno nel rapporto di provvista mentre la mancanza di astrazione è l’eccezione) nella “nullità della doppia causa”. L’art.1271 II c. ultima parte cc., concede la possibilità al delegato di opporre al delegatario ogni tipo di eccezione, comprese quelle inerenti al rapporto di provvista, quando entrambi i rapporti, di valuta e di provvista, siano nulli (es. mancanza di elementi essenziali per entrambi i rapporti). Ma NB non perché i rapporti siano nulli in sé, ma perché la nullità del rapporto di valuta comporti la nullità del rapporto di provvista che in tal senso non è nullo propriamente in sé, ma la nullità è derivata dal rapporto di valuta: es. quando tra la valuta e la provvista vi sia uno specifico rapporto. Ma perché è importante domandarsi se l’astrazione causale ha diritto di cittadinanza nel diritto civile? Perché ogni atto di attribuzione patrimoniale deve avere una causa: ciò lo ricaviamo da numerose norme (artt.1321, 1324) che trattano del contenuto “patrimoniale”. Ogni accordo tra due e più parti deve avere una giustificazione causale: causa in senso oggettivo, soggettivo, causa astratta o concreta. Deve essere l’indicazione causale. Non posso essere chiamato a dare sine causa: ci deve essere una ragione giustificativa o giustificatrice, sia nel tipico che nell’atipico. Prototipo tipico dell’astrazione causale sono i titoli di credito dove vige il diritto cartolare: qui il rapporto sottostante causale lo possono far valere solo traente e trattario, ossia i soggetti che hanno contrattato e a cagione di quella contrattazione è sorto il titolo. Da ultimo la differenza tra la delega di pagamento e il pagamento del terzo: in entrambi i casi abbiamo l’assunzione dell’obbligo eseguire il pagamento. La differenza si basa su una considerazione molto semplice: si adempie per ordine nella delegazione, non così nell’adempimento del terzo.

L’espromissione

È un accordo tra il creditore ed un terzo: questo terzo è un debitore soggetto diverso dal deb. originario. L’espromissione, a differenza della delegazione che può essere solvendi causa e promittendi causa, può essere solo promittendi causa: quindi qui nell’espromissione si realizza sempre quel meccanismo di immissione del nuovo deb. nell’originario rapporto obbligatorio. Il nuovo deb. potrà così opporre al creditore, oltre le eccezioni a lui personali, tutte quelle che avrebbe potuto opporgli il deb. originario (salvo alcune categorie di eccezioni normativamente stabilite: es. per impossibilità sopravvenuta, eccezione di compensazione ed altre. Il legislatore ha così stabilito). Quale adesso la differenza tra l’espromissione e l’adempimento del terzo art.1180 cc.? Intanto abbiamo un pagamento: il terzo adempie eseguendo un pagamento; viceversa nell’espromissione il soggetto che promette, ossia il nuove deb. si obbliga ad adempiere. Ex art.1180 cc. l’ordinamento prende in considerazione l’avvenuto pagamento da parte del terzo, adempimento che il creditore non può rifiutare a patto che non sia aliud pro alio (cosa diversa da quella pattuita) o sia richiesta una prestazione intuitu personae e a meno che non ci sia opposizione da parte dello stesso deb. originario. Ma l’opposizione del deb. originario “facoltizza” il creditore a rifiutare il pagamento, ma non lo obbliga: nel senso che se non siamo in presenza di prestazione intuitu personae e non c’è opposizione del deb. originario il creditore deve accettare pena la mora accipiendi. Il fatto adempimento è conseguenza dell’obbligazione da cui scaturisce, ed è in tal senso un atto giuridico in senso stretto: devo poter adempire pur non dovendo avere la capacità d’agire. Non così nell’adempimento del terzo: qui il terzo che adempie non basta che abbia la capacità di intendere e volere, occorre che abbia la capacità d’agire. Ciò si desume da un’altra norma (l’art.1191 cc.) per cui il pagamento fatto dal “debitore incapace” non è ripetibile a cagione della sua incapacità: ciò vuol dire che il pagamento fatto da un “terzo incapace” è, invece, ripetibile. Da ultimo l’adempimento del terzo, a differenza dell’adempimento tout court (che è un atto giuridico in senso stretto per cui rileva solo la capacità d’agire), è un atto negoziale: il terzo che adempie deve avere la capacità di intendere e volere, e se risulta incapace di intendere e volere può ripetere ciò che ha dato. Quindi mentre l’espromissione è un contratto, l’adempimento del terzo è solo un adempimento. Conseguenza è che nell’espromissione l’obbligazione sorge, nell’adempimento del terzo questa si estingue. Notiamo poi la differenza tra la datio in solutum (art.1197 cc.) con l’espromissione: nella datio (prestazione in luogo di adempimento) i soggetti rimangono gli stessi, non così nell’espromissione. NB nella manualistica la datio in solutum viene richiamata come “contratto solutorio reale”: solutorio perché è un accordo che è finalizzato all’estinzione dell’obbligazione; ed ha una funzione solutoria reale perché, come per i contratti reali, l’estinzione dell’obbligazione (che consiste nel dare la cosa diversa da quella promessa) si ha solo con la dazione. Tanto è vero che la norma successiva, l’art.1198 cc., trattando di cessione del credito in luogo dell’adempimento, la datio del pagamento, ossia la riscossione del credito, estingue l’obbligazione: è pro solvendo non pro soluto. Da ultimo la differenza tra espromissione e fideiussione: si assomigliano perché anche nella fideiussione c’è un accordo tra il creditore ed un terzo garante ed in entrambi abbiamo solidarietà passiva, potendo il creditore rivolgersi al garante o al garantito (nella fideiussione: salvo patto contrario) e al deb. originario o al nuovo (nell’espromissione). L’elemento distintivo consta del fatto che l’espromissione presuppone che vi sia un’obbligazione rispetto alla quale il nuovo deb. si immette, perché assume l’adempimento dell’obbligazione originaria: ciò è vero anche nella fideiussione, ma in tale istituto è riscontrabile il riferimento alle obbligazioni future. L’espromissione per obbligazione future sarebbe invece un non senso: non ci si può immettere in un rapporto obbligatorio futuro come avviene nella fideiussione.

L’accollo

L’accollo è un accordo tra due debitori al quale non partecipa il creditore. Così come per la delegazione è sintomatica l’astrazione causale, qui trattasi di una delle principali ipotesi applicative, appunto, del contratto a favore di terzo ex art. 1411 cc.. E si riscontra il momento in cui l’accollo è “interno”, ossia resta all’interno nel rapporto deb. originario e nuovo deb., oppure “esterno” se di tale accordo è stato edotto il creditore. L’accollo può essere di due tipi: cumulativo o liberatorio, sempre per volontà dei contraenti. Sarà cumulativo allorché il deb originario e il terzo (NB attenzione se il verbo accollare si coniuga in forma riflessiva! A tal punto molti manuali suggeriscono di ovviare al problema parlando di deb. originario e terzo debitore accollante) restino coobbligati in solido nei confronti del creditore. È invece liberatorio con la liberazione del deb. originario: ma quale è la forma con cui si libera il deb. originario (e vedi supra)? È successione a titolo particolare nel debito (il deb. accollante succede a titolo particolare nel debito del deb. originario) c.d. “accollo privativo”? Oppure novazione soggettiva passiva (sulle ceneri della precedente obbligazione ne nascerebbe una nuova uguale in ordine al contenuto oggettivo ma diversa per il soggetto stipulante) c.d. accollo novativo. NB l’accollo novativo non è configurabile: l’accollo è un accordo tra nuovo deb. e il deb. originale e può essere solo privativo in quanto la novazione (regolata dal cc è quella oggettiva: ma il discorso non cambiala sostanza) è, invece, un modo di estinzione del rapporto obbligatorio quale accordo tra un creditore e un debitore. L’accollo è sempre promittendi causa, mai solvendi causa. NB accollo ex lege è quello relativo alla cessione d’azienda art. 2112 cc.

b) EFF. DIRETTI SFAVOREVOLI. A loro volta vengono distinti ulteriormente in: 1- con. sul patrimonio del terzo (artt. 1478 cc – vendita di cosa altrui: es. di scuola di obbligazione di risultato –, 2822 cc – ipoteca su beni altrui –); 2- con. a carico del terzo (art. 1381 cc – promessa del fatto del terzo: altro es. di obbligazione di risultato. Porta ad indennizzo quale debito di valuta e, in eventuale aggiunta, porterebbe al risarcimento del danno da resp. precontrattuale se viene commesso un illecito – ); 3- con. a danno del terzo.


°°°


26.5.2012 (5° appuntamento) (segue dal 19.5.2012)

CONTRATTI IN GENERALE

Circa i requisiti del contratto: perfezione, validità, efficacia. Diciamo che un atto valido non sempre è efficace così come un atto invalido non sempre è anche inefficace. Verifichiamo le ipotesi di

Atti validi ma inefficaci:

a) inefficacia temporanea in virtù di condizione sospensiva o termine iniziale;

b) difetto di legittimazione disponendo un soggetto di un diritto altrui come il falsus procurator. Il cc limita la responsabilità del f.p. ad una resp. precontrattuale per aver contrattato in difetto di potere rappresentativo: unica conseguenza di un atto valido ma inefficace avendo disposto di un diritto altrui. E' comunque soggetto alla sanatoria della ratifica divenendo efficace nei confronti del dominus. Al limite il f.p. può pagare i danni circa gli interessi negativi. Con altro atto poi, il 3° e il f.p. possono porre nel nulla la loro precedente pattuizione così vanificando la successiva ratifica. La ratifica NB riguarda solo il difetto di legittimazione non i difetti soggettivi (es. l’incapacità).

c) gli atti risultanti inopponibili: tutte ipotesi codificate relative al concorso o conflitto tra più aventi causa verso un dante causa ossia quando uno stesso diritto è fatto oggetto di più alienazione. In tal caso chi vincerà dipenderà dal diritto:

I-                    cessione del credito: contratto consensuale ad effetti reali prevale colui che ha comunicato per primo o ha ricevuto per primo l’accettazione (trasferisce il credito: la comunicazione e l’accettazione è un problema di opponibilità ai terzi non anche una condizione di validità – il contratto è già valido perché consensuale);
II-           diritti personali di godimento (es. locazione) ≠ dai diritti reali di godimento (es. l’usufrutto) quali ad effetti reali: es. tra più conduttori prevale chi per primo si è immesso nel godimento del bene legittimamente;
III-          diritti reali immobiliari (es. proprietà): prevale chi per primo ha trascritto ai fini dell’opponibilità al 3°;
IV-             in materia di possesso e trasferimento: prevale chi per primo ha conseguito il possesso del bene in buona fede ( nel senso soggettivo: ignorare di ledere un altrui diritto soggettivo).

d) effetti della azione revocatoria: è mezzo tipico di conservazione della garanzia patrimoniale assieme alla surrogatoria e al sequestro conservativo (NB quest’ultimo a ≠ dei primi due non è mezzo ordinario ma segue le regole processuali ex art.669-bis ss.).

NB il 700 si può fare SOLO se non c’è una misura cautelare tipica: ergo non si può fare un 700 se nella opposizione a D.I. si sia dimenticato di chiedere la sospensiva della esecutività del D.I. stesso.

Con l’accoglimento della domanda revocatoria si dichiara l’inefficacia della alienazione: è una declaratoria di inefficacia che permette l’esecuzione forzata per espropriazione contro il 3° proprietario.

Atti invalidi ma efficaciin generale gli atti soggetti ad annullabilità potendo venir meno tramite l’azione di annullamento, la sanatoria, la decadenza.

Relativamente alla autonomia contrattuale la parte ha diverse libertà, ed in particolare:

[I]   libertà di scelta del contraente: con il limite dell’obbligo di contrarre trovandosi in situazioni di monopolio di impresa;
[II]  libertà di contrarre: con il limite pattizio quale il contratto preliminare (e l’opzione v. dopo).

Disattesa dalla giurisprudenza è la costruzione operata da una autorevole dottrina che prende spunto dal diritto romano: l’emptio avveniva infatti con l’obbligo a stipulare l’atto tipico finale (ossia i 3 modi di trasmissione quali la traditio, la mancipatio e l’in iure cessio). Il preliminare di oggi cioè imporrebbe l’obbligo di stipulare: infatti l’art.2932 cc non è una deroga all’art.612 cpc (il quale vieta che l’obbligo di fare infungibile possa essere eseguito in forma specifica). Ma, si diceva, la giurisprudenza è di diverso avviso ritenendo che il preliminare obbliga a prestare il futuro consenso. E l’art.2932 cc è costitutivo-sostitutivo: il giudice pronuncia sentenza sostitutiva del contratto.

Opzione/prelazione/preliminare:

Opzione       è il contratto con cui l’opzionario si obbliga dietro corrispettivo a tener fermo una certa proposta contrattuale per un certo tempo facoltando la controparte ad aderivi: l’opzione possiede già tutti gli elementi perfezionativi del contratto necessitado solo l’adesione del beneficiario (è una proposta irrevocabile ottenuta pattiziamente).

Prelazione      se l’opzione ed il preliminare appartengono ad [II], la prelazione appartiene ad [I] cioè si riferisce alla scelta del contraente. Può essere:

a)      prel. convenzionale: ha solo effetti obbligatori potendo ottenersi solo risarcimento danni se disattesa;
b)  prel. legale: ha effetto reale per cui il prelazionario pretermesso sarà in grado di recuperare il bene anche nei confronti del 3° in buona fede.


  
LA CONSERVAZIONE DELL'ATTO

Nel diritto romano non si rinviene applicazione del principio di conservazione: in quel sistema si conoscevano solo due tipi determinati di contratti astratti e formali; di conseguenza la produzione di effetti giuridici di cui alla convenzione tra le parti scaturiva esclusivamente dal compimento di alcune formalità in difetto delle quali non vi era, utilizzando una terminologia attuale, una valida esplicazione della autonomia negoziale. Parte della dottrina ritiene che sia espressione del principio in esame la ratihabitio che nel sistema romano avrebbe permesso di conservare gli effetti giuridici dell’attività compiuta da falsus procurator. Altri romanisti sostengono che l’istituto sia stato elaborato in epoca intermedia o, al più, nel diritto giustinianeo o bizantino.

Nel diritto vigente il principio di conservazione opera su due piani distinti: interpretativo ed applicativo. Il primo è espressamente riconosciuto ex art.1367 cc. sulla portata effettuale del contratto o di sue singole clausole (stabilendo la prevalenza dell’interpretazione in virtù della quale la manifestazione negoziale produce “qualche effetto” anziché nessuno). NB per le leggi il criterio principale è quello ex art.12 preleggi (il tenore testuale), mentre per i negozi il criterio ermeneutico principale è indicato ex art.1362 cc (la volontà delle parti). Sul piano applicativo il principio di conservazione trova riconoscimento in diversi istituti riunibili in tre tipologie contrattuali:

a)      mantenimento dell’atto viziato: mediante conversione formale e sostanziale (art.1424 cc.); con la nullità parziale e l’inserzione automatica di clausola (art.1419 cc.); mediante la convalida (art.1444 cc.); la reductio ad aequitatem (art.1450 cc.) e la rettifica (art.1432 cc.);
b)      conservazione degli effetti dell’atto viziato: in altri istituti del cc. il canone di conservazione si esplica consentendo il permanere esclusivo degli effetti dell’atto. In alcune ipotesi il contratto determina l’effetto tipico della soluti retentio ossia della irripetibilità di quanto già stato dato (con riferimento alle obbligazioni naturali);
c)      permanenza del vincolo obbligatorio: il legislatore in considerazione di determinati interessi coinvolti, ritiene di dover tutelare determinate situazioni giuridiche oggettive delle parti o dei terzi attraverso la conservazione del vincolo obbligatorio (es. artt.2332 cc. in tema di società, 2126 cc. in tema di contratto di lavoro, 128 cc. sul matrimonio putativo).

In riferimento al punto b) le ipotesi classiche di obbligazioni naturali sono:

1-     volontaria disposizione di disposizioni testamentarie: l’art.590 cc. è finalizzato a garantire il rispetto della volontà del de cuius (c.d. favor testatoris) che, pur essendo inficiata dal vizio di nullità, non può essere dallo stesso modificata o rinnovata;
2-        adempimento del debito da giuoco;
3-     adempimento del debito prescritto: parte della dottrina ritiene abbia rilevanza processuale qualificandola come rinuncia all’eccezione di prescrizione posto che la prescrizione non è rilevabile d’ufficio (NB l’eccezione di prescrizione richiede che la costituzione in giudizio sia, dalla parte convenuta, rituale ossia almeno fino alla udienza di comparizione).

Ma a questo punto dobbiamo domandarci se siano configurabili altre ipotesi extratestuali altre ad 1- 2- e 3-, e se il principio della soluti retentio possa trovare applicazione anche al di fuori dell’obbligazioni naturali. Circa la prima domanda altra ipotesi è il diritto al compenso spettante al professionista non abilitato per le prestazioni professionali eseguite. Infatti il professionista non abilitato non ha diritto di azione per ottenere il pagamento della prestazione prestata: trattandosi di credito non azionabile si tratterà di un’obbligazione naturale. Circa la seconda domanda è da dire che prestazioni contra bonos mores (art.2035 cc. prestazioni contrarie ai buoni costumi) danno luogo alla irripetibilità della prestazione.


°°°


19.5.2012 (4° appuntamento) (segue dal 12.5.2012)

I CONTRATTI: LA VENDITA

La compravendita (artt.1470 ss c.c.) è un contratto oneroso a prestazioni corrispettive, normalmente è un contratto ad effetti reali. Vediamo come si forma un contratto di compravendita (NB non serve il notaio se non quando si compra-vende un bene immobile ed altri determinati beni – es. merci a campione ecc. – che richiedono specifiche forme di pubblicità per rendere opponibile quel contratto ai terzi).
Quindi trattando della “compravendita” immobiliare, notiamo che il c.c. tratta terminologicamente in prevalenza della “vendita”: ciò perché la posizione che viene esaminata nel codice è quella del venditore (mentre pochi risultano gli articoli relativi alla figura del compratore: es. 1479 ss, 1498 ss c.c.). Ma il nomen juris, nella realtà, può essere anche “cessione” (es. cessione di quote), oppure “costituzione” (es. costituzione di usufrutto).
L’oggetto del contratto di compravendita non è semplicemente il bene: l’oggetto immediato è il diritto, mentre il bene è l’oggetto mediato. Nella compravendita immobiliare, quindi, oggetto del contratto è il trasferimento della piena proprietà dell’immobile. Ma “oggetto” possono essere altri elementi: es. la vendita di eredità. Circa i beni immobili, le norme relative all’oggetto sono quelle della vendita a corpo e a misura. E l’oggetto deve essere lecito, possibile, determinato o determinabile. La possibilità dell’oggetto es. può venire meno in alcune ipotesi come nella vendita di cosa futura. La vendita si realizza, infatti, col consenso, e non con la consegna (che avveniva al tempo dei romani); ma vi possono essere delle ipotesi nelle quali non è possibile la manifestazione del consenso, perché relativo ad un oggetto o che non esiste, o non è in quel momento nella disponibilità del venditore (appunto ipotesi di cosa futura). E si diventerà proprietari dell’immobile futuro, non con il consenso, ma quando il bene verrà in esistenza: avremo la vendita c.d. obbligatoria. E l’oggetto deve essere lecito (es. non sarà lecito un oggetto del contratto che concerni l’usufrutto legale). Circa la determinazione e determinabilità dell’oggetto, invece, il c.c. non si preoccupa di soffermarsi troppo.
Ma altro elemento fondamentale della compravendita è anche il prezzo: non si avrà vendita se manca il prezzo (se vi sarà uno scambio con cosa allora saremo nell’ipotesi della permuta: es. se si hanno buoni del tesoro e con questi si vuole per es. pagare l’appartamento, non avremmo una compravendita ma appunto una permuta). Il prezzo è un corrispettivo, non il corrispettivo: è importante che sia determinato, non che sia stato pagato. Circa la sua quantificazione: ex art.1473 c.c. da parte del terzo; mentre ex art.1474 c.c. in campo immobiliare non può trovare applicazione: non può esistere una integrazione automatica nella quantificazione del prezzo di un immobile. E circa la determinazione della prestazione da parte del terzo, ex art.1349 c.c. (risultando a norma di tale articolo una determinazione per equità ed una riferita al mero arbitrio), per la vendita immobiliare (come per qualsiasi altra vendita) si dovrà parlare di determinazione secondo equità (la quale è compresa nell’ordinamento giuridico, mentre con il mero arbitrio non si avrebbe compravendita in quanto non si viene a perfezionare il sinallagma contrattuale -la manifestazione di volontà- tra le parti, necessitando il comportamento del terzo).
Il pagamento del prezzo può anche avvenire con l’accollo totale o parziale di un debito della parte venditrice (vedi sentenza Cass. 25 agosto1998, n.8442). Occorre conciliare la normale efficacia tra le parti (regolamento contrattuale art.1376 c.c. cardine del sistema) e l’incidenza di tale regolamento sul patrimonio esterno (del creditore). Ex art.1411 c.c. si ammette l’incidenza del contratto sulla sfera del terzo, quando il contratto produce effetti favorevoli (inteso non in senso vantaggioso sul piano economico, ma in senso giuridico, ossia di una posizione soggettiva attiva -es. l’acquisto di un appartamento che magari, però, abbisogna di molta manutenzione e di una ristrutturazione tale che al limite potrebbe comportare un bilancio economico di svantaggio per il terzo-) per il terzo. Ma a tal punto se il terzo (il creditore) ha vantaggio nel vedersi attribuire il compratore dell’immobile come nuovo debitore, ha del pari una situazione di svantaggio nel vedere il vecchio debitore cedere la propria posizione debitoria, la quale deve, comunque, trovare il consenso da parte dello stesso creditore: consenso che perfezionerebbe, a questo punto, l’intera fattispecie contrattuale della compravendita immobiliare (due negozi giuridici collegati: accollo autonomo ma che al momento della sua perfezione realizza la causa negoziale del contratto di compravendita). Ma altro indirizzo dottrinale (per tutte, Cass. n.861/1992) costruisce l’accollo in termini di negozio bilaterale: l’accollo non è più un negozio autonomo, ma è una pattuizione, una modalità che può inerire ad altra pattuizione invece contrattuale. Ossia la compravendita con accollo di un mutuo di un terzo, laddove abbia una efficacia esterna, si pone come un negozio bilaterale che produce anche effetti favorevoli ad un soggetto terzo (il creditore): effetto favorevole come la possibilità di agire nei confronti del nuovo debitore accollante. Il creditore con la dichiarazione di adesione all’accollo, rende irrevocabile la stipulazione in suo favore. Se l’accollo è stato voluto dal venditore e dal compratore in modo liberatorio per il debitore originario, l’adesione del terzo (adesione come elemento non perfezionativo della compravendita, giocando un ruolo meramente esterno, attuativo, rendendo irrevocabile la stipulazione v. art.1411 c.c.) vale a tal punto a liberare il debitore originario (liberazione che comporta, si è detto, una situazione di svantaggio per il creditore). Circa le eccezioni (art.1263 c.c.) saranno opponibili tutte le eccezioni inerenti al contratto di compravendita (il compratore potrà dire al terzo che non vuole pagare perché la cosa non corrisponde al programma contrattuale -vedi Cass. 2 dicembre 1993 n.11956-).

Circa le garanzie nella compravendita nel codice del ’42 (a diff. di quanto emergeva dal codice precedente) si tratta di obbligazioni del venditore: la garanzia per evizione viene presentata in termini di obbligazione, come un effetto legale del contratto (ossia si passa dalla garanzia come afferente un momento genetico del contratto, alla garanzia afferente un momento attuativo del contratto: non siamo nell’ambito della invalidità del contratto -per cui la responsabilità delle parti si delinea in riferimento alla conoscenza della causa di invalidità e una individuazione di una diligenza nella parte nella conoscenza o conoscibilità di tale causa- ma in quello dell’inadempimento -dove avremo la piena responsabilità che comporta la restituzione del prezzo pagato, il rimborso per le spese effettuate per il contratto, il pagamento degli interessi legali e l’eventuale risarcimento del maggior danno che il compratore abbia sostenuto-). La garanzia del venditore per evizione e vizi null’altro sono se non una manifestazione di quello che è il normale sinallagma contrattuale: ossia applicazione della regola della responsabilità del venditore per inadempimento. Quindi la garanzia laddove comporti la riduzione del prezzo non è che una azione di inesatto adempimento; laddove, invece, si chieda la risoluzione non si avrà altro che un’azione risolutoria riconducibile al paradigma dell’art.1456 c.c. (vedi Cass. n.4260/1996). Questa impostazione è l’unica che ci permette di distinguere nettamente la responsabilità per vendita di cosa altrui, dalla promessa per fatto del terzo: l’elemento nodale della distinzione sta nel fatto che nella vendita per fatto del terzo si promette, si deduce in obbligazione il comportamento che dovrà essere tenutola un altro soggetto, mentre nella vendita di cosa altrui si promette un proprio comportamento, una propria prestazione, che non è quella di garantire che altri faccia qualcosa, ma è la prestazione di far acquistare il diritto e con la importante conseguenza che il momento in cui il venditore acquista in capo a se stesso il diritto, tale diritto automaticamente si ritrasferisce in capo al soggetto compratore. Nello schema della vendita di cosa altrui quindi si ha un differimento dell’effetto traslativo, ma quello che più è significativo sul piano effettuale è la circostanza che l’effetto traslativo si produce automaticamente senza aver bisogno di un ulteriore negozio di trasferimento.

Circa la possibilità di derogare alla garanzia quale delineata dalla legge (aggravando da un lato la garanzia del venditore, ovvero dall’altro andando ad esonerare il venditore in tutto o in parte dalla garanzia), ipotesi possono essere: “il venditore presta le garanzie di legge rendendo edotta la parte acquirente che l’immobile è gravato da ……”. E notiamo che la deroga al regime legale può essere su più livelli: es. se viene ridotta, limitata o esclusa la responsabilità per danni; ancora che venga escluso il pagamento degli interessi legali sui rimborsi e sulla restituzione del prezzo; ancora che venga escluso il rimborso delle spese fatte per il contratto; infine che venga limitata la responsabilità del venditore alla restituzione del prezzo. Ma cosa succederebbe se le parti volessero pattuire l’esclusione della restituzione del prezzo in caso es. di evizione? Escludere una responsabilità restitutoria del prezzo sarebbe sì possibile ex art.1322 c.c., ma non rientreremmo più nell’ambito di una vendita commutativa o corrispettiva, ma saremmo di fronte ad un diverso tipo contrattuale: una vendita di natura aleatoria (contratto con causa diversa da quella della vendita ex art.1470 ss.c.c.). Da notare l’incidenza su tale disciplina degli articoli 1469-bis e ss (es. l’art.1469-quienquies n.1 c.c. sull’inefficacia della clausola di esonero da responsabilità per il professionista) e 1341 c.c. (vedi sentenza Cass. 23 marzo 1993 n.1212).

Cassazione civile, sez. II, 10 marzo 1997, n.2126:
Nella vendita di cosa futura – (art. 1472 c.c.) – l’effetto traslativo si verifica nel momento in cui il bene (nella specie appartamento da costruire) è venuto ad esistenza nella sua completezza, restando irrilevante soltanto la mancanza di rifiniture o di qualche accessorio non indispensabile alla sua utilizzazione; pertanto la trascrizione – legittima, ai sensi dell’art. 2643 c.c. – di una vendita di cosa futura è idonea a rendere opponibile il relativo diritto, allorché verrà ad esistenza, agli acquirenti dello stesso bene che non hanno trascritto o hanno trascritto posteriormente il loro titolo, ma è irrilevante ai fini (art. 111 c.p.c.) dell’opponibilità all’acquirente di bene futuro della domanda trascritta nei confronti del suo dante causa prima della venuta ad esistenza di tale bene. (1)
(1) La controversia alla base della pronunzia della Suprema Corte qui annotata si presenta piuttosto complessa: in estrema sintesi, A aliena due appartamenti da costruire rispettivamente a B e a C, i quali trascrivono tempestivamente il relativo atto di compravendita. Successivamente, D conviene in giudizio A trascrivendo ex art. 2652 c.c. una domanda giudiziale volta all’ottenimento di una sentenza di demolizione degli appartamenti oggetto della vendita (di cosa futura) originaria. Gli appartamenti in questione, terminata la costruzione, sono alienati da B e C a terzi i quali, a loro volta, si oppongono ex art. 404 c.p.c. alla sentenza di demolizione emessa contro A, in quanto pregiudizievole dei loro diritti di terzi rispetto alla controversia.
Tale vicenda offre alla Corte di Cassazione l’opportunità di occuparsi - per la prima volta in maniera diffusa - di una questione giuridica alquanto complessa e controversa, ossia della immediata trascrivibilità di una vendita di cosa futura, ai fini dell’opponibilità della stessa ai terzi e, quindi, di un’adeguata tutela dell’acquirente.
A tal riguardo, la Suprema Corte conferma, in primo luogo, la sua adesione alla configurazione giuridica della vendita di cosa futura come vendita obbligatoria: l’alienante, dunque, è tenuto a far sì che si realizzi l’acquisto del bene in capo all’acquirente, secondo la comune regola che impegna il venditore a far acquistare al compratore il diritto quando l’acquisto non sia un effetto immediato del contratto (art. 1476, n. 2 c.c.). La Cassazione, dunque, respinta sia la teoria che ravvisa nella vendita di cosa futura un contratto a consenso anticipato e a formazione progressiva, produttivo di soli effetti preliminari fino alla venuta a esistenza del bene, sia quella che la considera una vendita sottoposta a condizione sospensiva o a condicio iuris, si allinea definitivamente alla dottrina oggi più accreditata.
In secondo luogo, inquadrata la vendita di cosa futura tra le vendite di tipo obbligatorio, la Corte Suprema ne riconosce, in maniera coerente e consequenziale - oltre che conforme a un ormai consolidato filone giurisprudenziale - l’immediata trascrivibilità, ancorché il bene non sia ancora venuto a esistenza.
Un’interpretazione estensiva dell’art. 2643, n. 1 c.c., infatti, permette agevolmente di affermare che sono soggetti a trascrizione non solo i contratti immediatamente traslativi, ma anche quelli potenzialmente idonei a trasmettere la proprietà, quali, in particolare, le vendite obbligatorie.
E’ da ritenere, in proposito, che l’elencazione contenuta nella norma in esame abbia carattere tassativo esclusivamente per quel che concerne il tipo di mutamento giuridico, ossia per l’effetto prodotto, qualunque sia la natura giuridica dell’atto che vi abbia dato origine. A conferma di tale assunto, d’altronde, l’art. 2645 c.c. assoggetta espressamente a trascrizione ogni altro atto o provvedimento che produca taluno degli effetti dei contratti menzionati nell’art. 2643 c.c..
Che la legge non alluda ai soli contratti con effetto traslativo immediato, infine, si desume, indirettamente ma inequivocabilmente, dalla disposizione di cui all’art. 2659 c.c.: l’espressa menzione dei contratti sottoposti a termine o a condizione, infatti, consente, con l’ausilio della semplice interpretazione estensiva, di ritenere soggetti a trascrizione tutti i contratti di vendita obbligatoria e, per ciò solo, la vendita di cosa futura.
Ammessa l’immediata trascrivibilità del contratto in esame, peraltro, la Corte Suprema si trova d’innanzi a un quesito di fondamentale importanza dovendo, invero, stabilire quale efficacia sia da ricollegare alla trascrizione in parola, ossia se essa retroagisca al momento dell’annotazione sul pubblico registro oppure se sia efficace soltanto a partire dal momento della venuta a esistenza del bene: al proposito essa, confermando le statuizioni della Corte di merito, afferma che “l’ordinamento non attribuisce alcuna efficacia di prenotazione alla trascrizione del contratto produttivo di effetti meramente obbligatori”. La trascrizione, dunque, se pure legittimamente operata al momento della stipulazione del contratto, inizia a dispiegare i suoi effetti conservativi e protettivi soltanto a far data dalla venuta a esistenza del bene, ossia “in concomitanza del verificarsi dell’effetto traslativo”. Coerentemente con queste premesse, la Cassazione ritiene che attribuire efficacia alla trascrizione fin dal momento della stipulazione del contratto, significherebbe far retroagire a questo stesso momento, il trasferimento della proprietà, nonostante l’inesistenza del bene compravenduto. Ed emerge ictu oculi come tale conseguenza costituisca un risultato giuridicamente inammissibile in quanto in netto contrasto con il chiaro disposto normativo di cui all’art. 1472 c.c., il quale - senza lasciare spazio alcuno a libertà interpretative - àncora l’effetto traslativo alla venuta a esistenza della cosa.

L’analisi della disciplina della compravendita suesposta acquisisce comunque rilievo per tutte le fattispecie negoziali (permuta, transazione ecc.) con le quali si attua il trasferimento di un diritto reale mobiliare o immobiliare.

Ma ora soffermiamoci su alcuni istituti particolarmente interessanti anche per i riflessi giurisprudenziali avuti: 
il patto di riscatto.
È disciplinato come sottosezione delle norme dedicate alla compravendita; l’effetto tipico del patto di riscatto è quello di costituire in capo al soggetto alienante il diritto potestativo di riscattare con una propria dichiarazione unilaterale di volontà (con efficacia reale immediata) il diritto trasferito all’acquirente. Per il principio che governa il cod. civ. circa la libera circolazione dei beni, il patto di riscatto è circondato da alcuni limiti (es. non può essere previsto per un periodo superiore a 5 anni). Il p. di r. si caratterizzerebbe (per la dottrina es. Satta, Rubino ecc.) come un modalità accessoria del contratto di compravendita senza andare ad incidere sulla causa del contratto che resterebbe quella tipica del contratto di compravendita. Tale impostazione è stata condivisa dalla giurisprudenza fino agli anni ’70 (Cass. 4921) poi successivamente si sostenuto che il p. di r. fosse un negozio con una propria rilevanza causale: ossia la vendita con p. di r. sarebbe un negozio tipico di compravendita al quale si collega un ulteriore patto, con propria rilevanza causale, quale il riscatto. Patto che va distinto da figure affini che però non producono lo stesso effetto: patto di retrovendita (preliminare unilaterale che obbliga una sola parte); il patto di opzione (accordo sulla irrevocabilità della proposta di retrovendita); il patto di prelazione (che semplicemente conferisce al prelazionante il diritto di essere preferito a parità di condizioni). Caratteristica del p. di r. è quella, invece, di attribuire all’alienante un penetrante potere di disporre del patrimonio altrui.
Difficile pare la ricostruzione giuridica di tale fattispecie: sulla struttura del p. di r. vi sono orientamenti diversi. Si è sostenuto es. che il p. di r. potesse essere ricondotto (tesi tradizionale) ad una condizione risolutiva potestativa semplice: cioè con esso si avrebbe una vendita sotto condizione risolutiva. L’evento condizionante sarebbe la dichiarazione di volontà dello stesso alienante. E per evitare di incorre, poi, nella nullità prevista in materia di contratti circa la condizione “meramente” potestativa, si sottolinea che la controprestazione dovuta dal riscattante (cioè il pagamento del prezzo) fa si che l’interesse del soggetto riscattato sia certamente sottesa alla realizzazione dell’evento condizionante, ma no totalmente, ossia tale condizione risolutiva è potestativa, ma non “meramente” potestativa: si parla al riguardo di condizione potestativa “semplice”, perché appunto l’avverarsi dipende dall’interesse, ma di tale interesse il soggetto portatore non è arbitro assoluto, nel senso che al momento in cui realizza il proprio interesse al riscatto del bene, contemporaneamente però viene tutelato anche l’interesse della controparte a ricevere il corrispettivo, la somma per il riscatto. In Cass. si propende per l’idea di condizione potestativa semplice (fra tutte la n.1895 del 1975). Le altre tesi che si fondano su di una autonomia causale del p. di r., ci propongono delle ricostruzioni diverse (es. il Rubino riscontra un potere di revoca retroattivo nel patto di riscatto; il Perosi poi ci suggerisce l’idea si una proprietà risolubile: ipotesi di proprietà temporanea come es. il legato a termine o la multiproprietà).
In giurisprudenza si è sottolineato l’interesse sul patto di riscatto perché si è rilevata la possibile utilizzazione del p. di r. per finalità contrarie alle disposizioni di legge: per aggirare il divieto del patto commissorio ex art. 2744 c.c.. L’attenzione della giurisprudenza fino al 1979 era assorbita dalla considerazione della tipicità del patto di riscatto: ossia la vendita col patto di riscatto è un negozio disciplinato dal legislatore e non può non essere valido. Il fatto che venga utilizzato per finalità contrarie ai principi dell’ordinamento non rileva perché concerne un negozio avente una causa tipica riconosciuta dal legislatore. La fattispecie concreta risulta quella in cui, dovendo procurarmi un finanziamento, piuttosto che concedere ipoteca sul bene (con il limite inderogabile dell’art. 2744 c.c.) io decida di trasferire il bene al soggetto finanziatore riservandomi il patto di riscatto. Tale problematica si è poi estesa anche alle ipotesi di sale and lease back: in giurisprudenza si è ritenuto che il contratto con il quale l’utilizzatore, già proprietario del bene trasferisce il bene al finanziatore per poi farselo concedere in leasing con patto di riscatto al termine del rapporto, possa celare una ipotesi di vendita con patto commissorio. E se quindi la giurisprudenza in un primo momento ha negato la sovrapposizione delle due situazioni, ha poi modificato traiettoria con la sentenza n. 3800 del 1983. Dopo tale decisione ci sono state pronunce alterne fino alla sentenza delle SS.UU. n.1611 del 1989, hanno riaffermato la tesi dell’applicabilità dell’art. 2744: l’interprete dovrà analizzare l’intera fattispecie al fine di verificare se il patto di riscatto sia finalizzato ad eludere il divieto del patto commissorio. Indici di riferimento onde riscontrare tale fine contrario all’ordinamento sono: la situazione economica in cui versava il soggetto al momento della conclusione del contratto; il prezzo della vendita; l’entità delle reciproche prestazioni; la durata del rapporto.


°°°


12.5.2012 (3° appuntamento) (segue dal 5.5.2012)

CONTRATTI IN FRODE ALLA LEGGE: NOZIONE E CRITERI INDIVIDUATIVI

Nella considerazione della frode alla legge partiamo dall’individuazione di due momenti:

a)      non ci si conforma alla volontà della legge;
b)      si aggira la finalità della legge (ossia si rispetta la lettera ma si viola l’essenza della legge).

La frode alla legge ha una connotazione oggettiva (cioè un negozio che raggiunge un risultato contrario ad una norma imperativa) o deve avere anche connotazioni soggettive (cioè l’intenzione, il dolo di aggirare una norma di legge)? E qual'è la connotazione patologica del negozio mezzo utilizzato? Ancora qual'è l’utilità di tale figura rispetto al negozio illecito per illiceità del motivo comune se il negozio in frode alla legge è un negozio lecito che le parti utilizzano per ottenere uno scopo? Problemi questi che si sono trascinati in dottrina fino a quando autori come De Nova hanno ritenuto tale figura ormai superata. Infatti assieme al concetto di tipo cioè di causa in astratto, si aggiunge un concetto dei causa in concreto, che sarebbe la causa del tipo negoziale (es. nella vendita scambio di cosa con prezzo) arricchita del motivo comune che nel caso concreto le parti hanno impresso (es. la vendita a scopo di garanzia) e che si è obiettivato nella causa che quindi diventa, nella fattispecie, causa concreta. In tali casi, alcuni autori hanno detto che dove c’è un motivo illecito perché vuole aggirare un divieto posto da una norma imperativa, perché parlare di frode alla legge? Perché, se il motivo si obiettivizza nella causa tipica, diventa causa concreta e allora avremmo un negozio illecito per illiceità della causa in concreto.

Ancora più recentemente la dottrina dominante tende a ritenere la frode alla legge come la clausola generale di tipizzazione del tipo a combinato contesto (es. clausole di tale tipo sono soventi nel diritto penale come l’art.56 c.p. oppure l’art.110 c.p. o anche l’art.40 capoverso c.p.): ossia quelle clausole che agendo in combinato contesto (accoppiandosi) con una norma o con una serie di norme, producono fattispecie similari alla norma con cui si accoppiano. La congiunzione, con combinato contesto, con le norme di divieto, norme imperative che vietano certi comportamenti negoziali, configurerebbe una serie di figure parallele: il divieto cioè si estenderebbe, in virtù di tale combinazione anche a negozi diversi da quello vietato, ma che raggiungono lo stesso risultato pur avendo una causa tipica lecita e tipizzata.

Ed è anche interessante capire come la giurisprudenza giunge alla individuazione ed alla verifica della frode alla legge. Anzitutto è da dire che tale ricerca giurisprudenziale non conduce alla individuazione di fattispecie che per definizione sono in frode alla legge: cioè non esistono categorie di contratto che di per sé sono sempre in frode alla legge. Ma esistono categorie per così dire sospette, indiziate, in relazione alle quali il giudice adotta determinati criteri per verificare, volta per volta, esista o meno la frode alla legge. Laboratorio di studio che ha portato all’elaborazione di tali criteri, è stato il divieto del patto commissorio ex art.2744 c.c. e la sua estensione a figure similari come ad es. la vendita a scopo di garanzia con patto di retrovendita (o patto di riscatto). Lo studio consta di 3 tappe:

1-      l’analisi della norma di divieto in relazione alla quale si vuole ipotizzare la costruzione della frode;
2-      l’analisi del negozio concreto che si sospetta in frode alla legge;
3-      la fissazione che il giudice fa a se stesso di criteri per la verifica in concreto della frode.

Circa la prima operazione la norma deve essere una norma imperativa: ossia di norma in relazione della quale c’è una comminatoria di nullità, e solo quella, essendoci norme imperative senza una previsione esplicita di nullità (ossia quelle poste a tutela di un interesse generale prevedendo un divieto generalizzato per tutti e non solo per determinate categorie di soggetti): a fronte di tali norma la Cass. dice che la norma è imperativa ma non basta. Non deve trattarsi di una norma imperativa puramente formale, ma di risultato, di norma imperativa che commina a pena di nullità un divieto per impedire un certo risultato che la legge respinge.
La seconda operazione è quella fatta sul negozio concreto: trattasi, come si diceva prima di negozio tipico a causa lecita, ma che ha dentro di se delle clausole le quali potrebbero flettere la causa tipica allo scopo di raggiungere quel risultato che la norma imperativa ha vietato in relazione però ad una previsione legale espressa.
La terza operazione è l’elaborazione di criteri. Circa l’esempio del patto commissorio si consideri che si tratta di patto con cui il creditore garantito da pegno o ipoteca conviene con il debitore che, qualora egli non adempirà esattamente al momento della scadenza del suo debito, diventerà proprietario delle cose date in pegno o ipoteca. La vendita a scopo di garanzia con patto di riscatto è invece quella figura con cui le parti trasferiscono all’inizio un certo bene a scopo di garanzia, con il patto però che se il creditore garantito attraverso l’acquisto del bene alienatogli sarà poi soddisfatto del suo credito, rivenderà il bene che ha acquistato preventivamente in garanzia al debitore che glielo ha ceduto. Per tanti anni si ritenne di non riscontrare frode alla legge il negozio con patto di riscatto perché la legge che sarebbe frodata (l’art.2744 c.c.) prevede un passaggio di proprietà successivo o contestuale all’inadempimento, mentre in tal caso c’è una vendita ed eventualmente una retrovendita legata all’adempimento del debito parallelo. Le SS.UU. dell’89 hanno però modificato tale impostazione: la ratio della norma di divieto è quella di impedire una coazione, un approfittamento del creditore sul debitore. E se tale approfittamento si dovesse in concreto verificare attraverso non un patto commissorio, ma con una vendita a scopo di garanzia con patto di retrovendita avremo allora la frode alla legge. Con ciò non vuol dirsi che la vendita a scopo di garanzia con patto di retrovendita si sempre in frode alla legge, dovendo impostare appunto dei criteri. Questi possono essere una posizione debitoria preesistente tra le parti stesse o ancora la sproporzione tra il debito in relazione al quale la vendita funziona da garanzia (sia pur preventiva) e il valore del bene alienato.

Ma se la vendita a scopo di garanzia sia fatta da un terzo e non dal debitore? Anche in tal caso, dopo un giudizio negativo, secondo la regola del caso per caso, anche la vendita operata dal terzo contravviene all’art.2744 se arricchisce il creditore a fronte di un inadempimento, rendendolo proprietario di un bene di valore superiore al credito vantato.
Ma oltre alla presenza, caso per caso, di indici positivi, occorre fare attenzione che non ricorrano indici negativi ossia fattori che escludano la frode per definizione: es. se la garanzia è costituita da un bene fungibile, ricadendo nel pegno irregolare, il passaggio in proprietà è un effetto tipico del pegno irregolare.

Si erra poi quando in riferimento a negozi in frode alla legge si adotta la terminologia di negozio simulato, adottato per un intento fraudolento. Non si tratta di simulazione perché il negozio in frode alla legge è un negozio voluto e lecito e solo con la scoperta dei motivi per cui è stato voluto, motivi elusori di una norma di legge, si arriva alla frode: il negozio simulato è un negozio non voluto in luogo del quale nulla è stato voluto (simulazione assoluta) o è stato voluto qualcosa di diverso (simulazione relativa).

Labili sono poi le differenze con il negozio illecito per illiceità del motivo comune (art.1345 c.c.) o del negozio illecito nella causa concreta (art.1343 c.c.). Ma all’atto pratico per accertare illiceità del motivo comune o della causa concreta o del negozio mezzo in termini di frode alla legge ex art.1344 c.c., occorre sempre effettuare le tre operazione precedentemente viste.

Ma qual è la patologia del negozio, “mezzo” per frodare la legge? Si sostiene che ex art.1344 c.c. sia la nullità: ma non è detto che questa sia l’unico rimedio, poiché se vi sia un rimedio specifico prevarrà tale rimedio (es. il retratto agrario nel caso di prelazioni agrarie quale esempio di negozi in frode alla legge). Comunque sia l’art.1344 si combina con la norma di divieto che attraverso questa indagine risulta in concreto aggirata, facendo scattare il meccanismo dell’illiceità.

Allo stato attuale non si prevede che la frode ai terzi sia individuabile come clausola generale: la giurisprudenza, escluso quindi questa clausola generale invalidante della frode ai terzi precisa che di volta in volta il terzo in frode al quale il negozio sia stato concluso dovrà vedere se esista tra i rimedi generali un rimedio esperibile. Es. esperendo l’azione di nullità, quando il negozio contenga una causa, un elemento di nullità, perché la nullità può essere fatta valere da chiunque sempreché vi abbia interesse. Se mancassero però cause di nullità, ma ci fossero i presupposti della simulazione, perché il negozio fosse in ipotesi simulato per raggiungere questo intento fraudolento, scatterebbe l’azione di simulazione (NB che in tal caso il terzo potrà esperire anche provando la simulazione con testi). Ma se il negozio non è nemmeno simulato tale rimedio non sarà esperibile: allora si può pensare ad un’azione di risarcimento del danno. Se poi il terzo, in frode del quale il negozio fosse concluso, avesse in particolare nei confronti di uno dei contraenti una posizione di creditore, ci troveremmo di fronte alla frode ai creditori che trova rimedio specifico nell’azione revocatoria. Questo il pensiero della giurisprudenza nell’affermare che a differenza della frode alla legge (che ha clausola generale ex art.1344) non esiste clausola generale per la frode ai terzi, ma esistono tanti rimedi tra i quali il privato potrà scegliere.


°°°


5.5.2012 (2° appuntamento) (segue dal 1.5.2012)

TUTTI GLI ASPETTI DELL’OGGETTO DEL CONTRATTO

Cosa si intende per oggetto del contratto? Per Bianca è il contenuto sostanziale del contratto (considerato che contenuto formale risulta essere il testo che, sempre secondo Bianca, si aggiunge al contenuto sostanziale). Ma oggetto e contenuto sono cose differenti. (vedi dopo)

Possono le situazioni giuridiche soggettive (onere, potestà, facoltà, aspettativa - soggezione, potere- obbligo) formare oggetto di un contratto? La risposta è no, per cui le situazioni giu. soggettive non possono essere l’oggetto del contratto.

  
                                                           1: oggetto come bene;

In dottrina si ha una ripartizione:    2: oggetto come prestazione;

                                                           3: oggetto come interesse.

L’oggetto potrebbe essere il bene (come soddisfazione di un interesse) oggetto della prestazione sul quale si forma l’accordo: ma critica a tale interpretazione sta nel fatto che alcuni contratti hanno come oggetto non beni ma diritti che non corrispondono a beni (es. nel contratto di transazione consiste nelle reciproche concessioni che le parti si fanno per comporre una disputa tra di loro: tali concessioni sono rinunce, ma sono anche dei beni? No – NB la rinuncia ha effetto abdicativo mentre il rifiuto ha effetto impeditivo –). Quindi la definizione di bene come oggetto del contratto non si può dire errata, ma è imprecisa poiché non ricomprende tutte le ipotesi.

Diverso avviso è dire che l’oggetto del contratto è la prestazione: questa consiste in un fare, non fare (o sopportare) e un dare. Nei contratti a prestazioni corrispettive, a differenza di quelli unilaterali dove si ha una unica prestazione, avremo appunto due prestazioni: ossia due oggetti. Es. nella compravendita avremo: 1) il bene comprato e venduto; 2) il prezzo corrisposto.

Secondo la struttura del contratto (ossia lo scheletro, l’impalcatura del contratto) la prestazione (l’oggetto) come si colloca ? Ex art.1325 cc. gli elementi del contratto sono a) l’accordo b) causa c) oggetto d) forma (quando è richiesta). I soggetti sono termini esterni al contratto: esterni in quanto devono sussistere al momento dell’efficacia di questo. Si noti come ci sia simmetria tra i soggetti e l’oggetto (es. circa la determinabilità di entrambi: per i soggetti vedi il nascituro)

La teoria dell’oggetto del contratto come prestazione è di supporto alla previsione che l’oggetto del contratto sia elemento esterno dello stesso in quanto può preesistere alla creazione del contratto (es. l’immobile può preesistere all’accordo tra il proprietario e l’acquirente). Ma quale è a tal punto lo strumento tecnico attraverso il quale il termine esterno, preesistente o successivo, rispetto al momento di creazione del contratto entra a far parte del contratto ? Tramite la rappresentazione descrittiva dell’oggetto, cioè ad es. nel contratto di compravendita di un determinato immobile le parti diranno che si impegnano a "trasferire ed acquistare l’immobile in via …….". Ciò vale sia per il bene preesistente ma tanto più per il bene non ancora esistente: si dovrà descrivere il suddetto bene specificandone ad es. i materiali impiegati e così via.

A tal punto in quale parte della struttura del contratto si colloca la descrittiva dell’oggetto (vedendo poi che valore ha) ?

- Contenuto del contratto: è l’insieme delle determinazioni poste in essere tra le parti per regolare i propri interessi, dare un certo assetto ai loro interessi (ciò che le parti hanno messo nel contratto);

- Regolamento del contratto: l’insieme delle determinazioni delle parti quale fonti di autonomia privata (c.d. autoregolamento: il regolamento negoziale -il contenuto-) più le fonti integrative del contratto (c.d. eteroregolamento: il regolamento contrattuale), ossia tutte quelle norme che l’ordinamento autoritativamente inserisce nel contratto, addirittura apportando una modificazione automatica tra le determinazioni poste dalle parti in violazioni di regole autoritative ed imperative e le disposizioni dell’ordinamento.

Nell’ambito del regolamento, meglio del regolamento negoziale (cioè l’autoregolamento, ossia il contenuto), poniamo la descrittiva dell’oggetto che quindi fa parte del contenuto dell’oggetto.

Con ciò si tende verso la dicotomia oggetto-contenuto (vedi prima) perché l’oggetto è, tramite la rappresentazione descrittiva del medesimo, qualcosa che le parti vogliono: difficilmente eterointegra la descrizione dell’oggetto.

Differenza fondamentale è quindi tra contenuto ed oggetto: perciò alcuni Autori ritengono che la tesi di Bianca sia errata, poiché se si dice che oggetto del contratto è il contenuto sostanziale del contratto si confondono due elementi che in realtà sono diversi.

E tale differenza ci spiega anche un ulteriore punto: ossia come l’oggetto, quale termine esterno, entri a far parte del contratto. Il contenuto, insomma, contiene la descrittiva dell’oggetto che è esterno al contenuto stesso e che quindi entra tramite tale descrittiva.

Ma la prestazione, a sua volta, è l’oggetto dell’obbligazione che sorge in ragione del titolo dato dal contratto: il contratto, in definitiva, è il titolo per far sorgere rapporti obbligatori (es. di dare o di pagare). Quindi abbiamo l’obbligazione, l’oggetto della obbligazione che risulta essere la prestazione e in fondo abbiamo l’oggetto della prestazione che è il bene finale.

Ma la descrizione dell’oggetto inserita nel contenuto del contratto, che valore ha in ordine all’assetto di interessi tra le parti, specie in ordine all’efficacia intesa soprattutto come esecuzione del contratto ? Tale valore è un valore dispositivo: cioè è vincolante per le parti, ossia è una regola del contratto. Se la prestazione non risulta conforme alla suddetta regola saremo di fronte ad un inadempimento.

Ma tutte le determinazioni del contratto hanno valore dispositivo ? La risposta è no. Nel contratto ci sono le regole espresse tramite enunciative, le quali sono di due tipi:

- enunciative dispositive in senso proprio: le regole;
- enunciative di mero valore enunciativo: descrittivo, programmatico ecc.

In caso di inadempimento la descrittiva dell’oggetto è il parametro per valutare le prestazione volute e quelle realmente eseguite. In pratica, ci serve per risolvere problemi pratici circa l’individuazione della disciplina es. nella consegna della cosa viziata (art.1492 cc: vizi della cosa); consegna della cosa priva delle qualità iniziali (art.1497 cc: mancanza di qualità); consegna di aliud pro alio (di estrazione giurisprudenziale: consegna di cosa diversa).


°°°


1.5.2012 (1° appuntamento)

REGOLE PER L’INDIVIDUAZIONE DEL CONTRATTO

Chiediamoci se la denominazione che le parti danno ad un atto che pongono in essere abbia o no valore vincolante per l’interprete. Anzitutto occorre verificare se tale atto abbia i requisiti di un contratto: ciò è desumibile ex art.1325. Quindi occorrerà riscontrare a quale tipo di contratto corrisponda. Ma è contratto solo quello inserito nel cc. ? No. La distinzione da fare è tra: a) contratti nominati (previsti nel cc.); b) contratti tipici (non inseriti nel cc. ma tipizzati: es. con l.130/99 è stata prevista la c.d. legge sulla cartolarizzazione dei crediti. Riguardano i crediti di difficile esigibilità: tale massa di dubbi crediti vengono trasferiti sul mercato come titoli azionari. Pur essendo un contratto di cessione del credito, il tipo contrattuale tipizzato nel ’99 riguarda un blocco di crediti, con un certo valore, che una apposita società, poi, venderà sul mercato) Poi occorre considerare che nel nostro sistema vige il principio della libertà di concludere anche contratti non tipici o atipici (ex art.1322). E per poter, quindi, individuare il tipo contrattuale l’interprete deve prendere in considerazione la “causa” di quel contratto (NB di origine tedesca c’è, però, il criterio tipologico con cui si individua il tipo non solo con la causa, ma anche tramite altri elementi: oggetto, tempo ecc.; ed in particolare viene in considerazione la c.d. “intuizione del tipo” ossia la valutazione d’insieme o particolareggiata degli elementi. Ma tale criterio ha una posizione minoritaria v. dopo). Causa è la funzione (per la dottrina recente la funzione economica-sociale) del contratto: ma c’è una differenza:

         Funzione: è la causa, aspetto dinamico del contratto
diff.:
         Struttura: è lo scheletro del contratto, aspetto statico del contratto di riflesso alla funzione

Sono elementi connessi; ma non tutti i tipi contrattuali (le loro strutture) possono sopportare diversificate funzioni o modificazione della propria funzione (es. il contratto delle cassette di sicurezza previsto ex art.1839 con la limitazione di responsabilità -ex art.2- che veniva inserito nel contratto standard: con tale clausola si veniva modificare il tipo contrattuale avendone un vero e proprio abuso. Si veniva a modificare la struttura inserendo un elemento di disciplina non compatibile con la funzione -NB la causa comunque non subiva modifiche-).

La giurisprudenza in tema di contratti al riguardo ha una consolidata tendenza: c.d. tendenza alla riconduzione ad un tipo o tipizzazione ad un tipo preconfezionato dal legislatore (perciò è minoritario il criterio tipologico visto prima): esempio lo si è avuto con il contratto di leasing che dagli anni ’70 (da quando cioè hanno incominciato ad utilizzarlo nel nostro ordinamento) la cassazione ha sempre cercato di smontare e scomporre nei suoi elementi per ricondurlo (tramite il criterio adottato nei contratti misti: con l’assorbimento o la combinazione) al tipo normativamente previsto. Tale comportamento è dovuto ad una necessità di “sicurezza”: cioè saper quale disciplina poter applicare con certezza al contratto (atipico). In definitiva si può dire che l’unico (effettivo) contratto atipico è (anche se non più utilizzato) quello di baliatico: della madre che non avendo il latte fa allattare il figlio dalla balia: NB i risvolti in ordine all’affitto dell’utero -disciplinati in altri ordinamenti come quello californiano-).

L’atipicità può aversi in diversi modi: 1) legale: di un tipo contrattuale disegnato dall’ordinamento; 2) sociale: di un tipo contrattuale che acquisisce una sua uniformità che nella prassi viene fatta; 3) giurisprudenziale: successiva alla sociale in quanto viene posto all’attenzione dei giudici nel momento in cui acquista consolidato uso nella vita di tutti i giorni trovando, quindi, possibilità di contrasti e diverbi relativamente alla sua concreta applicazione (dai gradi più bassi fino alla cassazione e in questa, in caso di divergenza tra le sezione, al vaglio delle s.u.).

Oltre alla combinazione tra più contratti o tra un contratto tipico ed uno atipico (che realizzano il c.d. contratto misto) esistono anche i contratti collegati: normativamente è stato previsto e per la prima volta considerato con l’introduzione dell’art.1469-ter I c. sulla tutela del consumatore.

Il tipo contrattuale a cosa fa riferimento ? Si riferisce allo schema (o modello) di predisposizione, di organizzazione degli interessi.

E quale è la struttura formale di tale tipo (posto che anche l’atipico è un tipo contrattuale) ? E le prestazioni di un contratto cosa esprimono ?

I soggetti e l’oggetto del contratto non sono elementi del contratto ma costituiscono i termini dello stesso: sono due aspetti esterni rispetto al contratto.

Cosa sono le fonti di integrazione del contratto ? Sono tutte le norme imperative che l’ordinamento impone che risultino presenti nello schema (v. art.1374).

Quindi struttura del tipo contrattuale è l’insieme delle regole di cui si compone quel tipo; il riferimento è alle prestazioni che rappresentano l’aspetto dinamico ossia la funzione. Perciò sarà la funzione che determinerà il tipo.

Ma ogni struttura ha la sua elasticità (o variabilità) che può comportare una sua modifica: ma può darsi che l’allargamento sia tale da ricomprendere ciò che (per la sua causa) non possa contenere.

Ma come si fa a capire l’elasticità (e quindi il suo limite) del tipo contrattuale ? E anzitutto chiediamoci se l’inserimento di clausole modifichi la funzione del tipo. La risposta è affermativa, ma cosa si intende per clausola ? La clausola è “frammento di contratto” è una regola che le parti si danno (da cui contratto come autoregolamento) per governare l’intera operazione economica.

È sempre l’elemento funzionale (la causa in concreto) che si riflette nelle prestazioni che le parti inseriscono nel contratto che individua i limiti di elasticità del tipo; ma la prestazione (ed anche le clausole intese come patti che vengono inseriti) determinano una uscita quando determinano una alterazione della funzione tipica.

È il concetto di funzione tipica che determina l’elemento di inquadramento dei limiti di elasticità del tipo, e quindi che governa la disciplina della struttura formale del contratto al fine appunto della classificazione della individuazione del tipo in un tipo o in un altro.

Con l’inserimento di elementi (inserimento di una clausola valida) rispetto a quelli propri del tipo, non attinenti alla validità del contratto, si potrebbe avere una modifica della prestazione alterando la funzione tipica mediante una “fuoriuscita” dal tipo.

Cosa è il sottotipo ? È un contratto che appartiene al tipo e presenta elementi in più (e non in meno poiché se no non sarebbe riconducibile al tipo) che ne ampliano il contenuto ma non ne modificano la funzione (es. rapporto di lavoro para-subordinato è un sottotipo del lavoro subordinato).

Quando noi parliamo della struttura del tipo noi distinguiamo il tipo, il sottotipo contrattuale e all’interno del tipo occorre indagare ed esaminare questa elasticità del tipo ossia la capacità di subire delle alterazioni che però non ne modificano la funzione e che quindi la disciplina da applicare segue comunque quella propria del tipo contrattuale a cui si riferisce.




Nessun commento: