Dottrina

La filiazione smantella l'affidamento condiviso

Marino Maglietta

Fonte: Guida al Diritto

Certamente la legge 54/2006 meritava e merita un nuovo passaggio legislativo, in parte per come è stata scritta e soprattutto per come viene applicata. Non a caso proposte di modifica sono state depositate anche subito dopo il varo. Non a caso il Senato nello scorsa legislatura ha lavorato a lungo alla sua revisione, fino al voto di numerosi emendamenti. Non a caso in quella attuale sono già state depositate altre proposte di legge, che stanno percorrendo il loro iter con la consueta tradizionale lentezza, aggravata dall'essere la materia delicata e controversa. Nessuno, quindi, sicuramente si aspettava che quel testo potesse essere modificato in pochi mesi, attraverso un decreto legislativo, fuori del dibattito parlamentare. E soprattutto utilizzando artificiosamente una delega che tutto prevede meno che un intervento del genere; a prescindere dalla condivisibilità o meno delle modifiche.Le novità del Dlgs filiazione - Limitandosi a qualche esempio, cominciamo dall'ascolto del minore, per il quale, in effetti, la delega c'è, ma si limita a dare mandato per la «disciplina delle modalità di esercizio del diritto all'ascolto del minore che abbia adeguata capacità di discernimento, precisando che, ove l'ascolto sia previsto nell'ambito di procedimenti giurisdizionali, ad esso provvede il presidente del tribunale o il giudice delegato». Oltre a ciò, invece, si legge: «Nei procedimenti in cui si omologa o si prende atto di un accordo dei genitori, relativo alle condizioni di affidamento dei figli, il giudice non procede all'ascolto se in contrasto con l'interesse del minore o manifestamente superfluo». Questo dopo avere tassativamente disposto (articolo 336 del Cc) che il giudice «dispone l'ascolto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento» nell'ambito dei procedimenti nei quali devono essere adottati provvedimenti che lo riguardano.

Ora, "dispone" significa che "deve disporre", senza eccezioni, mentre la valutazione che l'ascolto sia "manifestamente superfluo" è del tutto soggettiva anche quando i genitori sono d'accordo e c'è da chiedersi come potrà fare il giudice a stabilire che il minore non ha nulla di rilevante da dire se prima non lo sente. Né può sostenersi che l'ipotesi di un contrasto genitori/figlio è remota: si pensi a un accordo raggiunto perché il padre si vuole defilare rispetto ai compiti genitoriali e la madre è possessiva. Situazione che sfocerà in esigui contatti con il padre e nessun compito di cura. E il minore adesso dovrà tacere. Dunque regola contraddittoria e privazione del minore di un suo diritto

Altri interventi - In caso di affidamento esclusivo si prevede, a differenza di oggi, che il genitore non affidatario perda di regola l'esercizio della responsabilità genitoriale. Condivisibile: ma rientra nella delega? Ancora. L'articolo 337- ter, che sostituisce il 155, recita al primo comma: «Il figlio minore ha il diritto …». È stato soppresso lo splendido incipit della precedente formulazione «Anche dopo la separazione dei genitori, il figlio minore ha il diritto … ». Un inizio che sottolineava la natura permanente delle attese del figlio e al contempo i permanenti doveri dei genitori nei suoi confronti, impegnati nella cura di lui a prescindere dai propri rapporti personali. Una anticipazione anche, del carattere soggettivo e indisponibile di quei diritti. Cassato. Perché? E la filiazione cosa c'entra? Con quale delega?
Andiamo avanti, alla devastante modifica del comma 3 dell'articolo 337-ter: «Le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all'istruzione, all'educazione, alla salute e alla scelta della residenza abituale del minore sono assunte di comune accordo ... In caso di disaccordo la decisione è rimessa al giudice». Con questa aggiunta, evidentemente fuori delega, si archivia sostanzialmente la riforma del 2006, se ne viola il messaggio, si contraddice la ratio dell'intera legge, si creano le premesse per scardinare, oltre alle regole della frequentazione, anche quelle del mantenimento.

La fine della piena bigenitorialità - È l'ineluttabilità del "genitore collocatario", invenzione giurisprudenziale ora legittimata, che rifiuterà la forma diretta del contributo e pretenderà l'assegno; è la fine della piena bigenitorialità, la sconfessione di tutto il lavoro per la pariteticità delle responsabilità genitoriali, per le pari opportunità a favore della donna (ovvero per la madre). Tutto questo mentre il senato francese approva la doppia residenza a tempi uguali come soluzione prioritaria, caldeggiata da una quantità di ricerche scientifiche, che a questo punto invece da noi va fuori legge (evidentemente in tali casi la residenza abituale non esiste). Per tacere del riproporsi della discriminazione tra i genitori, del modello competitivo vinci-perdi, che danneggerà inevitabilmente la mediazione familiare, il cui successo si fonda su un paradigma riparativo e sull'assenza di condizioni privilegiate.

Le critiche - Eppure queste gravi, assurde, irregolarità erano state osservate e fatte notare presso la Commissione Giustizia della Camera. Fu detto: «I citati articoli da 155 a 155-sexies, … trovano, nella trasposizione nel nuovo Capo sulla responsabilità genitoriale, una parziale riformulazione dovuta ad integrazioni prevalentemente provenienti dall'articolo 6 della legge n.898 del 1970 sul divorzio. Tali articoli rappresentano un riferimento giuridico da tempo al centro di un vasto dibattito sul tema dell'affido condiviso svoltosi durante la precedente legislatura presso il Senato ed oggi ripreso da numerose proposte di legge presentate, sul medesimo argomento, alla Camera dei deputati nella presente legislatura. … la delega … non si sofferma esplicitamente sulla modifica dei contenuti espressi negli articoli relativi all'affidamento dei figli ... Ritiene che, nell'interesse esclusivo dei figli, le norme che regolano l'affidamento degli stessi, per la particolare delicatezza del tema al quale afferiscono, debbano essere considerate nell'ambito di un'approfondita iniziativa parlamentare piuttosto che, anche solo parzialmente, per il tramite di un decreto legislativo.». (on. Bonafede, 10 ottobre 2013).

La risposta degli estensori - Purtroppo a queste giuste e logiche considerazioni si è inteso far dare risposta in audizione dagli stessi estensori, i quali ovviamente hanno sostenuto la mancanza di sconfinamenti, appigliandosi alla necessità di un "riordino" e di una assimilazione delle norme. Tuttavia, resta incomprensibile la necessità di rendere omogenea la legge sull'affidamento condiviso del 2006 con quella sul divorzio del 1970 che la 54 aveva il preciso scopo di cambiare nella parte riguardante i figli.


Un ritorno all'antico regime - La legislazione italiana in materia di affidamento fino al 2006 si fondava su un impianto monogenitoriale. La "rivoluzione copernicana" prescritta dalla riforma ha voluto il passaggio a un sistema bigenitoriale, riconoscendo ai figli conseguenti diritti. Gli interventi attuati dal decreto legislativo impongono sul punto un ritorno all'antico regime senza delega né un vero dibattito, in sostanza a porte chiuse, con una consultazione limitata agli operatori e non ai destinatari delle decisioni. Qual è, dunque, il risultato finale di questa operazione? Una spoliazione delle prerogative del Parlamento, rappresentante diretto della volontà popolare, un aumento del potere discrezionale della magistratura, un incremento dei motivi di conflittualità, una riduzione dei diritti dei minori. Non c'è che augurarsi un veloce ravvedimento operoso.



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L’accertamento tecnico preventivo obbligatorio ex art. 445 bis c.p.c.:  
questioni controverse e soluzioni possibili 

ANGELO FRABASILE (da www.judicium.it) 27.2.2012

SOMMARIO: 1. premessa –2. la  quaestio sulla decadenza. – 3. proponibilità diretta ed immediata della domanda di merito: scenari alternativi e superamento del rischio di inammissibilità. 4.- il procedimento. 5- il decreto di omologa dell’accertamento del requisito sanitario e le spese. 6- la notifica del decreto di omologa ed il pagamento della prestazione. 7.- mancato “accordo” e mancata introduzione (o ripresa) del giudizio di merito. 8. – la reintrodotta inappellabilità delle sentenze nei giudizi conseguenti all’atp obbligatorio.

1. PREMESSA
Con il presente scritto mi propongo di ritornare sul procedimento per accertamento tecnico preventivo obbligatorio introdotto dall’art.445 bis cpc (di cui mi occupai con note a margine D.L. 98 del 6.7.2011 convertito in Legge 15.7.2011 n.111) che è in vigore dal 1° gennaio 2012 e che ha già fatto registrare un vivace dibattito su larga scala tra gli operatori del diritto, nutrito da una serie di dubbi scaturiti dall’infelice e miopica formulazione della norma che non esitai ad evidenziare a prima lettura. Pertanto tenterò, anche recuperando parte delle mie precorse considerazioni, di rendere più organica e tendenzialmente più approfondita la disamina del  procedimento che ci occupa, con la consapevolezza che difficilmente potranno esaurirsi o essere trattate esaustivamente tutte le problematiche derivanti dalla norma in esame.

2.- LA QUAESTIO SULLA DECADENZA.
Il primo dubbio postosi all’attenzione degli operatori ed interpreti è originato dal richiamo del comma 3° dell’art.445 bis cpc soltanto alla “prescrizione” («la richiesta di espletamento dell’accertamento tecnico interrompe la prescrizione»), ma non anche alla decadenza. Infatti, l’art.42 del D.l. n.269/03 conv. in L. n.326/03 sancisce il termine decadenziale di sei mesi dalla data di comunicazione del provvedimento sanitario amministrativo relativamente alle controversie in materia di invalidità o cecità civile, sordomutismo, handicap e disabilità; mentre l’art.47 comma 2° DPR n.639/70 sancisce il termine decadenziale di tre anni dalla data di comunicazione della decisione del ricorso ovvero dalla scadenza del termine stabilito ai fini della predetta decisione relativamente alle controversie in materia di prestazioni di invalidità ordinaria ex L. n.222/84.
È, quindi, palese il difetto di coordinamento tra queste ultime norme, prescrittive di termini decadenziali per l’esercizio della tutela giurisdizionale dei diritti, e l’art.445 bis cpc, con l’aggravante che risulta discussa l’idoneità degli  strumenti di istruzione preventiva, come l’accertamento tecnico preventivo classico (art.696 cpc) o la consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite (art.696 bis), ricondotti alla categoria dei giudizi conservativi, ad impedire la decadenza legale. Infatti la scarna giurisprudenza in tema appare divisa circa l’idoneità o meno dell’accertamento tecnico preventivo, in quanto non avente carattere di azione di cognizione o esecuzione, ad impedire la decadenza. Per prima cosa occorre rammentare che il luogo di “nascita” dell’art.445 bis cpc risiede nell’art.38 del su menzionato D.l. 98/11, conv. in L. n.111/11 il quale si prefigge dichiaratamente al comma 1°, tra gli altri obiettivi, di «deflazionare il contenzioso in materia previdenziale». Posta, dunque, in chiaro la ratio ispiratrice del nuovo accertamento  tecnico, l’impedimento della decadenza può essere positivamente sostenuto sulla base delle seguenti argomentazioni. Recita il comma 2 dell’art.445 cpc che «l’espletamento dell’accertamento tecnico preventivo costituisce condizione di procedibilità della domanda di cui al primo comma», ossia della «domanda per il riconoscimento dei propri diritti». Orbene appare pertinente il richiamo all’art.2966 c.c. che, intitolato «cause che impediscono la decadenza», recita nel primo periodo che «la decadenza non è impedita se non dal compimento dell’atto previsto dalla legge o dal contratto». Attesa la pacifica valenza sia sostanziale che processuale del sostantivo “atto” ivi previsto, non v’è dubbio che a norma dell’art.445 bis cpc il deposito del ricorso ai fini della «istanza di accertamento tecnico per la verifica preventiva delle condizioni sanitarie legittimanti la pretesa fatta valere»
vada identificato in quell’atto prescritto dalla legge come «obbligatorio» e perciò stesso avente efficacia impeditiva della decadenza. Se è vero che il Legislatore del D.l. 98/11, conv. in L.111/11, ha omesso nell’art.445 bis cpc ogni riferimento ed ogni raccordo con l’art.42 comma 3° D.l.269/03, conv. in L.326/03, ciò nondimeno proprio dalla coesistenza di entrambe le norme deve trarsi la conclusione che la decadenza semestrale prevista nel primo articolo ai fini della domanda giudiziale di merito, è impedita altresì dal rispetto della condizione di procedibilità della stessa domanda. In ciò va ravvisata anche la differenza tra gli strumenti di istruzione probatoria preventiva ex artt.696 e 696 bis cpc, non aventi pacifica idoneità ad impedire la decadenza ed affidati alla libera scelta della parte di avvalersene, ed il nuovo accertamento tecnico di cui all’art.445 bis cpc che è obbligatoriamente preveduto dalla legge quale condizione di procedibilità per l’azione di merito. Inoltre con riferimento agli strumenti di istruzione preventiva non obbligatori, si suole riconoscere effetto interruttivo della prescrizione e così pure impeditivo della decadenza solo dalla notifica del ricorso e del pedissequo decreto o addirittura dalla comunicazione del relativo esito. Diversamente nel procedimento per ATP obbligatorio ex art.445 bis cpc, poiché è la legge  a prescriverlo in termini di condizione di procedibilità dell’azione, l’effetto impeditivo della decadenza si produce nel momento del deposito del relativo ricorso, allorquando è rispettata la condicio legis. Siffatta conclusione è poi corroborata da una lettura costituzionalmente orientata dell’art.445 bis cpc, non potendo né immaginarsi, né ammettersi la legittimità di una norma che celi una “trappola” o un’insidia per l’esercizio del diritto inviolabile di azione sancito e tutelato dall’art.24 cpc, come peraltro già rilevato in dottrina con specifico riguardo all’effetto dell’interruzione della
prescrizione. Pertanto, nel rispetto di canoni di logica e razionalità interpretativa, va riconosciuta una necessaria e coordinata relazione tra l’art.445 bis cpc e l’art.42 comma 3° del D.l. 269/03 conv. in L.326/03 ovvero con l’art.47 comma 2° DPR 639/70, per effetto della quale il deposito del ricorso per l’accertamento tecnico preventivo obbligatorio è atto processuale idoneo a termini dell’art.2966 c.c. ad impedire la decadenza legale.

3.- PROPONIBILITÀ DIRETTA E CONCOMITANTE DELLA DOMANDA DI MERITO: SCENARI ALTERNATIVI E SUPERAMENTO DEL RISCHIO DI INAMMISSIBILITÀ.
Il comma 2° dell’art.445 bis cpc precisa che, non già l’istanza, ma l’espletamento dell’accertamento tecnico preventivo, costituisce condizione di procedibilità della domanda (di merito s’intende, distinguendola dalla istanza in questa fase), tanto che se il giudice rileva che esso accertamento «non è stato espletato», assegna alle parti (il plurale “parti” non può che essere un refuso, giacché solo la parte “che intende proporre in giudizio domanda” è quella portatrice dell’interesse a procedere, e non certo l’Inps che non avrebbe alcun interesse alla verifica del verdetto sanitario espresso dalle proprie commissioni in sede amministrativa) il termine di quindici giorni per la presentazione dell’istanza di accertamento tecnico preventivo. La formulazione del periodo lascia intendere che l’ipotesi di accertamento che «non è stato espletato», dovrebbe verificarsi sia quando è mancata l’istanza a tal fine, sia quando l’istanza è stata presentata ma, per varie ragioni, l’accertamento non ha avuto inizio. Analogo termine di quindici giorni verrà assegnato dal giudice alle parti altresì nel caso di accertamento tecnico regolarmente chiesto ed «iniziato», ma che «non si è concluso».
Giova rammentare che nel nostro ordinamento processuale è pacificamente ammessa una condizione di procedibilità dell’azione di merito,  parlandosi in proposito di c.d. “giurisdizione condizionata”, con numerose applicazioni ed avvalli anche da parte della Consulta pur attenta al rispetto della garanzia del diritto di azione-difesa ex art.24 Cost. ed aperta alle esigenze di razionalizzazione e deflazione del contenzioso. Autorevole dottrina ha osservato che la condizione  di procedibilità prevista dall’art.445 bis cpc funziona come “filtro obbligatorio di mera procedibilità della tutela giurisdizionale”. Ne consegue che ove la domanda giudiziale di merito sia proposta senza essere stata preceduta dall’istanza per ATP obbligatorio, andrà incontro soltanto alla declaratoria di improcedibilità su eccezione del convenuto ovvero su rilievo d’ufficio, che ne sospenderà gli effetti. Il doppio sbarramento previsto dal comma 2° dell’art.445 bis cpc secondo cui «l’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto a pena di decadenza o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza», lascia chiaramente intendere che, in difetto di eccezione  o rilievo d’ufficio entro la prima udienza, il
giudizio di merito introdotto dalla domanda dovrà procedere benché non sia stata rispettata la condizione di procedibilità. Tenuto conto che la condizione di procedibilità assolve a funzione di filtro e che non è prevista alcuna sanzione alla sua inosservanza, l’art. 445 bis cpc va annoverato tra le norme imperfette. L’acclarata ammissibilità della proposizione di una domanda giudiziale di merito non preceduta dall’istanza di accertamento tecnico obbligatorio di cui all’art.445 bis cpc, oppure concomitante con detta istanza, pone un problema di raccordo almeno teorico con il comma 6° dell’art.445 bis cpc. Infatti, qui si prevede che la parte che abbia dichiarato con atto scritto (a norma del comma 4°) di contestare le conclusioni del Ctu «deve depositare…entro il termine perentorio di trenta giorni dalla formulazione della dichiarazione di dissenso, il ricorso introduttivo del giudizio…». Nel silenzio della norma, cosa accade alla domanda di merito che sia stata dichiarata improcedibile in conseguenza dell’eccezione dell’istituto convenuto o del rilievo d’ufficio?
Sul rilievo che il deposito, nella forma del ricorso, della domanda di merito incardina il processo con l’effetto della litispendenza, e che l’improcedibilità prevista dall’art.445 bis cpc sicuramente non assolve ad una funzione sanzionatoria ma dà luogo ad una sospensione anomala del giudizio pendente, si dovrebbe poter concludere che, una volta espletato l’accertamento tecnico preventivo (che costituisce la condizione di procedibilità e non già la mera “presentazione dell’istanza di accertamento tecnico o di completamento dello stesso” a termini del comma 2° dell’art.445 bis cpc), il giudizio quiescente introdotto dalla domanda di merito può essere riattivato ad istanza di parte «entro il termine perentorio di trenta giorni».
A fronte della mancanza di una simile disciplina in seno all’art.445 bis cpc, viene da rammentare che il Legislatore in altri tempi e per analoghe fattispecie di condizioni di procedibilità, aveva previsto i meccanismi della riassunzione ed estinzione del processo, come ad esempio nell’abrogato art.412 bis commi 4° e 5° cpc o nell’art.443 cpc rispettivamente con riguardo alle controversie di lavoro (quando ne era obbligatorio il tentativo di  conciliazione) ovvero a quelle previdenziali e assistenziali. Nondimeno la lacuna dell’art.445 bis cpc circa la possibile ripresa del processo posto in stato di quiescenza per effetto della declaratoria di improcedibilità, può essere colmata facendo ricorso alle regole generali, e nello specifico all’art.297 cpc  che, intitolato «Fissazione della nuova udienza dopo la sospensione», così recita:

[1] Se col provvedimento di sospensione non è stata fissata l'udienza in cui il processo deve proseguire, le parti debbono chiederne la fissazione entro il termine perentorio di tre mesi dalla cessazione della causa di sospensione di cui all'art. 3 del Codice di procedura penale o dal passaggio in giudicato [324] della sentenza che definisce la controversia civile o amministrativa di cui all'art. 295
[2] Nell'ipotesi dell'articolo precedente l'istanza deve essere proposta dieci giorni prima della
scadenza del termine di sospensione.
[3] L'istanza si propone con ricorso al giudice istruttore o, in mancanza, al presidente del tribunale.
[4] Il ricorso, col decreto che fissa l'udienza, è  notificato a cura dell'istante alle altre parti nel
termine [152, 170] stabilito dal giudice.

Al fine di prevenire ogni perplessità circa la valenza generale dell’art.297 cpc, corre utile riportare una decisione della Suprema Corte: «Con la nuova formulazione dell'art. 111 della Costituzione, il quale, al comma secondo, ult. parte, assicura la ragionevole durata del processo (ma, il valore ivi espresso era già contenuto nell'art. 6 della CEDU, cui pure il nostro Paese aveva prestato adesione e ratifica con la legge 4 Agosto 1955, n. 848 e, secondo molti, già presente nella stessa Costituzione repubblicana, nel suo testo originario, quale risultante del combinarsi di una pluralità di disposizioni: ovvero gli artt. 2, 3, 24 e 97 Cost.),  non sono più concepibili, nell'ambito del processo, inerzie o inattività di mera attesa. Ove il legislatore non abbia provveduto a regolare, con una disciplina speciale, il congegno della riassunzione o nuova fissazione del processo sospeso, a questo deve applicarsi la previsione, che così acquista valore generale, contenuta nell'art. 297 cod. proc. civile, riguardante la fissazione della nuova udienza dopo la cessazione della causa di sospensione». Al principio presta adesione anche la dottrina osservando che la disciplina dettata dall’art.297 cpc, con gli opportuni adattamenti, deve ritenersi applicabile, in assenza di disposizioni ad hoc, a tutte le altre ipotesi di riassunzione conseguente a sospensione. Questa appare l’unica via processualmente percorribile per ammettere la ripresa di un processo rimasto quiescente per effetto della declaratoria di improcedibilità, e per non pregiudicare il diritto inviolabile all’azione tutelato dall’art.24 Cost.,  dovendosi a margine considerare che non risponderebbe ad alcuna utilità economico-processuale non dare continuità ad una condizione di procedibilità (la Ctu) comunque soddisfatta e non necessariamente ripetibile in sede di merito. Appurato, dunque, che l’art.445 bis cpc consente anche una proposizione della domanda di merito non preceduta dall’istanza di accertamento tecnico preventivo e non esclude, dopo che questa sia stata dichiarata improcedibile, la ripresa del processo rimasto quiescente, per rispondere alla domanda di cui sopra occorre prefigurarsi due ipotesi: la prima, in cui l’esito dell’accertamento tecnico sia favorevole alla parte ricorrente che aveva già proposto domanda per il riconoscimento dei suoi diritti; la seconda ipotesi, in cui l’esito del medesimo accertamento sia favorevole all’istituto “convenuto”.
Nella prima ipotesi, in cui la «verifica preventiva delle condizioni sanitarie» sia stata favorevole alla parte ricorrente, mentre l’Istituto «convenuto» abbia dichiarato «con atto scritto depositato in cancelleria» di voler «contestare le conclusioni del consulente tecnico d’ufficio» (comma 4° art.445 bis cpc), spetterà al resistente riattivare nel termine di gg.30 ex art.445 bis comma 6° cpc il giudizio già pendente (introdotto dalla domanda di merito dichiarata improcedibile), chiedendo la fissazione dell’udienza di comparizione. Ovviamente con la memoria con cui riattiva il giudizio l’istituto dovrà concludere per il rigetto per infondatezza della domanda del ricorrente (originario) sulla scorta dei «motivi della contestazione» alle «conclusioni del consulente tecnico  d’ufficio» da esplicitare «a pena di inammissibilità» a rigore del suddetto comma 6°, contestando altresì i
requisiti socio-economici costitutivi del diritto in questione (appare corretto fare riferimento al diritto il cui contenuto può essere economico oppure no, sol che si pensi ad es. alla contribuzione figurativa, all’iscrizione negli elenchi del collocamento obbligatorio, riconoscimenti di agevolazioni e diritti per soggetti handicappati). Se l’istituto, nel termine perentorio di gg.30, non riattivasse il giudizio già pendente e quiescente, all’originario  ricorrente, ovviamente svincolato dal suddetto termine non rispettato dal “dissenziente”, non resterà che proporre a norma dell’art.297 comma 1° cpc l’istanza di ripresa del processo «entro il termine di tre mesi», anch’esso perentorio, decorrente dalla scadenza del termine di gg.30 fissato dall’art.445 bis comma 6° cpc. In tal modo il ricorrente potrà chiedere ed ottenere la condanna dell’istituto al pagamento della prestazione il cui requisito sanitario sia stato già accertato, e di cui si data prova della sussistenza dei requisiti socio-economici di legge.
Nella seconda ipotesi, in cui le «conclusioni del consulente tecnico d’ufficio» siano state sfavorevoli alla parte ricorrente e da questa contestate con l’analoga modalità di cui al comma 4° dell’art.445 bis cpc, la stessa parte avrà interesse a dare impulso al giudizio quiescente già introdotto con la domanda di merito, ma nel termine stringente di gg.30 prescritto dal comma 6° della norma. Tuttavia, si profilerebbe  prima facie il rischio dell’inammissibilità di tale domanda originaria in quanto non recante «i motivi della contestazione» alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio. Invero il paventato rischio è evitabile con il semplice accorgimento di indicare i «motivi della contestazione» direttamente nell’atto di contestazione di cui al comma 4° del ridetto art.445 bis cpc., Infatti, quest’ultima disposizione nulla dice sul contenuto dell’atto  de quo, limitandosi a
prescriverne la forma scritta ed il deposito in cancelleria nel termine assegnato all’uopo dal giudice, tanto che al comma 6° della medesima norma si parla di mera «formulazione di dichiarazione di dissenso»; sicché riesce agevole concludere che il Legislatore non ha richiesto alcuna esplicitazione delle ragioni del dissenso nella suddetta dichiarazione, e dunque alcuna motivazione, tanto confermandosi ulteriormente sul rilievo della impossibilità di alcun sindacato del giudice ovvero della controparte in quella sede, nonché sul rilievo che il citato comma 6° recupera «i motivi della contestazione» nel ricorso introduttivo del susseguente giudizio di merito. Va da sé che ciò che non è prescritto (la motivazione del dissenso), non è al tempo stesso escluso o precluso, con la conseguenza che alla parte ricorrente sarà consentito nella «dichiarazione di dissenso» «specificare i motivi della contestazione» alle conclusioni del Ctu. Del resto se la ratio del comma 6° dell’art.445 bis cpc è quella specificare le ragioni del dichiarato dissenso in funzione dell’instaurando giudizio di merito, l’anticipazione delle stesse ragioni direttamente nella dichiarazione di cui al comma 4° consente (sulla falsa riga dell’art.156 ult. co. cpc) il raggiungimento dello scopo oggettivo (ossia la funzione tecnica e pratica) dell’atto processuale,  e per l’effetto di ritenere integrata l’originaria domanda di merito che verrà riassunta. Fatte queste ipotesi e con riguardo ad entrambe viene da chiedersi che succede se il ricorrente, nel
termine di gg.30 di cui all’art.445 bis comma 6° cpc ovvero nel termine di cui all’art.297 cpc, non provveda alla riattivazione del giudizio? La risposta risiede nell’art.307 comma 3° cpc, quale norma c.d. in bianco, di carattere generale, che sanziona con l’estinzione del processo il mancato compimento dell’atto di impulso entro i termini perentori stabiliti dalla legge o dal giudice (c.d. inattività qualificata). Il comma 3° dell’art.307 cpc così recita: «Oltre che nei casi previsti dai commi precedenti, e salvo diverse disposizioni di legge, il processo si estingue altresì qualora le parti alle quali spetta di rinnovare la citazione o di proseguire, riassumere o integrare il giudizio, non vi abbiano provveduto entro il termine perentorio stabilito dalla legge, o dal giudice che dalla legge sia autorizzato a fissarlo. Quando la legge autorizza il giudice a fissare il termine, questo non può essere inferiore ad un mese né superiore a tre.». A ben vedere a) la preposizione “oltre” spinge l’applicazione della norma fuori dai casi previsti dai commi precedenti; b) non vi ostano “diverse disposizioni di legge”; c) si è visto a quale parte spetti, a seconda delle ipotesi prospettate, di riattivare entro dati termini il giudizio già pendente e quiescente; d) i termini per la riattivazione del giudizio (445 bis comma 6° o 297 cpc) sono perentori in quanto stabiliti dalla legge o dal giudice ex lege autorizzato a fissarlo. Ne consegue che in difetto di riattivazione del giudizio già pendente ad opera della parte cui spetti o che vi abbia interesse, si dovrebbe ipso iure verificare l’estinzione immediata del giudizio medesimo. Quanto a quest’ultimo esito estintivo del processo v’è da osservare che esso potrebbe non essere dichiarato se la riattivazione del processo non avvenisse mai, oppure essere dichiarato, pur in assenza di eccezione, con un pronuncia di mero rito a norma dell’ultimo comma dell’art.307 cpc che prevede per l’appunto la rilevabilità d’ufficio.
Recuperando gli approdi del ragionamento innanzi fatto, si può in estrema sintesi concludere che il procedimento ex art.445 bis cpc non esclude la proposizione di una domanda di merito non preceduta dall’accertamento tecnico preventivo obbligatorio; che questa domanda è suscettibile di declaratoria di improcedibilità (ove eccepita o rilevata ex officio) con conseguente effetto di sospensione c.d. impropria del giudizio di merito così introdotto; che pur nel silenzio dell’art.445 bis cpc è certamente ammessa una ripresa del processo quiescente in virtù dell’applicazione della disciplina generale dell’art.297 cpc con riguardo alla precipua ipotesi illustrata; che il mancato compimento dell’atto di impulso per la ripresa del  processo nei termini perentori rispettivamente previsti dall’art.445 bis comma 6° cpc o dell’art.297 cpc, conduce all’estinzione immediata del processo, con sacrificio definitivo dell’azione.

4.- IL PROCEDIMENTO.
Presentata l’istanza di accertamento tecnico preventivo «il giudice procede a norma dell’art.696 bis cpc, in quanto compatibile, nonché secondo le previsioni inerenti all’accertamento peritale di cui all’art. 10, comma 6 bis del D.L. 30.9.2005 n.203,  convertito, con modificazioni, dalla legge 2.12.2005 n.248, e dall’art.195», del quale ultimo articolo è omessa per  lapsus calami la fonte normativa (cpc). Già avevo evidenziato nella mie precedenti note a prima lettura che il legislatore ha operato un confusionale ed inopportuno rinvio alle suddette norme, nonostante la regolamentazione innovativa introdotta per questo particolare accertamento tecnico dai comma 4° e 5° dell’art.445 bis cpc. Sarebbe stato perciò auspicabile dedicare al procedimento in esame una disciplina ad hoc, senza alcun rinvio ad altre norme delle quali, tra l’altro, verificare la compatibilità. Il primo rilievo critico lo si ricava dalla contraddittorietà tra intitolazione della norma, ossia «Accertamento tecnico preventivo obbligatorio» e l’espresso riferimento all’art.696 bis cpc in quanto compatibile, il quale ultimo invece disciplina la “Consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite”. Quali sono i punti di compatibilità tra la procedura di cui all’art.445 cpc e l’art.696 bis cpc da ultimo citato? Da principio verrebbe da escludere ogni compatibilità in ragione del ben definito ambito applicativo della “Consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite” ex art.696 bis cpc, concepita «ai fini dell’accertamento e della relativa determinazione dei crediti derivanti dalla mancata o inesatta esecuzioni di obbligazioni contrattuali o da fatto illecito». Tralasciando le interpretazioni non univoche in dottrina circa l’ambito di applicazione dello strumento peritale de quo, che si suole ammettere –non senza argomenti contrari in punto di  an- anche in tema di valutazione di danni alla persona ai fini del quantum risarcitorio, per quel che riguarda da vicino le materie evocate dall’art.445 bis cpc è indiscussa la loro estraneità ontologica alle obbligazioni contrattuali e men che mai alle obbligazioni ex delictu. Superando tale evidenza, visti gli espressi riferimenti alla consulenza tecnica preventiva ex art.696 bis cpc contenuti nel testo dell’art.445 bis cpc, viene da sé istituire similitudini tra detti procedimenti, ma al tempo stesso deve prendersi atto che il nuovo procedimento, per sue peculiarità, si differenzia nettamente dall’altro. Tanto premesso, appare compatibile il richiamo dell’art.445 bis cpc all’art.696 bis comma 1° cpc limitatamente alla parte in cui rinvia al terzo comma dell’art.696 cpc, che a sua volta rinvia agli artt.694 e 695 cpc per quanto concerne le modalità di fissazione dell’udienza di comparizione delle parti ed i correlati incombenti di rito; è compatibile il richiamo al comma 5° dell’art.696 bis cpc limitatamente alla parte in cui prevede che «ciascuna parte può chiedere che la relazione depositata dal consulente sia acquisita agli atti del successivo giudizio di merito»; è compatibile il richiamo all’ultimo comma dell’art.696 bis cpc che fa rinvio agli articoli da 191 a 197 cpc dedicati, per l’appunto, alla nomina ed alle indagini del consulente tecnico. Orbene, poiché tra esse norme v’è pure l’art.195 c.p.c., risulta essere una superfetazione l’espresso richiamo a quest’ultimo articolo da parte dell’art.445 bis cpc Ulteriore rinvio è contenuto nel periodo conclusivo del comma 1° dell’art.445 bis cpc secondo cui «Il giudice procede a norma dell’art.696 bis cpc….nonché secondo le previsioni inerenti all’accertamento peritale di cui all’art.10 comma 6 bis…». Quest’ultima norma speciale introdotta dal D.L. 30.9.2005 n.203, convertito con modificazioni  dalla legge 2.12.2005 n.248 e poi modificata dal comma 7 dell’art.38 D.l. n.98/2011, convertito in L. 111/11 e collocato al comma 8, prevede che: “Nei procedimenti giurisdizionali civili relativi a prestazioni sanitarie previdenziali ed assistenziali, nel caso in cui il giudice nomini un consulente tecnico d'ufficio, alle indagini assiste
un medico legale dell'ente, su richiesta del consulente nominato dal giudice il quale provvede ad inviare, entro 15 giorni antecedenti l’inizio delle operazioni peritali, anche in via telematica, apposita comunicazione al direttore della sede provinciale dell’Inps competente o a suo delegato. Alla relazione peritale è allegato, a pena di nullità, il riscontro di ricevuta della predetta comunicazione. L’eccezione di nullità è rilevabile anche l’ufficio dal giudice. Il medico legale dell’ente è autorizzato a partecipare alle operazioni peritali in deroga al comma primo dell’art.201 del codice di procedura civile”. Il richiamo al novellato art.10 comma 6° bis del D.l. 203/2005 così come modificato, che involge regole operative indirizzate al consulente tecnico  d’ufficio, induce a ritenere opportuno che nel verbale di giuramento e di affidamento dell’incarico peritale, il giudice inviti formalmente il proprio consulente a conformarsi agli adempimenti ed ai termini indicati nella norma speciale, e ciò soprattutto al fine di prevenire un vizio di nullità delle operazioni peritali. L’approccio al comma 4° dell’art.445 bis cpc dà consistenza ulteriore all’idea che il legislatore del D.L. 98/2011, poi convertito, abbia difettato di qualificate doti processuali e soprattutto non abbia avuto avanti a sé, chiaro e ricomposto, il quadro di disposizioni normative evocate. Conferma ne viene altresì dal periodo conclusivo del comma 1° dell’art.445 bis cpc in cui rinvia all’art.195 cpc che, così come da ultimo novellato, recita che:

“Delle indagini del consulente si forma processo verbale quando sono compiute con l'intervento del giudice istruttore, ma questi può anche disporre che il consulente rediga relazione scritta.
[2] Se le indagini sono compiute senza l'intervento del giudice, il consulente deve farne relazione, nella quale inserisce anche le osservazioni e le istanze delle parti.
[3] La relazione deve essere trasmessa dal consulente alle parti costituite nel termine stabilito dal giudice con ordinanza resa all'udienza di cui all'articolo 193. Con la medesima ordinanza il giudice fissa il termine entro il quale le parti devono trasmettere al consulente le proprie osservazioni sulla relazione e il termine, anteriore alla successiva udienza, entro il quale il consulente deve depositare in cancelleria la relazione, le osservazioni delle parti e una sintetica valutazione sulle stesse.”

Se il richiamo deve intendersi all’art.195 cpc per intero, e quindi anche al comma 3° che consente il diritto delle parti di replicare alle conclusioni del Ctu, non si comprende la ratio del meccanismo previsto al comma 4° dell’art.445 bis cpc che appesantisce la procedura in esame anziché snellirla anche nei tempi. Infatti, si prevede in quest’ultimo comma che, una volta «terminate le operazioni peritali», il giudice emette un decreto in cui fissa un termine «non superiore a trenta giorni» entro il quale le parti «devono dichiarare, con atto scritto depositato in cancelleria, se intendono contestare le conclusioni del consulente tecnico d’ufficio». Insomma, non si comprende quale valore dovrebbe riconoscersi alle osservazioni critiche (e quindi motivate) alla Ctu previste dal comma 3° dell’art.195 cpc, se poi è la mera «dichiarazione di dissenso» (anche priva di motivazione) a rilevare ai fini del procedimento di cui all’art.445 bis cpc. Proseguendo, desta davvero perplessità la previsione del comma 5° della norma in esame, ove si prevede che «in assenza di contestazione, il giudice, se non procede ai sensi dell’articolo 196…». Quest’ultimo articolo, consente sempre al giudice «di disporre la rinnovazione delle indagini e, per gravi motivi, la sostituzione del consulente tecnico», ma trattasi di potere rientrante tra quelli istituzionali del giudice di merito. Una ragione plausibile per giustificare, «in assenza di contestazione» l’esercizio da parte del giudice di un tipico sindacato di merito, in quanto implicante una valutazione fondata su «gravi motivi» e, peraltro, al di fuori del contraddittorio delle parti, potrebbe risiedere nel mancato rispetto delle garanzie procedurali prescritte dalle norme sopra menzionate. Ma una simile ipotesi mal si concilia con la premessa di «assenza di contestazione», a meno di non immaginare che sia il giudice d’ufficio a rilevare un vizio nell’espletamento della ctu. Così pure mal si concilia con la specifica disciplina dell’art.92 disp. att. cpc in tema di «questioni sorte durante le indagini del consulente», a fronte delle quali, su informativa del ctu o su ricorso della parte interessata, il giudice deve sentire le parti prima di dare i provvedimenti opportuni. Sicché potrebbe profilarsi un’aporia tra la previsione del comma 5° dell’art.445 bis cpc, che non prevede alcuna audizione delle parti, ed il sub procedimento disciplinato all’art.92 disp. att. cpc che, invece, la impone al giudice prima di adottare i provvedimenti del caso. Al di fuori dell’ipotetico scenario appena illustrato, è d’uopo evidenziare che dopo la prima ed unica udienza di comparizione, le parti non compaiono più avanti al giudice (come del resto avviene nel classico procedimento per ATP ex art.696 cpc).  Difatti, la progressione del procedimento è segnata da attività che prescindono del tutto dal contatto tra le parti ed il giudice, dovendo quest’ultimo a norma del 4° comma, fuori udienza, fissare «con decreto comunicato alle parti…un termine perentorio non superiore a trenta giorni, entro il quale le medesime devono dichiarare, con atto scritto depositato in cancelleria, se intendono contestare le conclusioni del consulente tecnico d’ufficio»; e dopo pronunciare, a norma del comma 5° «fuori  udienza» il decreto di omologa in assenza di contestazione delle parti alla ctu e quando non ne disponga la rinnovazione e/o la sostituzione ai sensi dell’articolo 196 cpc. Cosa consegue al mancato rispetto del termine non superiore a gg.30 (e quindi anche inferiore) assegnato dal giudice e decorrente dal «decreto comunicato alle parti» al fine di dichiarare il proprio dissenso alle conclusioni del Ctu? È espressamente  qualificato come «termine perentorio», tale
essendo a mente dell’art.152 cpc anche quello previsto dalla legge ed affidato al giudice nella sua concreta fissazione. Lo spirare del termine de quo  determina automaticamente la decadenza dall’attività processuale da compiere, ossia sub specie  il deposito dell’atto di contestazione delle conclusioni del Ctu. Pertanto, l’inosservanza del termine fissato dal giudice produrrà effetti preclusivi alla contestazione della Ctu, equipollenti alla «assenza di contestazione» di cui al successivo comma 5° dell’art.445 bis cpc in esame, senza tuttavia che sia configurabile una fictio iuris legittimante l’emissione da parte del giudice del decreto di omologa. Infatti, non è revocabile in dubbio che il giudice in questa fase procedimentali non ha poteri di iniziativa esulanti dallo schema delineato dalla stessa norma.
Come si avrà modo di specificare di seguito, la fine del procedimento appare chiaramente segnata dal decreto di omologa, in assenza di contestazioni delle parti, oppure dal deposito della «dichiarazione di dissenso» di una o di entrambe le parti, depositata in cancelleria.

5.- IL DECRETO DI OMOLOGA DELL’ACCERTAMENTO DEL REQUISITO SANITARIO E LE SPESE.
In base alla disciplina del comma 5° dell’art.445 bis cpc, se le parti nel suddetto termine non superiore di gg.30 loro assegnato dal giudice ex comma 4°, non hanno inteso contestare (con atto scritto e depositato) le conclusioni del Ctu e se il giudice non ha ritenuto a norma dell’art.196 cpc di rinnovare le indagini e sostituire il consulente, “con decreto pronunziato fuori udienza” entro trenta giorni dalla scadenza dei precedenti trenta concessi alle parti, “omologa l’accertamento del requisito sanitario secondo le risultanze probatorie indicate nella relazione del consulente tecnico dell’ufficio provvedendo sulle spese”. Anzitutto si rileva l’improprio uso del singolare nell’incipit del comma 5° «in assenza di contestazione”, ben potendo le contestazioni per diverse ragioni (ad. es. decorrenza del requisito sanitario; percentuale valutativa ascritta ad una data patologia o errore di valutazione funzionale dell’insieme di patologie coesistenti; omissione di indagini sanitarie suppletive sollecitate ovvero omessa valutazione di una o più patologie; tabelle  o scale di valutazione applicate, etc.) essere mosse da entrambe le parti del procedimento. Si osservi l’uso inedito da parte del Legislatore del verbo “omologare” che non è contenuto nel testo dell’art.696 bis cpc (nel quale si prevede che «il giudice attribuisce con decreto efficacia di titolo esecutivo al processo verbale…»), ma che è stato mutuato dalla dottrina. Viene da chiedersi se, pur «in assenza di contestazione», il decreto di omologa previsto dal comma 5° presupponga in ogni caso l’accertamento positivo delle condizioni sanitarie legittimanti il diritto che si intende far valere, oppure possa essere emesso dal giudice anche quando il Ctu abbia confermato il giudizio sanitario espresso a verbale dalle competenti commissioni in sede amministrativa. A ben vedere, quantunque non chiaramente, la disposizione lascia intendere che l’emissione del decreto di omologa presupponga un accertamento comunque favorevole all’istante, in quanto il secondo periodo di essa soggiunge che «il decreto…è notificato agli enti competenti che, provvedono, subordinatamente alla verifica di tutti gli ulteriori requisiti previsti dalla normativa vigente, al pagamento delle relative prestazioni, entro 120 giorni». In altri termini, è dato comprendere che solo il decreto di omologa di un accertamento positivo va notificato agli «enti
competenti» affinché provvedano al pagamento della prestazione spettante, previa verifica degli altri requisiti previsti dalla legge. Diversamente  appare logico escludere che il giudice debba omologare un accertamento negativo «secondo le risultanze probatorie indicate nella relazione del consulente tecnico d’ufficio», laddove nulla muta nella realtà giuridico-sostanziale in cui resta fermo e confermato il verbale sanitario amministrativo e gli « enti competenti» non debbano provvedere ad alcunché. Attesa la non impugnabilità e modificabilità del decreto di omologa a rigore del secondo periodo del comma 5°, viene da domandarsi se esso provvedimento, ove affetto da un errore materiale, sia emendabile con la procedura di correzione di errore materiale di cui all’art.287 cpc Ebbi già a dire che non è facile rispondere al quesito. Da un parte si potrebbe rispondere affermativamente in linea con la tesi dottrinale secondo cui tutti i provvedimenti non revocabili,  sebbene diversi dalla sentenza, e che abbiano una funzione decisoria, si  prestano al procedimento di correzione di cui all’art.287 cpc. Per converso si potrebbe obiettare per la non correggibilità del decreto in  questione, in ossequio alla limitazione edittale (“sentenze ed ordinanze”) posta dall’art.287 cpc. Tuttavia, considerata la natura e l’effetto del decreto di omologa, considerato che con esso il giudice provvede anche sulle spese, per esse intendendosi non solo quelle del compenso al ctu ma anche quelle delle parti del procedimento, e considerato  che esso, in quanto non impugnabile né modificabile, è vincolante per gli «enti competenti», appare sostenibile che detto provvedimento riveli una funzione  in parte qua decisoria, tale da renderlo assoggettabile al procedimento di correzione dell’errore materiale. Militano in ogni  caso a favore della tesi affermativa ragioni di buon senso ed opportunità a mente di una ricca casistica di errori materiali di frequente verificazione nelle materie oggetto dell’accertamento tecnico ex art.445 bis cpc. L’altro tema di interesse che si pone anche quando il giudice non debba procedere con l’omologa, investe la liquidazione delle spese. La generica formulazione in proposito del comma 5° dell’art.445 bis cpc, e soprattutto il fatto che analoga previsione sulle spese manchi del tutto nei procedimenti “cugini” regolati agli artt.696 e 696 bis cpc, conduce a ritenere che le spese cui fa riferimento l’art.445 bis cpc non siano limitate al compenso in favore del Ctu, ma debbano estendersi a quelle per diritti ed onorari di difesa (rectius, alla luce dell’art.9 D.l. 24.1.2012 n.1, sarebbe meglio parlare più genericamente di competenze legali). In tal modo è possibile dare ingresso ed applicazione in un procedimento di istruzione preventiva (quantunque obbligatoria) alle regole proprie del processo di cognizione in tema di spese, e cioè l’art.91, 92, 93 e 152 disp. att. cpc.
Così nel caso di esito positivo dell’ATP per la parte istante, le relative spese legali per l’assistenza tecnica dovranno essere poste a carico dell’Istituto convenuto, e se richiesto distratte in favore del difensore anticipatario. Nel caso di esito negativo dell’ATP per la parte istante, il giudice valuterà se sussista il diritto di quest’ultima, purché ritualmente dedotto, all’esenzione dalla condanna alle spese del procedimento in applicazione dell’art.152 disp. att. c.p.c. Tuttavia si profila un’anomalia che può essere letta come una peculiarità del procedimento in esame, rispetto agli altri procedimenti “cugini”: e cioè che se si ammette il significato estensivo al sostantivo “spese” nell’art.445 bis cpc, comprendendo come detto anche quelle per patrocinio legale, allora si dovrà ammettere anche il potere del giudice di disporre la compensazione totale e parziale delle stesse a norma dell’art.92 cpc, benché quest’ultima norma presupponga un processo in senso stretto ed un provvedimento decisorio-condannatorio.

6. – LA NOTIFICA DEL DECRETO DI OMOLOGA ED IL PAGAMENTO DELLA PRESTAZIONE.
Già si è detto che il decreto di omologa, quello relativo al positivo accertamento dei requisiti sanitari, «è notificato agli enti competenti». Posto che in tal caso si specifica che trattasi  di notificazione (e non già di mera comunicazione come invece nel comma 4°) e considerato che l’art.137 cpc consente le notificazioni anche ad istanza della cancelleria del giudice, non è dato comprendere se la notifica in interesse debba avvenire ad istanza di quest’ultima o ad istanza della parte. Non si può negare l’interesse della parte al sollecito decorso del termine di gg.120, previsto dallo stesso comma 5° ai fini del pagamento della prestazione spettante, e quindi si deve ammettere senza indugio la facoltà della parte avente diritto di provvedere alla notifica del decreto di omologa. A partire dal giorno del perfezionamento della notificazione per l’ente ricevente, si apre il c.d spatium solvendi ai fini del pagamento della prestazione economica  spettante, rammentandosi tuttavia l’esistenza di azioni sorrette da interessi di carattere non economico che esulano da detta regola (ad es. accertamento di un’invalidità superiore al 74% ai fini della contribuzione  figurativa ex art.80 co.3 L.388/2000; accertamento di un’invalidità almeno del 46% ai fini dell’iscrizione negli
elenchi del collocamento mirato ex art.8 L.68/1999; etc.). In questo lasso temporale di gg.120 non è ben chiaro se sarà cura della parte interessata fornire all’ente la prova del possesso dei requisiti socio-economici prescritti ex lege ai fini dell’erogabilità delle prestazioni richieste. In proposito non si può fare a meno di richiamare l’art.15 della Legge 12.11.2011 n.183 (Legge di stabilità 2012) al comma 1° lett. c) che ha modificato il comma 1° dell’art.43 del DPR 28.12.2000 n.445 nei termini in cui «Le amministrazioni pubbliche e i gestori di pubblici servizi sono tenuti ad acquisire d’ufficio le informazioni oggetto delle dichiarazioni sostitutive di cui agli articoli 46 e 47, nonché tutti i dati e i documenti che siano in possesso delle pubbliche amministrazioni, previa indicazione, da parte dell’interessato, degli elementi indispensabili per il regolamento delle informazioni o dei dati richiesti, ovvero ad accettare la dichiarazione sostitutiva prodotta dall’interessato». Il periodo della norma debitamente evidenziato consente di spostare in capo all’Istituto l’onere dell’acquisizione di «tutti i dati e i documenti» necessari al pagamento delle prestazioni del caso.
Infatti, costituisce fatto notorio che l’Istituto sia non solo già in possesso dei dati e delle informazioni utili a tal fine, ma si trovi nella condizione di procurarseli ove mancanti (perché ad esempio trattasi di prima liquidazione) attingendoli direttamente da sistemi di banche dati pubbliche cui ha accesso diretto, a cominciare dall’anagrafe  tributaria, dall’anagrafe civile, sistemi previdenziali integrati, etc. Pertanto sembra corretto ritenere che debba essere l’istituto a procedere d’ufficio all’acquisizione dei dati occorrenti alla liquidazione per la messa in pagamento della prestazione spettante all’avente diritto, invitando semmai quest’ultimo ad integrare altro genere di informazioni non altrimenti reperite o per le quali sia necessaria un’assunzione di responsabilità del dichiarante. Infine, v’è da chiedersi come procedere nel caso in cui il competente ente, pur avendo verificato gli ulteriori requisiti, non provveda nel termine di gg.120 al pagamento della prestazione dovuta. Certo è che a rigore dell’art.474 cpc il decreto di omologa previsto dal coma 5 dell’art.445 bis cpc, pur rientrando generaliter nella categoria dei “provvedimenti”, non reca alcuna condanna e, quindi, non ha vocazione di titolo esecutivo, né potrebbe mai diventarlo in mancanza di una espressa attribuzione di efficacia esecutiva ope legis. Anche in tal senso si coglie una netta differenza con la procedura di cui all’art.696 bis cpc nella quale invece, a termini del comma 3°, è previsto che il giudice possa attribuire “efficacia di titolo esecutivo al processo verbale di conciliazione”. Pertanto appare consigliabile alla parte interessata ad ottenere il pagamento della prestazione, promuovere un giudizio di merito a scopo condannatorio dell’ente previdenziale, risultando la condizione di procedibilità già soddisfatta e non ripetibile, mentre dovrebbe porsi alcuni sani dubbi, peraltro non severamente preclusivi, circa la sussistenza dei presupposti di ammissibilità della tutela monitoria ex art.633 e ss cpc.

7.- MANCATO “ACCORDO” E MANCATA INTRODUZIONE (O RIPRESA) DEL GIUDIZIO DI MERITO.
Il comma 6° dell’art.445 bis cpc si apre con uno scenario opposto, ossia «nei casi di mancato accordo». Questa infelice espressione è forse frutto di una sottaciuta evocazione della conciliazione di cui all’art.696 bis cpc. Ma, a ben vedere, il procedimento dell’art.445 bis cpc non può prevedere “accordi” di tipo conciliativo, poiché l’oggetto della valutazione affidata al Ctu, ossia il requisito sanitario, non si presta ad un accordo alla stregua di beni o diritti disponibili. La parte può solo concordare tacitamente con la valutazione e con le conclusioni espresse dal Ctu, oppure contestarle «con atto scritto depositato in cancelleria» secondo quanto prescritto dal comma 4°. In quest’ultima ipotesi, «entro il termine perentorio di trenta giorni dalla  formulazione della dichiarazione di dissenso», la parte «deve depositare» avanti al medesimo giudice, da intendersi ovviamente come Ufficio, «il ricorso introduttivo del giudizio, specificando, a pena di inammissibilità, i motivi della contestazione». La formulazione del comma 6° vede come unico soggetto attivo la parte che abbia contestato le conclusioni del Ctu, escludendo del tutto un qualche ruolo del giudice. Con ciò evidenziandosi che il deposito della «dichiarazione di dissenso» chiude la fase dell’accertamento tecnico preventivo obbligatorio per cedere il passo eventuale al processo ordinario, senza che sia possibile o ammissibile una qualsiasi riapertura del procedimento medesimo.
Cosa accade se la parte che aveva tempestivamente depositato la propria dichiarazione di dissenso alle conclusioni della Ctu, poi non deposita tempestivamente o non deposita affatto il ricorso introduttivo del giudizio oppure il ricorso per riassunzione del processo di merito già pendente? È ovvio che il maturarsi del termine perentorio di gg.30 fissato dall’art.445 bis comma 6° cpc fa decadere la stessa parte dal deposito di un ricorso introduttivo del giudizio ovvero dal deposito dell’istanza di riattivazione di quello già pendente. Tuttavia anche in tal caso appare indispensabile distinguere due ipotesi. Se le conclusioni del Ctu in sede di accertamento tecnico obbligatorio siano sfavorevoli per l’istituto convenuto e da questi contestate con l’apposita dichiarazione di dissenso, senza tuttavia aver tempestivamente o per nulla introdotto (o riattivato se già pendente) il giudizio di merito, la parte ricorrente può iniziare un giudizio ordinario ex art.442 cpc (se si trattasse invece di riassumere quello già pendente e quiescente si rinvia a sub paragrafo n.3) al fine di domandare il riconoscimento dei propri diritti economici o non economici, sulla scorta delle conclusioni
dell’espletata Ctu in ordine alle condizioni sanitarie. A tal fine, potendo annoverarsi l’art.696 bis comma 5° cpc tra le previsioni compatibili richiamate dal 1° comma dell’art.445 bis cpc, è opportuno che la parte ricorrente chieda l’acquisizione della relazione depositata dal consulente (anzi detta richiesta dovrebbe essere già preventivamente contenuta nel ricorso ex art.445 bis cpc). Nell’altra ipotesi, se a decadere dall’instaurazione o dalla riattivazione (se già pendente) del giudizio di merito fosse la parte ricorrente, alla stessa sarebbe precluso, per effetto della decadenza di cui al comma 6° dell’art.445 bis cpc, di agire in sede di giudizio cognitorio ed in ogni caso di porre in discussione l’esito negativo dell’espletato accertamento tecnico preventivo. Infine, alla stessa conclusione si addiviene nell’ipotesi in cui entrambe le parti avessero dichiarato il proprio dissenso alle conclusioni del Ctu, per svariate ragioni, ma poi nessuna di esse avesse
instaurato o riassunto il giudizio di merito nel termine di gg.30 prescritto dal ridetto comma 6°.

8. – LA REINTRODOTTA INAPPELLABILITÀ DELLE SENTENZE NEI GIUDIZI CONSEGUENTI ALL’ATP OBBLIGATORIO.
In sede di conversione del Dl. 98/11, la legge n.111/11 aveva soppresso il comma 7° dell’art.445 bis cpc ove prevedeva l’inappellabilità delle sentenze  pronunciate nei giudizi conseguenti al procedimento per accertamento tecnico preventivo obbligatorio. A sorpresa la Legge 12.11.2011 n.183 (alias legge sulla stabilità 2012), all’art.27 comma 1° lett. f) ha ripristinato l’inappellabilità con la previsione, al comma 2°, che detta modifica ha vigore a decorrere dai trenta giorni successivi al 1° gennaio 2012 (ossia la data di entrata in vigore della stessa legge a norma del suo art.36). Anche in tal caso è dato rilevare un difetto di coordinamento
tra discipline dettate in tempi diversi, non essendosi avveduto il Legislatore che la vigenza del comma 7° in questione, differita al 1° febbraio 2012, genera una certa problematicità circa la sua applicabilità con riferimento ai giudizi introdotti da domande di merito depositate dopo il 1° gennaio e sino al 31.1.2012 oppure con riferimento ai ricorsi per ATP obbligatorio depositati nello stesso arco temporale.
Relativamente alla prima ipotesi occorre rammentare quanto detto circa l’ammissibilità di un ricorso di merito non preceduto dall’istanza per ATP obbligatorio (pur con la conseguenza della sua improcedibilità). In tal caso si potrebbe sostenere che per i ricorsi di merito così depositati tra il 2 ed il 31.1.2012 (litispendenza), e quindi nel breve lasso temporale in cui il suddetto comma 7° dell’art.445 bis cpc non era entrato in vigore, la  regola dell’inappellabilità ivi sancita non può trovare applicazione in coerenza con il principio generale tempus regit actum. Infatti, anche se detti ricorsi siano stati dichiarati improcedibili per consentire l’espletamento e la conclusione dell’ATP obbligatorio, la ripresa del processo, in dipendenza di contestazioni alla Ctu, lascia immutata la pendenza e con essa la disciplina a quel momento vigente ed applicabile alla fattispecie. Ne
consegue che le sentenze comunque emesse all’esito di giudizi introdotti dopo il 1° gennaio 2012 ed entro il 31 gennaio dello stesso anno, non dovrebbero soggiacere alla disposizione di cui al comma 7° (da ultimo reintrodotto) dell’art.445 bis cpc, e pertanto sono appellabili. Ad analoga conclusione di dovrebbe addivenire nell’altra ipotesi sopra anticipata, in riferimento a ricorsi per ATP ex art.445 bis cpc ritualmente presentati senza essere stati preceduti da ricorsi di merito. È vero ed indiscusso che il deposito del ricorso per ATP obbligatorio, per sua natura, non determina litispendenza, la quale può conseguire soltanto al deposito del ricorso di merito, ma è pur vero che, a termini del comma 6°, appare sussistere un rapporto di contiguità necessaria o di progressività obbligata tra il procedimento di verifica obbligatoria ed l’introduzione del giudizio. Conferma ne viene anche dalla previsione, in seno allo stesso articolo che disciplina un procedimento  ante causam, della inappellabilità delle sentenze emesse nel susseguente giudizio. L’evidenziata e singolare saldatura tra un procedimento ante causam obbligatorio ed un processo ordinario condizionato, induce a guardare all’una ed all’altra fase senza soluzione di continuità tra loro (e tale soluzione in effetti non sussiste, se le parti interessate vogliano far valere i motivi di contestazione alla Ctu nel giudizio di merito), con la conseguenza che, ai fini dell’applicazione della regola  tempus regit actum sancita dall’art.11 disp. prel. c.c., dovrebbe valere il momento del deposito del ricorso per ATP obbligatorio, quale atto processuale che immette alla condizione di procedibilità del giudizio di merito. La conclusione non cambia sia che si voglia intendere la regola tempus regit actum come tempus regit effectum, ossia nel senso del rispetto dei diritti acquisiti in virtù della norma vigente al momento del compimento di atti del procedimento, sia che si voglia intenderla come tempus regit factum, nel senso del rispetto delle conseguenze del fatto compiuto. V’è poi chi ha reinterpretato, sebbene dalla prospettiva del diritto pubblico, la regola in questione in termini tempus regit actionem, valorizzando l’idea che l’azione di innesco del procedimento, che va inteso in senso unitario, determina in quel momento la legge applicabile ad esso, anche se si risolva in attività sequenziali ricadenti in un sopravvenuta disciplina. A corroborare, d’altro canto, la teorizzata conclusione è d’uopo il richiamo al principio affermato dalla Consulta del legittimo affidamento delle parti nello svolgimento del processo, da intendersi lato sensu come qualsiasi procedimento di carattere giurisdizionale, secondo le regole vigenti
all’epoca del compimento dell’atto processuale di impulso. In ossequio ai suddetti principi si potrebbe, dunque, affermare che, allorquando la parte ricorrente si è conformata alla norma compiendo l’atto da essa prescritto, tra gli effetti giuridici che ne conseguono sul piano processuale v’è quello della fissazione ed applicazione ultrattiva della disciplina applicabile alla fattispecie, che resterà insensibile ed immune alla sopravvenienza di una norma la quale, in difetto di espresso carattere retroattivo, non potrà incedere sui diritti sorti in virtù della disposizione anteriore. Pertanto, alla stregua dei principi sin qui argomentati, si può trarre la
conclusione che in relazione ai ricorsi per ATP ex art.445 bis cpc depositati tra il 2 ed il 31.1.2012 ed ai giudizi (eventuali) di merito ad essi susseguenti, non sarebbe applicabile la disposizione di cui al comma 7° di inappellabilità delle sentenze che, stante la sua sopravvenuta vigenza e la mancata previsione di carattere retroattivo, non può incidere sul diritto acquisito della parte ricorrente all’impugnazione in appello ammessa dalla norma anteriore. Al di fuori di questa anomala ipotesi intertemporale, per tutti i giudizi di merito conseguenti a ricorsi per ATP obbligatorio promossi dopo dal 1° febbraio 2012, per effetto del reintrodotto
comma 7° dell’art.445 bis cpc, trova applicazione la regola della inappellabilità delle sentenze. L’uso del plurale «sentenze» assume senso se riferito sia a sentenze di rito, sia quelle di merito, a seconda degli scenari verificabili, come quelli esemplificati nei precedenti paragrafi. La disposizione, benché fortemente discussa, non lascia spazio a questioni di illegittimità costituzionale classicamente per contrasto con gli artt.3 e 24 Cost, in quanto, per un verso, nessuna norma della Carta costituzionale garantisce il doppio grado di merito nel processo civile e, per altro verso, rientra nel potere discrezionale del Legislatore escludere per talune categorie di cause il secondo grado di giudizio, come già da tempo è previsto in variegate discipline speciali. Anzi al riguardo si rivelano sempre attuali le considerazioni di certa dottrina sulla crisi del doppio grado di
giudizio di merito e sull’istituto dell’appello. Preso atto, dunque, che la garanzia del doppio grado della giurisdizione di merito non gode di copertura costituzionale generalizzata, la sentenza emessa all’esito dell’unico grado merito previsto dall’art.445 bis cpc sarà impugnabile esclusivamente con il ricorso  straordinario per cassazione ex art. 111 Cost., per violazione di legge, rispetto al quale deve però  rammentarsi, alla luce delle modifica introdotta dall’art. 2 D.lgs. 2.2.2006 n.40, l’allineamento con il ricorso ordinario in virtù dell’art.360 ultimo comma cpc. ai fini della uniformazione dei motivi di impugnazione. Ne deriva che l’attuale impugnazione straordinaria ex art.111 Cost. immette la Suprema Corte ad un sindacato della sentenza alla stregua di quello tipico del ricorso per cassazione ordinario.




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Le sanzioni per la mancata cooperazione in mediazione 
Mauro Bove (da www.judicium.it) 25.1.2012

Il dato normativo
Il d.lgs. n. 28 del 2010 ha, fin dalla sua versione originaria, voluto fondare un obbligo di cooperazione in mediazione, sia il relativo tentativo obbligatorio, per legge o per contratto, o meno.
Ciò emerge con evidenza dall’art. 8, 5° comma, in cui si stabilisce che solo un “giustificato motivo” può assolvere dall’obbligo di cooperare e si specifica, inoltre, che la mancata partecipazione alla mediazione senza quel giustificato motivo comporta la possibilità per il giudice di trarre argomenti di prova a carico di colui che appunto è risultato inadempiente a fronte del detto obbligo.
Questo quadro normativo originario è stato, poi, rafforzato, facendo così sempre più intendere che la mediazione è una scommessa sulla quale il legislatore nostrano ha voluto e vuole puntare per risolvere i problemi dell’inefficienza della giustizia statale. Combinando l’intervento dovuto al d.l. n. 138 del 2011, convertito con l. n. 148 del 2011, e quello contenuto nel d.l. n. 212 del 2011, attualmente il comma 5° del già citato art. 8 del d.lgs. n. 28 del 2010 così recita: «Dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell’articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile. Con ordinanza non impugnabile pronunciata d’ufficio alla prima udienza di comparizione delle parti, ovvero all’udienza successiva di cui all’articolo 5, comma 1, il giudice condanna la parte costituita che, nei casi previsti dall’articolo 5, non ha partecipato al procedimento senza giustificato motivo, al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio».
Così, oggi, alla mancata cooperazione in mediazione, senza un giustificato motivo, sono collegate due sanzioni, una economica ed una incidente sul merito della decisione della lite. Con la precisazione che i campi di applicazione delle due  sanzioni non coincidono. Invero, la prima sanzione, quella economica, opera solo per i casi in cui il tentativo è giuridicamente necessario, per legge (art. 5, 1° comma) o per l’assoggettamento ad esso che le parti possono scegliere per la via del contratto (art. 5, 5° comma), ovvero per i casi in cui, pur non essendovi un obbligo giuridico, tuttavia le parti si siano impegnate al tentativo,  accogliendo l’invito a loro rivolto dal giudice in questo senso (le c.d. mediazioni delegate di cui all’art. 5, 2° comma). Se, invece, il tentativo di mediazione era del tutto libero, resta unicamente la sanzione originariamente prevista nell’art. 8, 5° comma, ossia la possibilità per il giudice del processo successivo al fallimento della mediazione di trarre a carico della parte non collaborativa e priva di un giustificato motivo argomenti di prova.
Al di là della critica generale che si può rivolgere al legislatore, ossia quella di pensare che la media-concliazione possa essere un valido strumento di deflazione del carico di lavoro per il giudice statale, resta in questa sede la necessità di riflettere su alcuni profili tecnici che emergono dalle nuove disposizioni.


Il giustificato motivo
Il rinnovato dato normativo farà sicuramente tornare a discutere sul concetto di “giustificato motivo”, che può assolvere l’interessato dall’obbligo di cooperare, concetto la cui individuazione sarà ancora più importante. Non avendo ancora giurisprudenza sul punto, restano solo, al momento, le opinioni degli interpreti, che offrono diversi casi ipotizzabili. Se le parti hanno pattuito di svolgere un tentativo di mediazione prima dell’instaurazione della causa, è possibile che esse si siano anche accordate sul tipo di organismo a cui affidarsi e magari pure sull’ancoraggio territoriale. Ed, allora, evidentemente sarà giustificata la mancata partecipazione della parte che sia stata invitata dall’altra di fronte ad un tipo di organismo diverso da quello pattuito o di fronte ad un organismo collocato in un territorio diverso da quello prescelto. Così, se ad esempio le parti avevano prescelto l’organismo presso la camera di commercio di Firenze, è giustificata l’assenza di colui che si è visto invitare presso l’organismo degli avvocati fiorentini o presso l’organismo della camera di commercio di Bologna. Ciò, sempre che nella vicenda non sia accaduto qualcosa, dopo la stipula dell’accordo, che giustifichi quel cambiamento, qualcosa che fondi comunque la buona fede della parte non collaborativa e che comunque sta a questa provare.
Se, invece, nulla le parti abbiano previamente pattuito, l’individuazione del contenuto di quel concetto potrebbe essere difficoltosa. Ma, direi che è giustificata la mancata partecipazione  di chi ha ricevuto un invito in modi vessatori, ad esempio perché è stato indicato un organismo territorialmente lontano dalla piazza dell’affare. E giustificata direi è anche, ovviamente, la mancata partecipazione di colui che non ha avuto conoscenza della domanda di conciliazione, stando a colui che aveva preso l’iniziativa in mediazione provare poi, nell’ambito del processo, di aver fatto tutto ciò che doveva per far acquisire all’altro la dovuta conoscenza. Più dubbia, invece, può essere l’ipotesi della palese infondatezza della pretesa dell’istante: se non si può pretendere che la parte invitata si scomodi a fronte di pretese del tutto strampalate, non si può neanche affermare che la valutazione di manifesta infondatezza di questa parte possa in sé giustificarla nella sua inerzia. Qui starà ai giudici applicare con prudenza e particolare attenzione al caso concreto quel concetto giuridico indeterminato che troviamo nel detto “giustificato motivo”. Ma, se quelle appena accennate sono dispute già note agli interpreti, qualcosa di più si deve dire in questo contesto su alcuni profili tecnici attinenti alla detta valutazione. È certo che l’eventuale valutazione che del giustificato motivo per la mancata partecipazione in mediazione abbia, in ipotesi, svolto il mediatore non ha alcun valore per il giudice del processo instaurato successivamente al fallimento del tentativo di mediazione. Sta solo al giudice svolgere la detta valutazione. Ma, può emergere una complicazione per il fatto che la stessa valutazione sta al fondo di due conseguenze, diciamo “sanzioni” diverse: la prima consistente in una sanzione economica e la seconda operante sul piano della decisione nel merito della causa, potendo il giudice trarre argomenti di prova a carico della parte che non abbia cooperato senza un giustificato motivo. Inoltre, le complicazioni possono emergere anche dal fatto che le dette valutazioni sembrano inevitabilmente collocarsi in momenti diversi del processo.
Così emergono diverse domande: la valutazione fatta al fine di irrogare la sanzione economica condiziona o addirittura vincola il giudice in ordine al secondo profilo? Vi sono possibilità di riemersione della questione nelle fasi di gravame?


La sanzione economica
La prima sanzione in cui incapperà la parte poco collaborativa in mediazione sarà la condanna a pagare allo Stato una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio. Qui emergono innanzitutto due indicazioni abbastanza univoche. La prima: che il giudice non ha alcun potere discrezionale in ordine all’irrogazione della detta sanzione. Il giudice ha certo uno spazio di valutazione (Beurteilungsspielraum) nell’interpretazione ed applicazione del concetto di “giustificato motivo”, essendo questo ovviamente un concetto giuridico indeterminato. Ma, una volta che il giudice si sia convinto della mancanza di quel giustificato motivo e, quindi, della sussistenza di una situazione di mancata cooperazione ingiustificata, egli deve senza dubbio irrogare la sanzione. La seconda: che la condanna è prevista a carico della parte costituita e non anche della parte contumace. Ora, se la prima indicazione a me sembra opportuna, perché sarebbe stato poco tranquillizzante affidarsi ad un’ulteriore valutazione del giudice,  il quale, dovendosi magari destreggiare nell’individuare motivi ingiustificati più gravi e meno gravi, per irrogare la sanzione nel primo caso e non anche nel secondo, avrebbe in realtà finito per utilizzare un potere praticamente arbitrario, la seconda indicazione non pare ragionevole. Invero, non si capisce perché la parte che non ha collaborato alla mediazione e neanche al processo debba salvarsi dalla sanzione, mentre ne finisca assoggettato chi, dopo avere scelto di non partecipare alla mediazione, abbia poi deciso di partecipare attivamente al processo. Né si può dire che era ragionevole sanzionare solo la parte che si mostra interessata alla lite costituendosi in giudizio, perché la mancata costituzione nel nostro sistema ha anzi la valenza di una ficta contestatio e non di un abbandono della lite, che in sé porti alla sconfitta. La disposizione di nuova introduzione ci dice, poi, che la sanzione è irrogata d’ufficio alla prima udienza di comparizione ovvero all’udienza fissata  dal giudice per consentire che si dia corso al dovuto tentativo di mediazione, dopo che questi abbia rilevato (d’ufficio o su eccezione di parte) che ci si trova in una delle ipotesi di cui al primo comma dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, aggiungendo che il provvedimento  è assunto con ordinanza non impugnabile. Il primo problema che si pone attiene all’individuazione di chi è legittimato a porre la questione ed al correlato problema relativo al momento in cui è pronunciabile la relativa ordinanza. Si potrebbe sostenere che, consistendo la sanzione in un pagamento a favore delle casse dello Stato, la relativa questione possa essere posta solo dal giudice, quand’anche sulla base di quanto risulta dagli atti del processo, e non anche da una parte. In tal caso si potrebbe anche aggiungere che la relativa ordinanza non potrebbe che essere pronunciata in prima udienza, essendo impossibile pronunciarla in un momento successivo. Ma, se non si sposa questa prospettiva, come a me sembrerebbe più ragionevole, si deve dire, al contrario che la detta questione può essere posta anche dalla parte che sia stata diligente in mediazione. Ed, allora, non si può più sostenere che la relativa ordinanza possa essere pronunciata solo in prima udienza, dovendo essere al riguardo più cauti. Se si parte dall’idea che la questione può essere posta anche dalla parte interessata, la norma va intesa nel senso che è stato attribuito al giudice il potere di provvedere immediatamente, ma non anche nel senso che quel potere si perde dopo la prima udienza. Del resto, se così non fosse, la parte che avesse posto la questione senza avere avuto una risposta dal giudice nella prima udienza, perderebbe con ciò il diritto ad una risposta, il che sarebbe assurdo! Quindi, in sintesi, il giudice può provvedere alla prima udienza. Ma, se egli non provvede alla prima udienza, l’ordinanza può essere pronunciata anche in un momento successivo. Se, poi, l’ordinanza non è stata pronunciata neanche in un momento successivo, la parte che abbia posto  la questione senza avere avuto una risposta potrà sempre coltivare la questione in appello lamentando l’omessa pronuncia del giudice di primo
grado. Si potrebbe criticare questo ragionamento sostenendo che, se la parte può suggerire al giudice l’irrogazione della sanzione, essa, però, non ha un potere processuale in tal senso, essendo la sanzione prevista solo nell’interesse generale e non anche nel suo interesse personale. Ma io direi che, se è vero che la sanzione in parola è stata concepita nell’interesse generale del buon funzionamento della giustizia, non si può negare che ragioni di effettività dell’attuazione di codesto interesse suggeriscono, anzi, di riconoscere alle parti veri poteri processuali e, quindi, anche il potere di contestare il mancato esercizio del relativo potere di irrogazione in capo al giudice. Aggiunge la norma che il giudice provvede con ordinanza non impugnabile. Qui emerge il problema più grave di tutta la disposizione, problema a fronte del quale l’interprete deve fare un scelta di fondo sul modo d’intendere il senso dell’art. 177, 3° comma, n. 2) c.p.c. Invero, delle due l’una: o la detta espressione significa che, una volta pronunciata l’ordinanza, sulla questione il giudice non potrà tornare in alcun modo ed in alcuna forma oppure si ritiene che, al contrario, la pronuncia dell’ordinanza non impugnabile implica l’impossibilità per il giudice di modificare o revocare l’ordinanza, ma non anche l’impossibilità di rivedere il contenuto dell’ordinanza in sede di pronuncia della sentenza finale.
Se si accoglie la prima prospettiva, se ne deve ricavare che:
a) il giudice deve avere più cura nell’istruire i fatti relativi alla questione che è decisa con ordinanza,
b) l’interessato può proporre ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111, 7° omma, Cost. ove l’ordinanza incida su diritti soggettivi,
c) vi può essere un conflitto logico tra l’ordinanza e la sentenza finale ove il giudice valuti diversamente un medesimo presupposto.
Se si accoglie la seconda prospettiva, se ne deve ricavare che:
1) il giudice svolge un accertamento dei presupposti di fatto relativi alla questione che è decisa con ordinanza con atteggiamento più “leggero”, perché poi potrà avvalersi delle risultanze del processo,
2) non vi è mai spazio per un ricorso per cassazione, posto che la questione è rivedibile con la sentenza finale,
3) non si creerà mai un conflitto logico tra ordinanza e sentenza, perché il giudice esprimerà un solo giudizio finale nella sentenza.
Con tutti i dubbi che l’interprete può avere a fronte di una questione tanto spinosa, a me sembra più ragionevole la prima prospettiva, perché la seconda in pratica toglierebbe molta della forza contenuta nel disposto di cui al citato art. 177 c.p.c., quando si individuano le ordinanze non impugnabili. È vero che, in linea di principio, la differenza tra la decisione di una questione con ordinanza e la decisione con sentenza sta proprio nel fatto che solo assumendo il provvedimento la forma della sentenza il giudice si spoglia del potere di tornare sulla medesima questione, restando solo il potere del giudice dell’impugnazione investito della questione secondo le regole appunto dei mezzi d’impugnazione. Ma è anche vero, o almeno così a me sembra, che quando la legge qualifica un’ordinanza come non impugnabile, si ha una sorta  di eccezione a quel principio: il giudice, quando è chiamato a decidere con un’ordinanza non impugnabile, si spoglia della questione decisa, senza poterla rivedere con la pronuncia della sentenza finale. Se così stanno le cose, tornando al nostro caso, si deve dire che il giudice deve innanzitutto accertare nel caso concreto i fondamenti di fatto del concetto di “giustificato motivo”. Quindi, egli decide con un provvedimento sul quale non si può più tornare in seguito: non con un’altra ordinanza, ma neanche con la sentenza finale. Ed, allora, non  mi sembra possibile escludere che il potere dell’interessato di proporre ricorso in cassazione ai sensi del citato art. 111 Cost.
Non solo: è anche possibile che si crei quel conflitto logico di cui parlavo. Ma per comprendere ciò, ci si deve occupare della seconda sanzione prevista dalla norma in commento.


Gli argomenti di prova
L’art. 8, 5° comma, del d.lgs. n. 28 del 2010, occupandosi della “contumacia” in mediazione, oltre alla già commentata sanzione economica, ha mantenuto l’originaria sanzione, prevedendo che dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione il giudice del successivo processo possa desumere argomenti di prova. In tal caso siamo veramente di fronte ad una situazione in cui il legislatore si è affidato all’arbitrio del giudice.
Ciò perché, a differenza di quanto abbiamo visto accadere per la sanzione economica, qui il giudice, oltre ad avere uno spazio di valutazione per accertare la sussistenza o meno del “giustificato motivo”, ha anche un potere discrezionale successivo, potendo egli, una volta che abbia, in ipotesi, accertato l’insussistenza del detto giustificato motivo, decidere se trarre o meno dal comportamento poco collaborativo della parte degli argomenti di prova a suo carico. Ma, anche perché non è del tutto chiaro quale sia la valenza degli argomenti di prova nel processo civile, restando la disputa tra coloro che ritengono che gli argomenti di prova non possano comunque da soli fondare la decisione e coloro che, invece, pensano il contrario, finendo, così, per far scadere il “prudente apprezzamento” di cui all’art. 116, 1° comma, c.p.c. ad un puro arbitrio del giudice.                              
Al di là di questi rilievi, che valevano anche prima degli interventi normativi del 2011 che ora ci troviamo a commentare, oggi si pone una questione ulteriore, ossia quella del rapporto tra l’ordinanza che abbia irrogato la sanzione economica di cui si è detto nel precedente paragrafo e questa ulteriore conseguenza relativa alla possibilità di trarre dal comportamento poco collaborativo di una parte in mediazione argomenti di prova a suo carico nel successivo processo. Ora, accettare l’idea che l’ordinanza con la quale si sia irrogata la sanzione economica, essendo qualificata dalla legge come non impugnabile, non è in alcun modo rivedibile, neanche nella sentenza finale, significa dire che il giudice che  abbia così deciso non può poi togliere al condannato la sanzione, ma non significa pure dire  che egli sia vincolato alla negazione di un giustificato motivo della mancata partecipazione in mediazione quando poi passa alla valutazione del materiale di causa. In altri termini, è perfettamente possibile che lo stesso giudice, convintosi alla prima udienza che il convenuto sia stato ingiustificatamente poco collaborativo in mediazione, cambi poi idea sul punto e così decida di non trarre a suo carico argomenti di prova. Pronunciata subito l’ordinanza in ordine alla sanzione economica, il giudice non può più ripensarci, ossia non può più eliminare quella sanzione. Ma egli non è vincolato al presupposto di quella ordinanza, ossia alla valutazione della sussistenza o meno del “giustificato motivo”, valutazione che, se è utile ad altri fini, può sempre essere rinnovata.
Non solo: si deve anche aggiungere che, se la valutazione in parola non è mai rivedibile in appello ove svolta ai fini dell’irrogazione della sanzione economica, essendo, si ripete, la relativa ordinanza “non impugnabile”, la stessa cosa non si può dire quando essa condiziona la soluzione della questio facti che fonda la decisione nel merito. Il giudice d’appello avrà, se investito del problema, il potere di rivedere quella valutazione. Ed anche la Corte di cassazione potrà farlo, ancorché nei limiti di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c., ossia andando a sindacare l’eventuale errore giuridico nell’interpretazione ed applicazione del concetto di “giustificato motivo”.
Insomma, avendo anticipato alla prima udienza la pronuncia dell’ordinanza, oltretutto “non impugnabile”, per irrogare una sanzione economica alla parte che non si sia mostrata collaborativa in mediazione, il legislatore ha voluto che la detta sanzione sia irrogata tempestivamente e senza possibilità di successivi ripensamenti. Ma egli ha anche costruito un sistema che potrebbe portare a delle discrasie. Invero, se il giudice dovesse in un momento successivo convincersi di aver commesso un errore nell’ordinanza pronunciata in prima udienza, egli potrà utilizzare il suo nuovo convincimento ai fini della decisione nel merito della lite, ma non anche per emendare il suo errore commesso in quella ordinanza.