31 maggio 2012

Locazione uso non abitativo - autorizzazioni e responsabilità del locatore

"Ed invero, secondo l'orientamento di questa Corte, nei contratti di locazione relativi ad immobili destinati ad uso non abitativo, grava sul conduttore l'onere di verificare che le caratteristiche del bene siano adeguate a quanto tecnicamente necessario per lo svolgimento dell'attività che egli intende esercitarvi, nonchè al rilascio delle necessarie autorizzazioni amministrative; ne consegue che, ove il conduttore non riesca ad ottenere tali autorizzazioni, non è configurabile alcuna responsabilità per inadempimento a carico del locatore, e ciò anche se il diniego sia dipeso dalle caratteristiche proprie del bene locato. (Cass. n. 1735/2011, n. 13395/07, n. 5836/07). Ed invero, stipulato un contratto di locazione di un immobile destinato a uso non abitativo, grava sul conduttore l'onere di verificare che le caratteristiche del bene siano adeguate a quanto tecnicamente necessario per lo svolgimento della divisata attività e al rilascio delle autorizzazioni amministrative indispensabili alla legittima utilizzazione del bene locato (confr. Cass. civ. 30 aprile 2005, n. 9019, Cass. civ. 31 marzo 2008n.8303)."

Cass. civ. Sez. III, Sent., 29-05-2012, n. 8561

Indennità per la perdita dell'avviamento commerciale e studio medico

"Il criterio cui va dunque improntata la soluzione del problema relativo alla qualificazione come commerciale o professionale dell'attività svolta in un immobile, da cui dipende la spettanza o no al conduttore dell'indennità per la perdita dell'avviamento commerciale di cui alla L. n. 392 del 1978, art. 34 (che l'art. 35 esclude per gli immobili destinati, tra l'altro, all'esercizio di attività professionali), è quello della prevalenza del tipo di attività esercitata. E ciò quand'anche quell'attività sia imprenditoriale e sia esercitata in forma societaria, com' è stato chiarito con dovizia di argomenti da Cass., n. 8291/1992.


Ma il collegare il giudizio di prevalenza dell'attività medica su quella organizzativa al rilievo che, in una clinica privata, se non vi fosse esercizio di attività medica, l'organizzazione imprenditoriale perderebbe la sua funzione, è giuridicamente errato in quanto l'assunto è sempre vero ed è pertanto tale da impedire quella valutazione comparativa che la norma (intesa come risultato dell'interpretazione di una disposizione di legge) impone e che la Corte d'appello ha ritenuto di dover compiere.


Viene invece in rilievo la consistenza degli elementi di supporto che sono volta a volta apprestati in funzione dell'esercizio dell'attività medica, da quelli burocratici a quelli tecnici, che in una casa di cura privata appaiono solitamente prevalenti, anche in considerazione del fatto che la direzione della clinica è in grado di scegliere il personale medico e paramedico di cui avvalersi, sicchè tendenzialmente difetta quell'intuitus personae costituente la ratio della deroga posta dalla L. n. 392 del 1978, art. 35 per quanto concerne le attività professionali. L'indennità per la perdita dell'avviamento commerciale non potrà essere dunque ordinariamente disconosciuta, a meno che non sia dato di ritenere che, per particolarissime ragioni, l'inserimento funzionale dell'immobile nell'attività di impresa non fosse in concreto suscettibile di influire sul volume degli affari realizzato."

Cass. civ. Sez. III, Sent., 29-05-2012, n. 8558

Giustizia Amministrativa



Quid iuris se chi agisce in giudizio è un soggetto privo di poteri rappresentativi?

Sulla possibilità o meno di sanare il vizio che ricorre nell'ipotesi in cui chi agisce in giudizio in nome e per conto di un ente sia privo dell'effettiva rappresentanza dello stesso.

T.A.R. / T.A.R. Lazio - Roma / Sentenza 25 maggio 2012 da NORMA

Giustizia Amministrativa - Ottemperanza ed Equitalia



Giudizio di ottemperanza nei confronti di Equitalia: può quest'ultima essere equiparata alla pubblica amministrazione?

Sulla nozione di pubblica amministrazione ex articolo 7, comma 2 del C.p.a. e sulle condizioni per l'equiparazione.

T.A.R. / T.A.R. Campania - Napoli / Sentenza 29 maggio 2012 da NORMA

30 maggio 2012

Condominio - ricognizione di debito - atto di volizione dell'assemblea

"Su analoga tematica questa sezione ha avuto modo di stabilire che "La deliberazione dell'assemblea di condominio che procede all'approvazione del rendiconto consuntivo emesso dell'amministratore ha valore di riconoscimento di debito solo in relazione alle poste passive specificamente indicate; pertanto, ove il rendiconto - che è soggetto al principio di cassa - evidenzi un disavanzo tra le entrate e le uscite, l'approvazione dello stesso non consente di ritenere dimostrato in via di prova deduttiva, che la differenza sia stata versata dall'amministratore con denaro proprio, poichè la ricognizione di debito richiede un atto di volizione, da parte dell'assemblea si un oggetto specifico posto all'esame dell'organo collegiale" (sent. n. 10153/11). Il secondo motivo, che del pari non indica quale norme di diritto sia stata violata, risolvendosi in censure di puro merito, non scalfisce la corretta argomentazione della sentenza impugnata, che, nel ritenere non sufficiente la sottoscrizione del verbale di consegna tra il vecchio ed il nuovo amministratore, menzionante una situazione di cassa contenente un passivo in relazione ad anticipazione di pagamenti ascritte al primo, ad integrare una ricognizione di debito da parte del condominio, risulta sostanzialmente in linea con il principio già affermato, in un precedente in termini, da questa Corteo dal presente collegio condiviso, secondo cui "il nuovo amministratore di un condominio, se non autorizzato dai partecipanti alla comunione, non ha il potere di approvare incassi e spese condominiali risultanti dai prospetti sintetici consegnatigli dal precedente amministratore e pertanto l'accettazione di tali documenti non costituisce prova idonea del debito nei confronti di quest'ultimo da parte dei condomini per l'importo corrispondente al disavanzo tra le rispettive poste contabili, spettando invece all'assemblea dei condomini approvare il conto consuntivo, onde confrontarlo con il preventivo ovvero valutare l'opportunità delle spese affrontate d'iniziativa dell'amministratore". (sent. n. 5449/99) Irrilevanti risultano, pertanto, le circostanze che il nuovo amministratore, all'epoca del passaggio delle consegne, fosse già stato immesso nell'esercizio delle proprie funzioni ed in grado di rendersi conto della situazione debitoria del condominio, conoscenza che, quand'anche seguita dalla ricezione della documentazione consegnatagli dal precedente amministratore, comunque non avrebbe potuto equivalere al riconoscimento della effettiva sussistenza del credito esposto in tali atti."

Cass. civ. Sez. II, Sent., 28-05-2012, n. 8498

Timbro del pubblico ufficio - fede sulla data - querela di falso

"Quanto al secondo motivo, ha osservato, in proposito, il tribunale che "per aversi data certa ex art. 2704 c.c. rilevante ai fini della determinazione della anteriorità alla dichiarazione di fallimento di un atto originario di obbligazioni da porsi a carico della società fallita, occorre che il timbro sia collocato in guisa da sormontare la firma per accettazione della proposta mentre, nella fattispecie, il timbro è collocato soltanto sulla proposta, quindi semmai potrebbe conferire data certa ad essa, ma non al contratto (proposta ed accettazione). Consegue che, quanto alla valenza in sè del timbro per auto prestazione, come correttamente riportato da parte opposta, il timbro apposto dall'addetto alle Poste, ai sensi del D.Lgs. 22 luglio 1999, n. 261, art. 8, non è idoneo a provare la certezza della data (che è presunta relativamente ai fatti ai quali la legge tipicamente la riconduce e elencati nella prima parte dell'art. 2704 c.c.) poichè in tale ipotesi il plico è presentato alle Poste in guisa che l'addetto non ha la possibilità di verificarne il contenuto (rectius: di attestarlo). Si osserva a tale proposito che la giurisprudenza di legittimità, nell'affrontare la questione del rilievo, ai fini di cui si trattai, del timbro postale apposto per auto prestazione su di un documento, non estende il giudizio al concreto significato (e non avrebbe potuto trattandosi di questione di merito) della specifica modalità di apposizione del timbro, sicchè non può precludersi tale giudizio al giudice del merito laddove si ponga mente al fatto che, come si è detto, l'apposizione del timbro postale non rientra tra i fatti cui tipicamente si ricollega la data certa ex art. 2704 c.c....". 


La censura è fondata perchè la decisione impugnata è in contrasto con il principio giurisprudenziale secondo il quale "in tema di efficacia della scrittura privata nei confronti dei terzi, se la scrittura privata non autenticata forma un corpo unico con il foglio sul quale è impresso il timbro, la data risultante da quest'ultimo deve ritenersi data certa della scrittura, perchè la timbratura eseguita in un pubblico ufficio deve considerarsi equivalente ad un'attestazione autentica che il documento è stato inviato nel medesimo giorno in cui essa è stata eseguita. Grava sulla parte che contesti la certezza della data di provare la redazione del contenuto della scrittura in un momento diverso; a tal fine basta la prova contraria non occorrendo far ricorso alla querela di falso" (Sez. 1, Sentenza n. 13912 del 14/06/2007; tra le altre, Cass. 23 aprile 2003 n. 6472; 1 ottobre 1999 n. 10873; Sez. 1, Sentenza n. 21814 del 11/10/2006, fattispecie nella quale la corte territoriale ha accertato che "il modulo a stampa" costitutivo della fideiussione recava impresso sul retro della terza pagina il timbro postale con data, ma ha negato rilevanza a questa circostanza perchè la volontà negoziale era espressa nelle prime due pagine, le quali potrebbero essere state riempite solo successivamente al timbro medesimo. La S.C. ha cassato)."

Cass. civ. Sez. I, Sent., 28-05-2012, n. 8438

Collegio dei Probiviri e l’azione giudiziaria del socio escluso dalla compagine

"Quanto alla mancata impugnazione da parte dei soci esclusi nei riguardi del provvedimento reso su loro ricorso dal Collegio dei Probiviri, questa Corte ha già più volte affermato (cfr. ex multis Cass. n. 17245/02) che la clausola statutaria prevedente la facoltà dei soci di ricorrere al Collegio dei Probiviri - salva l'ipotesi, non specificamente dedotta nè tantomeno dimostrata dalla ricorrente, che con essa si attribuiscano a tale organo le funzioni di un vero e proprio collegio arbitrale - appresta solo un rimedio endosocietario diretto a prevenire una controversia, sì che: i) l'essersi avvalsi di tale facoltà non preclude ai soci il ricorso all'autorità giudiziaria; ii) il provvedimento emesso dal Collegio dei Probiviri non è autonomamente impugnabile, avendo il solo effetto di rendere le delibere adottate dagli altri organi societari definitive, e come tali impugnabili, ove naturalmente non siano state già impugnate, come nella specie avvenuto. Giova infatti evidenziare che il principio secondo cui il procedimento di esclusione si perfeziona con la determinazione del Collegio è affermato dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. n. 7529/97; n. 11402/04; n. 17337/08) onde consentire al socio escluso di attendere sino alla emissione di tale determinazione per impugnare la delibera (nel senso di protrarre sino a tale momento la decorrenza del relativo termine), non già di precludergli una impugnazione nelle more, come per l'appunto nella specie avvenuto."

Cass. civ. Sez. I, Sent., 28-05-2012, n. 8429

Giustizia Amministrativa - ottemperanza all'equa riparazione



Ottemperanza all'equa riparazione: sulla legittimazione passiva non ci sono più dubbi!

Il T.A.R. Lecce spiega perché unico legittimato passivo, nel giudizio di ottemperanza dei Decreti di condanna ex Legge Pinto, è il Ministero della Giustizia, senza ulteriori oneri di notifica in capo alla parte privata.

T.A.R. / T.A.R. Puglia - Lecce / Sentenza 23 maggio 2012 da NORMA

29 maggio 2012

Adempimento dell'obbligazione pecuniaria con un altro sistema di pagamento e rifiuto del creditore

"Con l'unico motivo di ricorso, è dedotta la violazione degli artt. 1277 - 2730 c.c., in riferimento all'art. 360 c.p.c., n. 3; è dedotto altresì error in procedendo, con riferimento all'art. 360 c.p.c., n. 4, per violazione dell'art. 112 c.p.c.. Assume la ricorrente che erroneamente la Corte capitolina avrebbe ritenuto che l'invio dell'assegno postale di lire 5.032.057 avrebbe estinto l'obbligazione nei confronti dell'avv. T., dal momento che risulta che l'assegno non venne mai incassato, ma venne restituito alla debitrice perchè ritenuto incongruo; aggiunge che anche il secondo assegno emesso da Poste Italiane S.p.A. in suo favore non venne mai posto all'incasso. Data tale situazione, la ricorrente deduce che, anche a voler ritenere contrario a buona fede il rifiuto del/i pagamento/i offerti dalla debitrice, si dovrebbe ritenere comunque persistente il diritto di credito dell'avv. T., quanto meno per la sorte capitale (essendosi invece caducati il diritto agli interessi di mora, nonchè il diritto alle spese di precetto e pignoramento); e pertanto si dovrebbe ritenere legittima l'azione espropriativa intrapresa dalla stessa creditrice al solo fine di ottenere il pagamento della sorte capitale.


Il motivo è infondato


Non sussiste il contrasto di giurisprudenza paventato in ricorso, in particolare con riferimento alle statuizioni di questa Corte a Sezioni Unite sopra menzionate: non è condivisibile l'assunto della ricorrente secondo cui con la prima delle decisioni si sarebbe affermato che tra gli strumenti legali di estinzione delle obbligazioni pecuniarie non rientri l'assegno bancario e con la seconda, invece, si sarebbe affermata l'efficacia solutoria di quest'ultimo. Piuttosto, nè l'una nè l'altra hanno ritenuto l'immediata efficacia estintiva dell'obbligazione, con effetto liberatorio per il debitore, del pagamento con assegno circolare (Cass. S.U. n. 26617/07) o bancario (Cass. n. 13658/10), ma entrambe hanno concluso nel senso che il solo fatto dell'adempimento da parte del debitore, della propria obbligazione pecuniaria con un altro sistema di pagamento (ovverossia di messa a disposizione del valore monetario spettante)- sistema che comunque assicuri ugualmente la disponibilità della somma dovuta - non legittima affatto il creditore a rifiutare il pagamento stesso essendo all'uopo necessario che il rifiuto sia sorretto anche da un giustificato motivo , che il creditore deve allegare ed all'occorrenza anche provare (secondo quanto si legge nella sentenza a S.U. del 2010, che, in motivazione, dichiaratamente richiama i principi già espressi dalla sentenza a S.U. del 2007)."

Cass. civ. Sez. VI, Ord., 25-05-2012, n. 8374


Validità della clausola di diseredazione

"...l'argomento dirimente per escludere la ammissibilità nel nostro ordinamento di una clausola testamentaria di contenuto esclusivamente negativo, quale, appunto, la clausola di diseredazione che manifesti la volontà del testatore di escludere un successibile, senza che sia possibile individuare una volontà positiva, sia pure implicita, di chiamare altri alla sua successione, è quello desunto dal contenuto e dalla portata degli artt. 587 e 588 c.c..


La lettura delle citate disposizioni offerte nei precedenti di questa Corte deve essere rivista e superata alla luce delle seguenti considerazioni.


Ai sensi dell'art. 587 c.c., comma 1, il negozio di ultima volontà ha la funzione di consentire al testatore di disporre di tutte le proprie sostanze, o di parte di esse, per il tempo in cui avrà cessato di vivere. Con una tale definizione, il legislatore sembra accogliere la natura essenzialmente patrimoniale dell'atto di ultima volontà. Le disposizioni testamentarie di carattere non patrimoniale (art. 587 c.c., comma 2), che la legge permette siano contenute in un atto privo di disposizioni di carattere patrimoniale purchè abbia la forma del testamento, condividono, invece, con il negozio di ultima volontà solo il tratto formale, ma non quello sostanziale, legittimando di conseguenza l'applicazione di un diverso regime (si pensi all'irrevocabilità, che è generalmente incompatibile con il contenuto tipico del testamento).


Peraltro, dal rilievo che la disposizione testamentaria tipica abbia contenuto patrimoniale, non discende la conseguenza che il testamento, per essere tale, debba avere necessariamente una funzione attributiva. L'articolato sistema delineato dal legislatore permette che il fenomeno devolutivo dei beni e l'individuazione degli eredi e dei legatari possano trovare indistintamente fondamento sia nella legge che nella volontà del testatore. Nel nostro ordinamento, la possibilità di un'attribuzione di beni per testamento, che genera un fenomeno vocativo legale, convive con quella, inversa, di un'istituzione per testamento di eredi, che genera la devoluzione legale dell'asse (o di una sua quota). Una simile convivenza, poi, non può che essere confermata dall'art. 457 c.c., che riconosce farsi luogo alla successione legittima, quando manca in tutto o in parte quella testamentaria, smentendosi dunque una gerarchia di valore tra le due forme del regolamento successorio, e dovendosi invece ricondurre il concorso tra le due vocazioni ad un rapporto di reciproca integrazione.


I richiamati precedenti hanno inteso riconoscere l'ammissibilità di una volontà di diseredazione ove in essa si ravvisi o una disposizione principale attributiva, esplicitamente o implicitamente presupposta, della quale la volontà del testatore è una modalità di esecuzione (Cass. n. 1458 del 1967), o un'implicita istituzione di tutti gli altri successibili non diseredati, volontà che non si presume ma va provata (Cass. n. 6339 del 1982; Cass. n. 5895 del 1994). Quest'ultimo orientamento ammette la clausola di diseredazione solo se fondata sull'equivalenza tra l'esclusione e l'istituzione implicita di altri.


Tuttavia, se si riconosce che il testatore possa disporre di tutti i suoi beni escludendo in tutto o in parte i successori legittimi, non si vede per quale ragione non possa, con un'espressa e apposita dichiarazione, limitarsi ad escludere un successibile ex lege mediante una disposizione negativa dei propri beni. Invero, escludere equivale non all'assenza di un'idonea manifestazione di volontà, ma ad una specifica manifestazione di volontà, nella quale, rispetto ad una dichiarazione di volere (positiva), muta il contenuto della dichiarazione stessa, che è negativa.


Per diseredare non è quindi necessario procedere ad una positiva attribuzione di beni, nè - sulla scorta dell'espediente che escludere è istituire - alla prova di un'implicita istituzione.


In sostanza, la clausola di diseredazione integra un atto dispositivo delle sostanze del testatore, costituendo espressione di un regolamento di rapporti patrimoniali, che può includersi nel contenuto tipico del testamento: il testatore, sottraendo dal quadro dei successibili ex lege il diseredato e restringendo la successione legittima ai non diseredati, indirizza la concreta destinazione post mortem del proprio patrimonio. Il "disporre" di cui all'art. 587 c.c., comma 1, può dunque includere, non solo una volontà attributiva e una volontà istitutiva, ma anche una volontà ablativa e, più esattamente, destitutiva. Altre volte, d'altronde, il nostro legislatore ha concepito disposizioni di contenuto certamente patrimoniale, che non implicano attribuzioni in senso tecnico e che possono genericamente farsi rientrare nella nozione di "atto dispositivo" del proprio patrimonio ex art. 587 c.c., comma 1, avendo utilizzato il termine "disposizione" nel senso riferito in questa sede (in materia di dispensa da collazione, di assegno divisionale semplice, di onere testamentario, di ripartizione dei debiti ereditari, di disposizione contraria alla costituzione di servitù per destinazione del padre di famiglia, di disposizione a favore dell'anima e di divieti testamentari di divisione).


Le varie ipotesi in cui l'attività dispositiva possa manifestarsi sono tutelate dall'ordinamento purchè non contrastino con il limite dell'ordine pubblico: ogni disposizione patrimoniale di ultima volontà, anche se non "attributiva" e anche se non prevista nominatim dalla legge, può dunque costituire un valido contenuto del negozio testamentario, solo se rispondente al requisito di liceità e meritevolezza di tutela, e se rispettosa dei diritti dei legittimari.


L'ammissibilità della clausola diseredativa, quale autonoma disposizione negativa, appare, infine, in linea con l'ampio riconoscimento alla libertà e alla sovranità del testatore compiuto dal legislatore, che in altri ambiti del diritto successorio ha ammesso un'efficacia negativa del negozio testamentario:  nell'ambito del contenuto patrimoniale del testamento, non solo il testatore può ben gravare il proprio erede di una hereditas damnosa, ma può escludere il legittimario dalla quota disponibile, sia mediante l'istituzione nella sola quota di legittima, sia mediante il legato sostitutivo previsto dall'art. 551 c.c.; il testatore può inoltre modificare le norme che la legge pone alla delazione successiva, escludendo l'operatività del diritto di rappresentazione a favore dei pro-pri congiunti con la previsione di più sostituzioni ordinarie o, addirittura, con un'esclusione diretta.


In conclusione, deve in proposito, e in risposta al quesito di diritto formulato dai ricorrenti principali a conclusione del secondo motivo di ricorso, affermarsi il seguente principio di diritto: "E' valida la clausola del testamento con la quale il testatore manifesti la propria volontà di escludere dalla propria successione alcuni dei successibili". Applicando tale principio al caso di specie, deve accogliersi il secondo motivo del ricorso principale, dovendosi considerare valida la clausola del testamento di S.I. volta a diseredare alcuni dei successori legittimi, trattandosi di non legittimari."

Cass. civ. Sez. II, Sent., 25-05-2012, n. 8352

Giustizia Amministrativa



Diniego dell'approvazione governativa per la nomina a ministro di culto

Fino a quando l'Intesa del 4.4.2007 firmata dall'U.B.I. - Unione Buddista Italiana - non verrà tradotta in Legge determinando la cessazione degli effetti della Legge del 1929, è quest'ultima che racchiude la disciplina dell'istituto dell'approvazione della nomina a Ministro di culto "ammesso nello Stato" e non è, a tal riguardo, disapplicabile.

T.A.R. / T.A.R. Lazio - Roma / Sentenza 21 maggio 2012 da NORMA

Giustizia Amministrativa



Magistrati onorari: attenzione ad essere "puntuali" nel deposito delle sentenze!

E' legittimo il diniego, da parte del C.S.M., di conferma nell'incarico di magistrato onorario ove quest'ultimo abbia ritardato, in maniera non occasionale, nel deposito dei provvedimenti giurisdizionali?

T.A.R. / T.A.R. Lazio - Roma / Sentenza 16 maggio 2012 da NORMA

28 maggio 2012

Durata di una controversia avente ad oggetto l'accertamento della irragionevole durata di altro giudizio

"La Corte d'appello, sostengono le ricorrenti, sarebbe incorsa nella denunciata violazione di legge per avere affermato che la durata di una controversia avente ad oggetto l'accertamento della irragionevole durata di altro giudizio dovrebbe essere valutata alla stregua degli stessi parametri utilizzabili per la determinazione della durata ragionevole del processo presupposto. La erroneità di tale impostazione deriverebbe da quanto affermato dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo in alcune pronunce, che impedirebbero di considerare ancora attuale il principio affermato da Cass. n. 7688 del 2006. Infatti, la Corte Europea, secondo le ricorrenti, considera eccessiva la durata di undici mesi per un giudizio sulla ragionevole durata svoltosi in unico grado, mentre potrebbe ritenersi ancora ragionevole una durata di quattordici mesi per un giudizio svoltosi in due gradi.


La Corte d'appello avrebbe poi errato nell'espungere il termine lungo intercorso tra il deposito del provvedimento e la proposizione della impugnazione, avendo considerato valutabile ai fini della durata ragionevole solo un mese, pur se il termine per proporre il ricorso per cassazione è stabilito in sessanta giorni.


[...]


Il primo motivo del ricorso principale è fondato.


Ai fini della individuazione di quale sia la ragionevole durata di un giudizio di equa riparazione, che si sia svolto dinnanzi alla Corte d'appello e in sede di impugnazione dinnanzi a questa Corte, occorre procedere alla ricognizione della giurisprudenza della Corte Europea sul punto.


Nella sentenza 29 marzo 2006 della Grande Camera, nella causa Cocchiarella contro Italia, si è affermato che "il periodo di quattro mesi previsto dalla legge Pinto soddisfa il requisito di rapidità necessario perchè un rimedio sia effettivo. L'unico ostacolo a ciò può sorgere dai ricorsi per cassazione per i quali non è previsto un termine massimo per l'emissione della decisione.


Nel caso di specie, la fase giudiziaria è durata dal 3 ottobre 2001 al 6 maggio 2002, cioè sette mesi, che, pur eccedendo il termine previsto dalla legge, sono ancora ragionevoli" (par. 99).


Nella successiva decisione della Seconda Sezione 31 marzo 2009, causa Simaldone contro Italia (par. 29), si è invece ritenuta eccessiva una durata di un giudizio "Pinto", svoltosi in un solo grado dinnanzi alla Corte d'appello e protrattosi per undici mesi.


Nel caso deciso dalla Seconda Sezione il 22 ottobre 2010, causa Belperio e Ci armo li contro Italia, dopo aver dato atto del contenuto della sentenza Cocchiarella, si è ulteriormente precisato che la durata di un giudizio "Pinto" davanti alla Corte d'appello, inclusa la fase di esecuzione, salvo circostanze eccezionali, non deve superare un anno e sei mesi.


Da ultimo, nella decisione 27 settembre 2011 della Seconda Sezione, causa CE.DI.SA. Fortore s.n.c. Diagnostica Medica Chirurgica contro Italia, la Corte ha ritenuto che, in linea di principio, per due gradi di giudizio, la durata di un procedimento "Pinto" non debba essere, salvo circostanze eccezionali, superiore a due anni.


Nella giurisprudenza di questa Corte, si è invece ritenuto che la ragionevole durata del giudizio di equa riparazione previsto e disciplinato dalla L. n. 89 del 2001, vada determinata in mesi quattro dalla data del deposito del ricorso, coerentemente alla indicazione chiaramente desumibile dall'art. 3, comma 6, della medesima legge (Cass. n. 8287 del 2010).


Il Collegio ritiene che a tale orientamento non possa essere data continuità e che, rimandandosi alle singole fattispecie la valutazione della durata ragionevole di una procedura "Pinto" che si svolga solo dinnanzi alla Corte d'appello, ove, come nel caso di specie, venga in rilievo un giudizio "Pinto" svoltosi anche dinnanzi alla Corte di cassazione, la durata complessiva dei due gradi debba essere ritenuta ragionevole ove non ecceda il termine di due anni, ritenendosi tale termine pienamente compatibile con le indicazioni desumibili dagli ultimi approdi della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo e rispondente sia alla natura meramente sollecitatoria del termine di quattro mesi di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 3, comma 6, sia della durata ragionevole del giudizio di cassazione che, anche in un procedimento di equa riparazione, non è suscettibile di compressione oltre il limite più volte ritenuto ragionevole di un anno.


Orbene, tenuto conto che, nel caso di specie, il ricorso è stato depositato presso la Corte d'appello di Roma il 1 aprile 2005; che l'unico grado di giudizio di merito si è concluso con decreto depositato il 2 febbraio 2006; che il giudizio di cassazione è stato introdotto con ricorso notificato il 16 marzo 2007 ed è terminato con sentenza depositata il 22 dicembre 2009, la durata complessiva del procedimento è stata di circa quattro anni e nove mesi (57 mesi). Detratto il termine ragionevole, stimato due anni, nonchè il termine di circa undici mesi intercorso tra il deposito del decreto e la proposizione della impugnazione, ulteriore a quello legislativamente previsto per il ricorso per cassazione (Cass. n. 8287 del 2010, cit.), la durata non ragionevole risulta essere stata di un anno e dieci mesi.


Il primo motivo di ricorso va quindi accolto, con assorbimento del secondo motivo, inerente alla contraddittorietà della motivazione del decreto impugnato quanto alla non semplicità della definizione del giudizio di merito."

Cass. civ. Sez. VI, Sent., 24-05-2012, n. 8283

Cliente, promotore e intermediario: responsabilità e prova

"Riferì di aver stipulato nel dicembre del 1997 un contratto col quale aveva inteso affidare alla San Paolo Asset Management la gestione di un miliardo e trecento milioni di lire, da investire prevalentemente in titoli azionari, e di avere pertanto consegnato tale somma al sig. R., quale promotore finanziario della San Paolo Invest. Tanto l'una quanto l'altra società avevano però poi escluso di aver mai ricevuto notizia della stipulazione di tale contratto, e risultava che il sig. R. si fosse impadronito del denaro consegnatogli. L'attore perciò chiese che i convenuti, singolarmente o in solido, fossero condannati a risarcirlo del danno sofferto per la perdita della somma sopra indicata.


[...]


I limiti di ammissibilità della prova testimoniale stabiliti, con riferimento ai contratti, dall'art. 2721 c.c. e seg., non sono infatti riferibili ai meri fatti storici, sia pur connessi con la stipulazione di un contratto, bensì all'esistenza del contratto stesso (cfr., ex multis, Cass. 15 luglio 2009, n. 16538). Nel caso in esame non è però in discussione il fatto che il sig. E. avesse stipulato, per il tramite del promotore finanziario sig. R., un contratto d'investimento finanziario, bensì il fatto storico dell'avvenuta consegna a detto promotore della somma di denaro della quale quello si sarebbe poi appropriato. Fatto rilevante non ai fini dell'esistenza del contratto, ma per la dimostrazione del danno derivato dall'illecito imputabile a detto promotore e del quale, di conseguenza, anche la società preponente è stata chiamata a rispondere. La prova di quel fatto non trova dunque limite nell'invocata disposizione dell'art. 2721 c.c., e ciò rende irrilevante la circostanza che la corte d'appello non abbia espressamente motivato sul punto.


[...]


La giurisprudenza di questa corte ha chiarito che la mera allegazione del fatto che il cliente abbia consegnato al promotore finanziario somme di denaro con modalità difformi da quelle con cui quest'ultimo sarebbe legittimato a riceverle non vale, in caso d'indebita appropriazione di dette somme da parte del promotore, ad interrompere il nesso di causalità esistente tra lo svolgimento dell'attività del promotore finanziario e la consumazione dell'illecito, e non preclude, pertanto, la possibilità d'invocare la responsabilità solidale dell'intermediario preponente; nè un tal fatto può essere addotto dall'intermediario come concausa del danno subito dall'investitore in conseguenza dell'illecito consumato dal promotore, al fine di ridurre l'ammontare del risarcimento dovuto, perchè la richiamata normativa è destinata a tutelare gli interessi del risparmiatore e non può essere quindi interpretata nel senso che da essa derivi un onere di diligenza a carico del medesimo, la cui violazione gli sia addebitabile a titolo di colpa concorrente o esclusiva (cfr. Cass. 7 aprile 2006, n. 8229, e Cass. 24 luglio 2009, n. 17393).


Ad una diversa conclusione è dato pervenire soltanto qualora emerga la prova della collusione, o quantomeno della fattiva acquiescenza, del cliente alla violazione delle regole di condotta da parte del promotore (cfr. Cass. n. 17393/09, cit.), o comunque quando le circostanze del caso in esame siano tali da implicare che il dovere di comportarsi secondo buona fede e di non pregiudicare ingiustamente le ragioni dell'altro contraente avrebbe imposto al cliente di adottare maggiore diligenza, non prestandosi al compimento di operazioni anomale quando egli sia perfettamente a conoscenza, per personale e pluriennale esperienza, del complesso iter funzionale alla sottoscrizione dei programmi di investimento (cfr. Cass. 11 giugno 2009, n. 13529). Ma, perchè ciò accada, non è sufficiente la mera consapevolezza da parte dell'investitore della violazione delle regole di comportamento cui il promotore avrebbe dovuto attenersi per la tutela dei risparmiatori, occorrendo invece che i rapporti tra promotore ed investitore presentino connotati di anomalia, se non addirittura di connivenza o di collusione in funzione elusiva della disciplina legale; e spetta all'intermediario l'onere di provare che l'illecito sia stato consapevolmente agevolato in qualche misura dall'investitore (cfr. Cass. 19 marzo 2010, n. 6708), non potendo la collusione o la consapevole e fattiva acquiescenza del cliente all'illecito essere presunte sulla base della sola circostanza che l'equivalente pecuniario dell'investimento sia stato conferito con modalità difformi da quelle previste dal regolamento Consob (cfr. Cass. 25 gennaio 2011, n. 1741), ma essendo invece necessario che detta circostanza si accompagni con altri elementi significativi, quali ad esempio il numero e la ripetizione delle operazioni poste in essere con modalità irregolari, la durata nel tempo del rapporto tra investitore e promotore, il valore complessivo delle operazioni poste in essere, l'esperienza acquisita dal cliente nell'investimento in titoli finanziari, ed in particolare la sua conoscenza del complesso iter funzionale alla sottoscrizione di programmi di investimento (cfr. Cass. 24 marzo 2011, n. 6829).


Non può dirsi che, nel caso in esame, la corte d'appello abbia disatteso tali principi o ne abbia fatto cattiva applicazione.


[...]


E' poi appena il caso di aggiungere che l'eventuale violazione di norme pubblicistiche circa i limiti dell'uso del denaro contante nei pagamenti non assume rilievo alcuno in questa sede, trattandosi di norme dettate dall'ordinamento ad altri fini, la cui trasgressione non vale certo di per sè a dimostrare l'esistenza di una qualche intesa o di una qualche altra forma di connivenza tra cliente e promotore ai danni dell'intermediario."

Cass. civ. Sez. I, Sent., 24-05-2012, n. 8236

25 maggio 2012

Gratuito patrocinio - compenso in relazione all'attività in udienza - spese per l'opposizione al decreto di pagamento

"il motivo si chiude con il seguente quesito di diritto: là dove si versi nel caso di attività legale limitata alla partecipazione alle udienze penali di trattazione e discussione degli altri soggetti processuali, se il difensore assiste attivamente alle udienze, seppure non intervenendo espressamente, ritenendolo inutile e dannoso alla difesa del proprio assistito o perchè l'assistenza alla discussione non prevede una diversa condotta che non sia quella di ascolto attivo (ma rigorosamente silente), il giudice ha il dovere di liquidare - necessariamente e imprescindibilmente - i relativi compensi non derogando ai minimi tariffari e tenendo in considerazione i criteri di cui alla tabella C - Penale n. 6.1 e 6.2 (capitolo II) di cui al D.M. n. 127 del 2004, riconoscendo le voci in misura assolutamente corrispondente a detti criteri e quindi, in ultimo, applicando rigorosamente ed autonomamente le singole voci della tariffa cosi come specificamente previsto ai punti 6.1 e 6.2.;


il motivo - scrutinabile nel merito, perchè, diversamente da quanto sostenuto dalla difesa erariale, non si limita a pretendere una nuova valutazione delle tariffe liquidate, ma prospetta una violazione di legge - è fondato;


per la determinazione dell'onorario dell'avvocato che sorge dallo svolgimento dell'attività professionale nell'ambito di un procedimento penale, la tabella C della tariffa penale, approvata con D.M. 8 aprile 2004, n. 127, prevede, in relazione alle udienze, un importo base per la semplice partecipazione (anche un mero rinvio) (punto 6.1), un'integrazione in caso di attività difensive (punto 6.2), indicate in tabella a titolo esemplificativo, e una ulteriore integrazione in caso di discussione orale (punto 6.3);


[...]


il difensore di persona ammessa al patrocinio a spese dello Stato che, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 84 e 170, proponga opposizione avverso il decreto di pagamento dei compensi, contestando l'entità delle somme liquidate, agisce in forza di una propria autonoma legittimazione a tutela di un diritto soggettivo patrimoniale; ne consegue che il diritto alla liquidazione degli onorari del procedimento medesimo e l'eventuale obbligo del pagamento delle spese sono regolati dalle disposizioni del codice di procedura civile relative alla "responsabilità delle parti per le spese" (art. 91 c.p.c., e art. 92 c.p.c., commi 1 e 2) (Cass. pen., Sez. Un., 26 giugno 2008, n. 25931; Cass. civ., Sez. 6^ - 2, 12 agosto 2011, n. 17247)."

Cass. civ. Sez. II, Sent., 23-05-2012, n. 8167

Giustizia Amministrativa - Apple e multe Antitrust



Garanzia legale di conformità: ecco il "pomo" della discordia!

Il T.a.r. Lazio conferma le multe dell'Antitrust: sanzionata anche dai Giudici amministrativi la strategia commerciale della Apple volta a sottrarsi alle obbligazioni discendenti dalla garanzia legale di conformità realizzata attraverso modalità informative incomplete ed omissive fornite ai consumatori.

T.A.R. / T.A.R. Lazio - Roma / Sentenza 16 maggio 2012 da NORMA

Giustizia Amministrativa



L'insostenibile "ingannevolezza" dell'essere

L'operatore commerciale non può rivendicare una assoluta libertà di comunicazione e di promozione dei propri prodotti sulla base di autonome scelte di marketing; il Codice del Consumo pone precisi vincoli a tale libertà nella misura in cui questa si riveli (o semplicemente possa rivelarsi) idonea ad indurre il consumatore in errore.

T.A.R. / T.A.R. Lazio - Roma / Sentenza 16 maggio 2012 da NORMA

24 maggio 2012

Sussistenza dei requisiti di validità dell'atto di citazione - l'individuazione dell'oggetto della domanda - Contrasto risolto

"Quando col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza impugnata, ed in particolare un vizio afferente alla nullità dell'atto introduttivo del giudizio per indeterminatezza dell'oggetto della domanda o delle ragioni poste a suo fondamento, il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all'esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, purchè la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito (ed oggi quindi, in particolare, in conformità alle prescrizioni dettate dall'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4)."

Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 22-05-2012, n. 8077

Esasperata conflittualità tra due coniugi - stipula di un atto di donazione - animus donandi

"La ricorrente, come linearmente evidenziato nel formulato quesito di diritto, si duole del fatto che il giudice del gravame non abbia ritenuto nullo per mancanza di causa la donazione inter partes, posto che l'accertato clima di estrema conflittualità, sfociato anche in episodi di violenza morale e materiale, esistente tra le stesse parti contrattuali si presentava incompatibile con l'animus donandi.


Premesso che la tipizzazione del contratto di donazione (artt. 769 e ss. c.c.) impone una prospettiva di indagine che deve tendere ad una verifica in concreto della sussistenza o meno della causa del contratto intercorso tra l' A. ed il M., occorre a tal fine evidenziare che lo spirito di liberalità che connota, in guisa di requisito genetico del contratto (art. 1325 cod. civ.), l'incremento del patrimonio altrui, con depauperamento del proprio (art. 769 c.c.), va ravvisato, alla stregua dell'insegnamento di questa Corte (Cass. n. 12325 del 1998; Cass. n. 1411 del 1997; Cass. n. 3621 del 1980), nella consapevolezza del donante di attribuire al donatario un vantaggio patrimoniale in assenza di qualsivoglia costrizione, giuridica o morale, secondo un intento pienamente discrezionale.


Dunque, se a realizzare la funzione economico-sociale della donazione concorre la spontaneità dell'attribuzione patrimoniale, questa, come tale, non si pone in relazione di incompatibilità, così da poter essere in concreto elisa, con la circostanza di un esasperato rapporto conflittuale, e finanche violento, esistente tra le parti del vincolo contrattuale, che, seppur presente al momento della conclusione del contratto, si atteggia come elemento fattuale del tutto neutro rispetto alla valenza causale dell'attribuzione patrimoniale operata per liberalità, non integrando nè l'ipotesi di cogenza giuridica, nè quella di costrizione morale dell'anzidetta attribuzione, semmai corroborando proprio l'ipotesi contraria della decisa e netta sussistenza dell'animus donandi, essendosi giunti alla formazione del vincolo nonostante il clima di conflittualità interpersonale in essere.


Del resto, non può confondersi con l'assenza dello spirito di liberalità dell'attribuzione patrimoniale il diverso piano, sebbene anch'esso correlato alla genesi del vincolo negoziale, delle ragioni di annullamento del contratto risiedenti nell'esistenza di vizi della volontà e, tra questi, segnatamente della violenza, rispetto alla quale parrebbe meglio conformarsi, in tesi, la situazione circostanziata dedotta dalla ricorrente. Ambito, quest'ultimo, che, però, non è stato scalfito da alcuna censura in questa sede, sebbene anch'esso sia stato oggetto di cognizione da parte del giudice del gravame, con delibazione negativa rispetto all'interesse coltivato dalla appellante ed odierna ricorrente."

Cass. civ. Sez. II, Sent., 21-05-2012, n. 8018

23 maggio 2012

CONDOMINIO - delibere sulle spese: nulle e annullabili

"Sostiene che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di Appello, la delibera assembleare che modifica i criteri di ripartizione delle spese condominiali è affetta da nullità radicale deducibile senza limiti di tempo, e non meramente annullabile mediante impugnativa da proporsi entro il termine di trenta giorni.


Il motivo è infondato.


Secondo il costante orientamento di questa Corte, riguardo alle delibere dell'assemblea di condominio aventi ad oggetto la ripartizione delle spese comuni, occorre distinguere quelle con le quali sono stabiliti i criteri di ripartizione ai sensi dell'art. 1123 c.c., ovvero sono modificati i criteri fissati in precedenza, per le quali è necessario, a pena di radicale nullità, il consenso unanime dei condomini, da quelle con le quali, nell'esercizio della attribuzioni assembleari previste dall'art. 1135 c.c., nn. 2 e 3, vengono in concreto ripartite le spese medesime, atteso che queste ultime, ove adottate in violazione dei criteri già stabiliti, devono considerarsi annullabili, e la relativa impugnazione va proposta nel termine di decadenza di trenta giorni previsto dall'art. 1137 c.c., u.c., (Cass. S.U. 7-3-2005 n. 4806; Cass. 9-2-1995 n. 1455; Cass. 8-6- 1993, n. 6403).


Nel caso di specie, la Corte di Appello ha dato atto che la delibera assembleare del 3-10-1997 non ha riguardato la modifica dei criteri legali o convenzionali di ripartizione delle spese, ma la ripartizione in concreto tra i condomini delle spese, nell'ambito dei criteri già stabiliti. Correttamente, pertanto, essa ha ritenuto che ricorresse una ipotesi di mera annullabilità della delibera in esame, soggetta al termine di decadenza di trenta giorni dalla data di comunicazione ai condomini assenti."

Cass. civ. Sez. II, Sent., 21-05-2012, n. 8010

CEDU - l'Italia deve pagare 49 mln di euro per l'ecomostro



"Punta Perotti"? L'Italia condannata a pagare 49 milioni di euro

Pronuncia storica della Corte europea dei diritti dell'uomo in tema di misure individuali volte a soddisfare equamente le vittime di una lesione della CEDU. 49 milioni di euro: questa la cifra che lo Stato italiano dovrà, a breve, pagare alle imprese costruttici proprietarie dei terreni illegittimamente confiscati e delle strutture poi demolite situate sul tristemente noto litorale pugliese. Lo Stato italiano, inoltre, dovrà rinunciare all'azione giudiziale intrapresa per ottenere il rimborso delle spese di demolizione.

CEDU / Sezione II / Sentenza 10 maggio 2012 da NORMA

22 maggio 2012

AGENZIA (CONTRATTO DI) - RESPONSABILITA' CIVILE

Sussistono tutte le condizioni per il sorgere della responsabilità dell'agente ex art. 2049 c.c. per la condotta posta in essere dal proprio subagente qualora l'istruttoria svolta dal Giudice del merito abbia consentito di accertare l'inserimento del subagente nell'organizzazione dell'impresa, come risultante dal diritto di quest'ultimo di vigilanza e di controllo di tutta la organizzazione amministrativa della subagenzia - attività di vigilanza e controllo non solo prevista nella lettera di incarico ma in concreto esercitata - dallo svolgimento dell'attività del subagente in locali condotti in locazione in nome e nell'interesse del titolare pro tempore dell'agenzia generale, dal divieto del subagente di occuparsi di affari di assicurazioni per compagnie diverse, dal divieto di accettazione di somme a qualsiasi titolo, senza preventiva autorizzazione scritta dell'agenzia generale, salvi gli incassi del portafoglio, nonché dall'accertata autorizzazione di tutti i subagenti a firmare assegni in girata per conto dell'agente esclusivamente allo scopo di versare sui conti di direzione dello stesso.

Cass. civ. Sez. III, 16-05-2012, n. 7634

Comportamenti di concorrenza sleale ex art. 2598 c.c..

"Osserva peraltro il Collegio che è opinione diffusa nella dottrina, che la prova dell'illecito concorrenziale non solo antitrust, debba essere acquisita dal giudice caso per caso con attenzione alla particolarità della vicenda che esamina. Il complotto anticoncorrenziale, in via di principio, non viene esternato in uno o più contratti collegati tali da renderlo esplicito ovvero in modo da palesare l'intento illecito. Esso piuttosto, è comune esperienza, si struttura lungo comportamenti di mercato,che considerati in modo parcellizzato sono anche astrattamente leciti, ancorchè tuttavia orientati ad aggredire l'avviamento del concorrente in modo contrario alla correttezza professionale, in quanto limitante la difesa concorrenziale. I comportamenti in questione in definitiva si dirigono a diminuire il livello di competitività di un mercato con fatti concludenti, e l'accertamento dell'illecito richiede anzitutto la verifica della compatibilità economica della relativa ipotesi. Quindi, l'attento e diligente esame dei comportamenti dei soggetti del mercato, che può essere compiuto dal giudice anche con il soccorso di strumenti istruttori che evitano che il principio dispositivo, adoperato in modo formalistico, impedisca al processo civile di esercitare la sua funzione costituzionale (art. 24 Cost., e art. 111 Cost., comma 2)."

Cass. civ. Sez. I, Sent., 18-05-2012, n. 7927

21 maggio 2012

Valore della controversia ed esito del giudizio

"Il valore della controversia va dimostrato in concreto, determinandosi in astratto un conflitto di interessi per una azione incoata per un dichiarato alto valore, ma infondata o non accolta anche in parte.


Al riguardo va sottolineato che già il D.M. 24 novembre 1990, n. 392, art. 6, attenuando la rigidità del criterio adottato dall'art. 10 c.p.c., comma 1, ha stabilito, nell'ipotesi dell'accoglimento parziale, nella liquidazione degli onorari a carico del soccombente, nel giudizi per pagamento somme, il riferimento alla somma attribuita alla parte vincitrice, piuttosto che quella domandata - Cass. 1.3.1995 n. 2338.


In caso di rigetto della domanda, il valore della controversia (art. 5, comma 1, stesso D.M.) è determinato dalla somma richiesta, salvo il potere di compensazione (Cass. 4.3.1998 n. 2407), ipotesi riferita alla liquidazione a favore del convenuto vittorioso."

Cass. civ. Sez. II, Sent., 17-05-2012, n. 7764



Valore indeterminabile della causa - criteri

"Va qui osservato che il principio secondo cui l'indeterminabilità del valore della causa si deve intendere in senso obiettivo, ovvero quale conseguenza di un'intrinseca inidoneità della pretesa ad essere tradotta in termini pecuniari, al momento della proposizione della domanda, vale anche ai fini dell'applicazione delle tariffe per la liquidazione dei compensi del consulente tecnico d'ufficio, sicchè, al fine di stabilire il valore della causa, gli elementi di valutazione sono solo quelli che risultano precostituiti e disponibili fin dall'introduzione del giudizio, essendo invece irrilevanti quelli acquisiti nel corso dell'istruttoria, anche attraverso la stessa consulenza tecnica."

Cass. civ. Sez. II, Sent., 17-05-2012, n. 7758

Giustizia Amministrativa



Accesso alla propria documentazione sanitaria: diritto indiscutibile!

L'azienda ospedaliera può rifiutare di esibire la documentazione sanitaria di un paziente, solo perchè l'interesse è radicato in relazione ad altro giudizio pendente?

T.A.R. / T.A.R. Sicilia - Palermo / Sentenza 11 maggio 2012 da NORMA

18 maggio 2012

OBBLIGAZIONI E CONTRATTI - Interpretazione del contratto

Al fine di pervenire ad una corretta interpretazione del contratto oggetto di controversia, occorre innanzitutto ricercare la comune volontà delle parti, non esclusivamente sulla base della sua aderenza al testo normativo, ma anche al comportamento delle parti. Di talché, nel caso in esame, la sentenza impugnata è stata considerata viziata, dal momento che non ha fornito le ragioni di un comportamento negoziale alquanto illogico, essendo volto all'acquisizione di una prestazione di mero contenuto intellettuale che si sarebbe potuta acquisire con la stipulazione di un contratto d'opera e non con il coinvolgimento del progettista nell'impresa mediante l'associazione in partecipazione.

Cass. civ. Sez. I, 14-05-2012, n. 7426

Corte di Giustizia Europea



Responsabilità penale delle persone giuridiche

La dichiarata natura "amministrativa" o "indiretta/sussidiaria" delle persone giuridiche nell'ordinamento italiano non può, secondo l'Avvocato Generale della Corte di Giustizia, impedire alle vittime la possibilità di instaurare un procedimento contro le stesse.

Corte di Giustizia / Conclusioni avvocato generale 15 maggio 2012 da NORMA

17 maggio 2012

Vicenda che ha condotto allo scioglimento del rapporto di lavoro al MEF: GO e non GA

"Quanto alla questione di giurisdizione, riproposta con il primo motivo, il Ministero ha osservato che, come si evince alla L. 6 dicembre 1971, n. 1034, art. 23 bis, comma 1, lett. f), ed ora dell'art. 119, coma 1, lett. d) del codice amministrativo le controversie aventi ad oggetto i provvedimenti di nomina, adottati previa delibera del Consiglio dei ministri ai sensi della L. 23 agosto 1988, n. 400, tra i quali rientra quello di nomina del direttore delle agenzie fiscali (D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, art. 62, comma 2).


Lo stesso regime riguarderebbe - perciò - le controversi che hanno a oggetto la revoca dei provvedimenti di nomina.


Anche questo motivo non è fondato.


La controversia su cui è intervenuta la decisione della Corte d'appello - come ambedue i giudici di merito hanno rilevato e come del resto viene sostenuto nel terzo motivo del ricorso principale - non origina da un provvedimento che, in guisa di atto contrario, abbia avuto ad oggetto l'atto di nomina e rispetto al quale avrebbe avuto ragione di essere posta la questione, se la controversia che ne fosse insorta apparteneva alla giurisdizione del giudice amministrativo, presupposta dalla norma di rito dettata dall'art. 119, lett. d) del c.p.a..


La controversia ha tratto bensì origine da una vicenda che ha condotto allo scioglimento del rapporto e sulle cui ragioni - quali ritenute dalla Corte d'appello - vertono i residui motivi di ricorso.


Che una controversia di questo contenuto appartenga alla giurisdizione ordinaria discende pienamente dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 63, ed al riguardo è sufficiente il richiamo ai precedenti di questa Corte (tra i quali S.U. 3 novembre 2011 n. 22733)."

Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 15-05-2012, n. 7626

Compensi professionali: rinuncia tacita alla prescrizione

"Contesta l'erroneità della sentenza impugnata, per avere riconosciuto applicabile la prescrizione estintiva e non presuntiva in materia di compensi professionali e, conseguentemente, avere dato rilievo - quale riconoscimento del diritto e rinuncia ad avvalersi della prescrizione maturata - alla dichiarazione contenuta nella lettera 17.4.1997 inviata dall'attuale ricorrente all'avv. M..


Diversamente, trattandosi del diritto di un professionista alla percezione del compenso, si verte in ipotesi di prescrizione presuntiva, che trova fondamento nella presunzione di adempimento dell'obbligo; con la conseguenza che l'unica prova contraria ammessa è quella risultante dall'ammissione o dal giuramento, ex artt. 2959 e 2960 c.c..


I motivi, trattati congiuntamente per la connessione logico-giuridica delle censure con gli stessi proposte, non sono fondati per le ragioni che seguono.


Il riferimento all'art. 2956 c.c., n. 2, contenuto nella parte espositiva della sentenza impugnata in questa sede, rende evidente che l'attuale ricorrente abbia, nel giudizio di primo grado, eccepito la prescrizione con riferimento a quella presuntiva relativa al credito del legale di cui, appunto, all'art. 2956 c.c., n. 2.


Peraltro, l'eccezione di prescrizione presuntiva implica il riconoscimento dell'esistenza del credito nella misura richiesta dal creditore; con la conseguenza che non può farla valere il debitore che sostenga di aver estinto l'obbligazione mediante il pagamento di una somma minore di quella domandata, poichè, in tal modo, egli nega parzialmente l'originaria esistenza del credito (v. anche Cass. 7.4.2005 n. 7277).


La sentenza della Corte di merito riporta lo svolgimento del processo, per quel che qui interessa, come segue: "Con atto di citazione dell'aprile 2000 l'avvocato M.F.C. conveniva davanti al tribunale di Perugia C.L. per ottenere la condanna al pagamento di compensi professionali - relativi a molteplici incarichi specificamente indicati - per complessivi 42.946,95 Euro, somma dovuta al netto dell'avvenuto versamento di 23.700,00 lire".


" C. si costituiva, rilevando che la pretesa traeva origine da distinte attività e per ogni singola posizione elencata da controparte avanzava eccezione di prescrizione ex art. 2956 c.c., n. 2; quanto ai compensi relativi a tre procedure - che C. ipotizzava non oggetto di prescrizione - l'importo di 23.700,00 lire già versato era ampiamente satisfattivo".


Ora, l'indicazione contenuta nella sentenza rende evidente che il C., nell'eccepire la prescrizione presuntiva, abbia in sostanza affermato di avere estinto l'obbligazione almeno quella relativa ai compensi inerenti alle tre procedure citate -, mediante il pagamento di una somma inferiore rispetto a quella domandata; con. la conseguenza che egli, sotto questo profilo, di tale prescrizione non si può avvalere (Cass. 21.6.2010 n. 14927).


Con riferimento poi, ai compensi relativi all'attività professionale in precedenza compiuta dall'attuale resistente - il cui diritto il C. ritiene prescritto ai sensi dell'art. 2956 c.c., n. 2 - deve evidenziarsi quanto segue.


La prescrizione presuntiva, anche se fondata su di una presunzione, è cosa ben diversa dalla presunzione stessa ed, a differenza di questa, non è un mezzo di prova, ma incide direttamente sul diritto sostanziale limitandone la protezione giuridica.


Questa incidenza sostanziale non è, per sua natura, diversa anche se più limitata - da quella derivante dalla prescrizione ordinaria, che giunge sino all'estinzione del diritto, e, pertanto, è regolata dagli stessi principi. In particolare, è applicabile alla prescrizione presuntiva il principio, di cui all'art. 2937 c.c., della rinunciabilità alla prescrizione (Cass. 3.7.1969 n. 2437; v. anche Cass. 11.2.1967 n. 40).


In questa ottica va sottolineato che, ai fini di una rinuncia tacita alla prescrizione, occorre una incompatibilità assoluta tra il comportamento del debitore e la volontà di avvalersi della causa estintiva del diritto altrui.


Occorre, cioè, che nel comportamento del debitore sia necessariamente insita, senza possibilità di una diversa interpretazione, l'inequivoca volontà di rinunziare alla prescrizione già maturata e, quindi, di considerare come tuttora esistente ed azionabile quel diritto, che si era, invece, estinto.


Ora, la Corte di merito esamina il contenuto della missiva del 17.4.1997, inviata dal C. al M., con la quale il primo "rinnovando" quanto già dettole in altre occasioni, sia nel suo studio, sia telefonicamente "adduceva la propria difficile situazione economica, chiedeva all'avv. M. di soprassedere ad azioni legali volte al recupero dei propri compensi, affermava di non volersi sottrarre ai suoi u doveri in merito alle prestazioni da Lei svolte, dava la propria parola che non sarebbe cambiato il suo impegno a regolare la propria posizione appena possibile".


Queste dichiarazioni, sono ritenute dalla stessa Corte di merito "incompatibili con la volontà di avvalersi della prescrizione (in ipotesi) maturata relativamente a taluni dei compensi vantati dal professionista"; con il conseguente riconoscimento di una tacita rinuncia ad avvalersi della stessa.


L'indagine è stata correttamente svolta dalla Corte di merito ed il suo risultato non è, pertanto, censurabile in questa sede (v. anche Cass. 20.12.2005 n. 28254).


In sostanza, il C. ha posto in essere una manifestazione tacita di volontà di rinuncia alla prescrizione presuntiva maturata, esprimendo, altresì, la sua volontà negoziale di non volersi avvalere di quel diritto che aveva ad oggetto la sua liberazione dall'obbligo assunto.


La conseguenza è che da tale momento (quello cioè dell'atto rinunciativo) comincia a decorrere un nuovo termine di prescrizione, comunque ordinario.


La Corte di merito, quindi, ha raggiunto, pur con le precisazioni che si sono indicate, corrette conclusioni."

Cass. civ. Sez. III, Sent., 15-05-2012, n. 7527

Oneri condominiali e accollo cumulativo esterno: prescrizione decennale

"La Corte di appello ha ritenuto che la domanda per il pagamento degli oneri condominiali arretrati non era prescritta, sul rilievo che con la clausola n. 27 del contratto di locazione la conduttrice si era obbligata a pagamento degli oneri condominiali direttamente all'amministratore e che, a seguito dell'adesione dell'amministratore a tale convenzione, si era determinata la fattispecie dell'accollo cumulativo esterno,con la conseguenza che l'azione esercitata dalla locatrice,che con il pagamento si era surrogata nel diritto del Condominio al pagamento degli oneri condominiali nei confronti della conduttrice, si qualificava come azione di regresso ex art. 1203 c.c., n. 3, alla quale si applica la prescrizione decennale."

Cass. civ. Sez. III, Sent., 15-05-2012, n. 7524

Giustizia Amministrativa



Danno da "dequalificazione"

In caso di pregiudizi alla professionalità da generica "dequalificazione", quando può darsi luogo alla liquidazione del danno esistenziale?

T.A.R. / T.A.R. Lazio - Roma / Sentenza 8 maggio 2012 da NORMA

16 maggio 2012

IMPOSTE E TASSE IN GENERE - Avviso di accertamento

ACCERTAMENTO - Accertamento e controlli - Accertamento anticipato - Conseguenze del mancato rispetto del termine dilatorio di sessanta giorni - Devoluzione alle Sezioni Unite - Art. 12, L. n. 212/20

Va rimessa all'attenzione del Primo Presidente, stante la presenza di orientamenti contrastanti sul punto, la questione circa gli effetti dell'inosservanza, ad opera della parte pubblica, del disposto di cui all'art. 12 co. 7 della L. n. 212/2000, per l'eventuale trasmissione della causa alle Sezioni Unite. Tale norma afferma che l'avviso di accertamento, eccezion fatta per i casi di particolare e motivata urgenza, non può essere emanato prima del decorso di sessanta giorni dalla consegna del "PVC", per consentire al contribuente di produrre memorie che, se del caso, possono evitare l'emanazione dell'atto.

Cass. civ. Sez. V, 11-05-2012, n. 7318

L'errore della difesa nel richiamo della norma posta a fondamento dell'invocata responsabilità

"Venendo alla domanda proposta nei confronti di A. in relazione al difetto di conformità della cosa venduta, deve innanzitutto chiarirsi che è errato il riferimento normativo del D.Lgs. n. 422/2000 utilizzato dalla difesa dell'attore, atteso che, in realtà, il venditore risponde nei confronti del consumatore per il difetto di conformità della cosa venduta, ai sensi degli artt. 128-132 D.Lgs. n. 206/2005, cd. Codice del Consumo.


Tuttavia, l'errore della difesa nel richiamo della norma posta a fondamento dell'invocata responsabilità, può essere corretto dal Giudice, poiché, per quanto concerne la tematica della corrispondenza tra chiesto e pronunciato ex art. 112 c.p.c., occorre rilevare che si ha modifica della causa petendi solo con l'indicazione di una realtà fattuale diversa da quella inizialmente prospettata, tramite l'introduzione nel tema controverso di nuovi elementi di fatto (cfr., ex pluribus, Cass. n. 15925/2007, Cass. n. 15802/2005). L'individuazione del nomen iuris delle fattispecie azionate e la loro esatta qualificazione, invece, spetta pacificamente al Giudice come suo potere-dovere in base al principio iura novit curia, con la conseguenza che il Giudice può applicare una norma di legge diversa da quella invocata senza incorrere nel vizio di ultrapetizione, ove rimangano inalterati petitum e causa petendi (cfr., ex pluribus, Cass. n. 25140/2010, Cass. Sez. Un. n. 9147/2009, Cass. n. 16809/2008, Cass. n. 19331/2007, Cass. n. 17767/2007, Cass. n. 12402/2007, Cass. n. 2308/2007).


Ciò premesso, la decisione del merito può essere effettuata sulla base della CTU, svolta con motivazione convincente e pienamente condivisibile, che ha adeguatamente replicato ai rilievi delle parti, dalla quale il Giudicante non ha motivo di discostarsi in quanto frutto di un iter logico ineccepibile e privo di vizi, condotto in modo accurato ed in continua aderenza ai documenti agli atti ed allo stato di fatto analizzato."

Trib. Reggio Emilia, Sent., 10-05-2012

15 maggio 2012

Danni da vacanza (rovinata) irripetibile e prova del danno

"La questione centrale all'attenzione della Corte è se, nell'ipotesi di inadempimento o inesatta esecuzione del contratto rientrante nella disciplina che regola, in adempimento della direttiva n. 90/314/CEE, i "pacchetti turistici" (contenuta nel D.Lgs. n. 111 del 1995, rilevante ratione temporis, poi riprodotta, senza modificazioni, per la parte di interesse, nel D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, "Codice di consumo"), il danno non patrimoniale da vacanza rovinata, in senso stretto, quale pregiudizio conseguente alla lesione dell'interesse del turista di godere pienamente del viaggio organizzato come occasione di piacere e di riposo, e quindi, quando non vengano in rilievo lesioni all'integrità psicofisica tutelate dall'art. 32 Cost., sia risarcibile, ex art. 2059 c.c., che, secondo l'interpretazione della giurisprudenza di legittimità, stante il carattere tipico della tutela di interessi non connotati da rilevanza economica, necessita di una fonte normativa ordinaria espressa, o del fondamento costituzionale, in riferimento ai diritti inviolabili della persona (art. 2 Cost., artt. 4, 13, 29, 30), e al diritto alla salute (art. 32 Cost.), o di una fonte comunitaria, in ragione della prevalenza del diritto comunitario su quello interno (Sez. Un. 11 novembre 2008, n. 26972).


Al quesito va data risposta positiva.


La Corte ha già ritenuto la legittimità di tale danno non patrimoniale.


Nel rigettare il ricorso avverso sentenza che l'aveva riconosciuto, ne ha individuato il fondamento, "non nella generale previsione dell'art. 2 Cost., ma proprio nella cosiddetta vacanza rovinata (come legislativamente disciplinata)" (Cass. 4 marzo 2010, n. 5189). Da ultimo (Cass. 20 marzo 2012, n. 4372) ha cassato una decisione che lo aveva negato, affermando che la risarcibilità di tale danno "è prevista dalla legge, oltre che costantemente predicata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea". In effetti, la legislazione di settore concernente i "pacchetti turistici", emanata in attuazione della normativa comunitaria di tutela del consumatore, nell'ambito dell'obiettivo dell'avvicinamento delle legislazioni degli Stati membri della Comunità Europea, come interpretata dalla Corte di Giustizia CE, ha reso rilevante l'interesse del turista al pieno godimento del viaggio organizzato, come occasione di piacere o riposo, prevedendo il risarcimento dei pregiudizi non patrimoniali (disagio psicofisico che si accompagna alla mancata realizzazione in tutto o in parte della vacanza programmata) subiti per effetto dell'inadempimento contrattuale. La Corte di Giustizia, già nel 2002 (sentenza 12 marzo 2002, n. 168), pronunciandosi in via pregiudiziale sull'interpretazione dell'art. 5 della direttiva n. 90/314/CEE, ha affermato che il suddetto articolo "deve essere interpretato nel senso che in linea di principio il consumatore ha diritto al risarcimento del danno morale derivante dall'inadempimento o dalla cattiva esecuzione delle prestazioni fornite in occasione di un viaggio tutto compreso", mettendo in evidenza che nel settore dei viaggi turistici si segnalano spesso "danni diversi da quelli corporali", "al di là dell'indennizzo delle sofferenze fisiche" e che "tutti gli ordinamenti giuridici moderni (riconoscono)..un'importanza sempre maggiore alle vacanze".


Alla luce di tale pronuncia, la dottrina e la giurisprudenza di merito, hanno letto le espressioni generiche contenute nel D.Lgs. n. 111 del 1995 (artt. 13 e 14) come comprensive anche del danno non patrimoniale. Oggi, in una visione d'insieme, il Codice del turismo (D.Lgs. 23 maggio 2011, n. 79, emanato in attuazione della direttiva 2008/122/CE,), non applicabile nella specie, prevede espressamente (art. 47) il danno da vacanza rovinata per il caso di inadempimento o inesatta esecuzione delle prestazioni che formano oggetto del pacchetto turistico. In particolare, si prevede che, qualora l'inadempimento "non sia di scarsa importanza ai sensi dell'art. 1455 c.c., il turista può chiedere, oltre e indipendentemente dalla risoluzione del contratto, un risarcimento del danno correlato al tempo di vacanza inutilmente trascorso ed all'irripetibilità dell'occasione perduta". 3.2.2. Questione collegata - emergente dal richiamo, nel motivo di ricorso, alla gravità dell'offesa e alla esclusione della risarcibilità di diritti immaginari in riferimento ai diritti inviolabili della persona, secondo la richiamata decisione delle Sez. Un., n. 26972 del 2008 - sul presupposto che, in ipotesi di inadempimento integrante la risoluzione del contratto la gravità della lesione è implicita, è se, nel caso di inesatta esecuzione del contratto, la lesione dell'interesse alla vacanza contrattualmente pattuita, che trova riconoscimento nella disciplina normativa del pacchetto turistico, posta a tutela del consumatore, debba o meno avere il carattere della gravità, nel senso che l'offesa di tale interesse, per essere risarcibile, debba superare una soglia minima di tollerabilità. In linea di principio, a stretto rigore normativo, la risposta non può non essere negativa. Limiti non emergono nè dalla lettera normativa, nè dall'interpretazione fornitane dalla Cotte di Giustizia. Tuttavia, ritiene il Collegio, che limiti discendano, anche in questo caso, sia pure con caratterizzazione diversa, sempre dall'art. 2 Cost..


In riferimento ai diritti inviolabili della persona, la necessità della gravità della lesione dell'interesse, che per essere risarcibile deve superare una soglia minima di tollerabilità, trova fondamento nel dovere di solidarietà, di cui all'art. 2 Cost., che impone a ciascuno di tollerare le minime intrusioni nella propria sfera personale inevitabilmente scaturenti dalla convivenza (Sez. Un. n. 26972 del 2008), e, quindi, in riferimento al rapporto tra singolo individuo e singoli, ma indifferenziati, individui componenti la società civile.


In riferimento al diritto alla vacanza contrattualmente pattuita, invece, la necessità della gravità della lesione dell'interesse e il superamento di una soglia minima di tollerabilità, trova fondamento nella sempre più accentuata valorizzazione della regola di correttezza e buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, che (secondo gli orientamenti attuali di dottrina e giurisprudenza, es. Sez. Un. 15 novembre 2007, n. 23726), accompagna il contratto in ogni sua fase; regola specificativa - nel contesto del rapporto obbligatorio tra soggetti determinati - degli inderogabili doveri di solidarietà, di cui all'art. 2 Cost., e la cui violazione può essere indice rivelatore dell'abuso del diritto, nella elaborazione teorica e giurisprudenziale.


La richiesta di risarcimento di danni non patrimoniali per disagi e fastidi da qualificarsi minimi, avuto presente la causa in concreto del contratto, contrasterebbe con i principi di correttezza e buona fede e di contemperamento dei contrapposti interessi contrattualmente pattuiti, e costituirebbe un abuso, in danno del debitore, della tutela accordata al consumatore/creditore. In mancanza di delimitazioni normative, spetta al giudice del merito - salvo il controllo di legittimità in ordine alla logicità della motivazione - individuare il superamento o meno di tale soglia, avuto riguardo alla causa in concreto - costituita dalla "finalità turistica", che qualifica il contratto "determinando l'essenzialità di tutte le attività e dei servizi strumentali alla realizzazione del preminente scopo vacanziero" (Cass. 24 luglio 2007, n. 16315) - emergente dal complessivo assetto contrattuale, e considerando l'autonoma valutabilità dell'interesse allo svago e riposo rispetto al danno patrimoniale subito, atteso che il primo, a seconda del peso della prestazione contrattuale non adempiuta, può ben superare il secondo e non può appiattirsi su questo.


Nella specie, il giudizio sul superamento della soglia minima di lesione è implicito nella sentenza di merito, in considerazione della irripetibilità della vicenda trattata (viaggio di nozze).


[...]


Infine, ulteriore questione posta dal ricorso (p.3.2. sub b), attiene alla allegazione e prova del danno non patrimoniate da vacanza rovinata, essendo la sentenza censurata per aver fatto coincidere la prova del danno non patrimoniale da vacanza rovinata con la prova dei disagi sopportati dai turisti a causa dell'inadempimento contrattuale. Si tratta di stabilire se, provato l'inadempimento del contratto di pacchetto turistico e allegato di avere subito un danno non patrimoniale da vacanza rovinata in senso stretto - come disagio psicofisico che si accompagna alla mancata realizzazione in tutto o in parte della vacanza programmata, con l'esclusione, quindi, di danni psicofisici e/o alla vita di relazione - siano necessarie o meno ulteriori prove per ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale. La risposta è negativa.


La stessa si ricava dalla interazione dei principi consolidati, in tema di onere della prova dell'inadempimento contrattuale e in tema di danno-conseguenza del risarcimento, con la peculiarità del contratto di pacchetto turistico, la cui causa è connotata dall'esclusivo perseguimento di interessi non patrimoniali, al contrario della generalità dei contratti, nei quali interessi non patrimoniali possono solo essere inseriti.


Se, quando il danno non patrimoniate scaturisce da inadempimento contrattuale, il risarcimento è regolato dalle norme dettate in materia, e quindi, dagli artt. 1218, 1223 e 1225 c.c., e valgono le specifiche regole del settore circa l'onere della prova, come specificate da Sez. Un. 30 ottobre 2001, n. 13533 (Sez. Un. n. 26972 del 2008, p.4.7.). Se, in base al principio affermato in quest'ultima decisione richiamata, il creditore, sia che agisca per l'adempimento, per la risoluzione o per il risarcimento del danno, deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, mentre può limitarsi ad allegare l'inadempimento della controparte e sarà il debitore convenuto a dover fornire la prova del fatto estintivo del diritto, costituito dall'avvenuto adempimento. Se, nell'ipotesi di inesatto adempimento grava sempre sul debitore l'onere di dimostrare l'avvenuto esatto adempimento.


Se il danno-conseguenza deve essere allegato e provato e, per i pregiudizi non patrimoniali attinenti a un bene immateriale, la prova presuntiva è destinata ad assumere particolare rilievo e potrà costituire anche l'unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, a condizione che il danneggiato alleghi tutti gli elementi idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto (Sez. Un. n. 26972 del 2008, p.4.10).


Ne consegue che, in tema di danno non patrimoniale "da vacanza rovinata", inteso come disagio psicofisico conseguente alla mancata realizzazione in tutto o in parte della vacanza programmata, la raggiunta prova dell'inadempimento esaurisce in sè la prova anche del verificarsi del danno, atteso che gli stati psichici interiori dell'attore, per un verso, non possono formare oggetto di prova diretta e, per altro verso, sono desumibili dalla mancata realizzazione della "finalità turistica" (che qualifica il contratto) e dalla concreta regolamentazione contrattuale delle diverse attività e dei diversi servizi, in ragione della loro essenzialità alla realizzazione dello scopo vacanziero."

Cass. civ. Sez. III, Sent., 11-05-2012, n. 7256