31 gennaio 2013

Il principio di buona fede e avveramento della condizione


Come già osservato dalle Sezioni Unite con la sentenza sopra richiamata, "l'art. 1358 c.c. dispone che "colui che si è obbligato o che ha alienato un diritto sotto condizione sospensiva, ovvero lo ha acquistato sotto condizione risolutiva, deve, in pendenza della condizione, comportarsi secondo buona fede per conservare integre le ragioni dell'altra parte". La norma s'inserisce nell'ambito applicativo della clausola generale della buona fede, operante nel diritto dei contratti sia in sede di trattative e di formazione del contratto medesimo (art. 1337 c.c.), sia in sede d'interpretazione (art. 1366 c.c.), sia in sede di esecuzione (art. 1375 c.c.). La fonte dell'obbligo giuridico de quo, dunque, si trova appunto nel citato art. 1358, che lo stabilisce al fine di "conservare integre le ragioni dell'altra parte" e dunque gli attribuisce un chiaro carattere doveroso. Nè convince la tesi secondo cui tale obbligo andrebbe escluso per il profilo attuativo dell'elemento potestativo della condizione mista.

Invero, il principio di buona fede (intesa, questa, nel senso sopra chiarito come requisito della condotta) costituisce ad un tempo criterio di valutazione e limite anche del comportamento discrezionale del contraente dalla cui volontà dipende (in parte) l'avveramento della condizione. Tale comportamento non può essere considerato privo di ogni carattere doveroso, sia perchè - se così fosse - finirebbe per risolversi in una forma di mero arbitrio, contrario al dettato dell'art. 1355 c.c. sia perchè aderendo a tale indirizzo si verrebbe ad introdurre nel precetto dell'art. 1358 una restrizione che questo non prevede e che, anzi, condurrebbe ad un sostanziale svuotamento del contenuto della norma, limitandolo all'elemento casuale della condizione mista, cioè ad un elemento sul quale la condotta della parte (la cui obbligazione è condizionata) ha ridotte possibilità d'incidenza, mentre la posizione giuridica dell'altra parte resterebbe in concreto priva di ogni tutela. Invece è proprio l'elemento potestativo quello in relazione al quale il dovere di comportarsi secondo buona fede ha più ragion d'essere, perchè è con riguardo a quell'elemento che la discrezionalità contrattualmente attribuita alla parte deve essere esercitata nel quadro del principio cardine di correttezza. Si deve, perciò, affermare che il contratto sottoposto a condizione mista è soggetto alla disciplina dell'art. 1358 c.c. che impone alle parti di comportarsi secondo buona fede durante lo stato di pendenza della condizione. E' vero che l'omissione di un'attività in tanto può costituire fonte di responsabilità in quanto l'attività omessa costituisca oggetto di un obbligo giuridico, ma tale obbligo, in casi come quello in esame, discende direttamente dalla legge e, segnatamente, dall'art. 1358 c.c., che lo impone come requisito della condotta da tenere durante lo stato di pendenza della condizione, e la sussistenza di un obbligo siffatto va riconosciuta anche per l'attività di attuazione dell'elemento potestativo di una condizione mista. Pertanto il giudice del merito deve procedere ad un penetrante esame della clausola recante la condizione e del comportamento delle parti, nel contesto del negozio in cui la clausola stessa è contenuta, al fine di verificare, alla stregua degli elementi probatori acquisiti, se corrispondano ad uno standard esigibile di buona fede le iniziative poste in essere al fine di ottenere il finanziamento".

A tale orientamento va data continuità.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 14-12-2012, n. 23014


Nessun commento: