02 agosto 2012

Il capo condannatorio relativo alle spese accessorie ad una sentenza di I° grado di rigetto della domanda è immediatamente esecutivo


"Con il terzo motivo si censura la sentenza impugnata per violazione dell'art. 282 c.p.c., dovendosi, ai sensi di tale norma, ritenere esecutivo il capo di condanna alle spese, ancorchè non accessorio ad una sentenza di condanna.


Il motivo è fondato, perchè la giurisprudenza di questa Corte ha da lungo tempo affermato che il capo di condanna alle spese accessorio ad una sentenza di primo grado di rigetto della domanda, pur essendo sentenza di mero accertamento, è esecutiva ai sensi dell'art. 282 c.p.c., nel testo introdotto dalla L. n. 353 del 1990.


Tale giurisprudenza è ampiamente consolidata, sicchè non v'è alcuna situazione di contrasto che renda opportuno rimettere la questione alle Sezioni Unite, come ha sollecitato nel controricorso e continua a sollecitare il resistente.


Inoltre, non v'è alcuna situazione di contrasto dell'orientamento ormai consolidato con la sentenza n. 232 del 2004, pure evocata dal resistente.


A favore della tesi dell'esecutività immediata si vedano: Cass. n. 22495 del 2010; n, 1283 del 2010; n. 16003 del 2008; n. 16262 del 2005; 16263 del 2005; n. 8059 del 2007; n, 16262 del 2005. Le stesse Sezioni Unite, nell'esaminare (sentenza n. 4059 del 2010) la questione della esecutività dei capi condannatori accessori a sentenza costitutiva ai sensi dell'art. 2932 c.c., hanno adottato una soluzione negativa in ragione della peculiarità di tale tipo di decisione, mostrando di avallare l'idea che al di fuori di questa particolarità, la soluzione è ben diversa anche con riferimento alle stesse sentenze costitutive: si veda ampiamente in termini Cass. n. 24447 del 2011.


In particolare, sull'uno e sull'altro problema questa Corte si è ampiamente con l'ordinanza n. 6639 del 2010, emessa a seguito di decisione ai sensi dell'art. 380 bis c.p.c., e della quale è opportuno riportare la motivazione, che si è così articolata:


"(...) si deve rilevare che del tutto inesattamente ed impropriamente si attribuisce nel ricorso alla citata sentenza della Corte costituzionale valore di legge in senso contrario a quell'asserito. In proposito, la Corte, nell'ord. n. 26276 del 2008 (sul ricorso n. r.g. 24961 del 2007) ha già osservato quanto segue: L'orientamento che ritiene applicabile l'immediata esecutività della sentenza di primo grado assoggettata ad impugnazione anche alla condanna alle spese giudiziali accessoria ad una pronuncia di rigetto (e, quindi, di mero accertamento della infondatezza della domanda) è ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte: alla sentenza n. 21367 del 2004, che parte ricorrente conosce e da cui dissente quanto alle motivazioni, sono seguite le conformi Cass. n. 16262 del 2005, n. 16263 del 2005, n. 4306 del 2008; inoltre Cass. n. 18512 del 2007, con motivazione che ricostruisce il significato del precetto di cui all'art. 282 c.p.c., autonomamente rispetto a Cass. n. 21367 del 2004, ha ritenuto provvisoriamente esecutivi i capi condannatori accessori a pronuncia costitutiva: la motivazione di questa sentenza è idonea anche a superare le perplessità affacciate nel ricorso - sulla base di Corte costituzionale n. 232 del 2004 (peraltro discutibilmente supponente che la sentenza n. 21367 del 2004 abbia usato la nozione di accessorietà nel significato rilevante ai fini delle modificazioni della competenza per ragioni di connessione ai sensi dell'art. 31 c.p.c.) - circa l'utilizzazione della nozione di accessorietà ai fini della condanna nelle spese.... la sentenza n. 232 del 2004 del Giudice delle leggi, pur avendo un dispositivo di rigetto, ha, in realtà, la sostanza di una declaratoria di inammissibilità, in quanto la Corte costituzionale esaurisce espressamente la motivazione dicendo che la questione sollevata dal rimettente è fondata su un erroneo presupposto interpretativo, che cioè l'art. 282 c.p.c., sia idoneo a giustificare l'esecutorietà del capo sulle spese di una sentenza non condannatoria nel merito.


Poichè siffatta lettura dell'art. 282 c.p.c., è stata offerta dalla Corte costituzionale non già con una pronuncia interpretativa di rigetto, per evidenziare, com'è suo tipico compito, un'interpretazione che renderebbe superabile la questione di costituzionalità dell'art. 282 c.p.c., nella specie non può venire in rilievo il principio di diritto che regola in punto di interpretazione i rapporti fra l'interpretazione del Giudice delle leggi e quella della Corte di cassazione e degli altri giudici.


Principio che è stato condivisibilmente così espresso: con la sentenza interpretativa di rigetto la Corte Costituzionale, nel ritenere non infondato il denunciato vizio di incostituzionalità della disposizione nella interpretazione non implausibile fornitane dal giudice a quo, in luogo di emettere una pronuncia caducatoria o additiva, indica una possibile, diversa interpretazione della stessa disposizione conforme a Costituzione. Tale interpretazione adeguatrice operata dal giudice delle leggi rappresenta un esito di merito del sindacato di costituzionalità che non interferisce con il controllo di legittimità rimesso alla Corte di Cassazione, ed ha un effetto vincolante per i giudici ordinari e speciali, non esclusa la stessa Corte di Cassazione, nel senso che essi non possono più accogliere quella interpretazione che la Corte costituzionale ha ritenuto, sia pure con una pronuncia di infondatezza della questione di legittimità costituzionale sottoposta al suo esame, viziata.


Essi possono solo risollevare la questione, ove non intendano aderire alla interpretazione adeguatrice del giudice delle leggi, nè ad altra interpretazione che, seppur diversa, ritengano patimenti conforme a Costituzione. (Cass. n. 166 del 2004). Viene, invece, in rilievo il principio - ribadito di recente da questa Corte ed espressione tendenziale del principio di tendenziale coerenza dell'ordinamento nelle varie manifestazioni delle competenze dei suoi organi - secondo il quale l'interpretazione di una norma sottoposta a scrutinio di costituzionalità, offerta dalla Corte costituzionale in una sentenza dichiarativa dell'infondatezza della questione, pur non essendo vincolante per il giudice chiamato successivamente ad applicare quella norma, rappresenta, per l'autorevolezza della fonte da cui proviene, un fondamentale contributo ermeneutico, che non può essere disconosciuto senza valida ragione: il fondamento comune delle due distinte attività, pur finalisticamente diverse, esige infatti che, al fine dell'utile risultato della certezza del diritto oggettivo, le interpretazioni non vengano a divergere, se non quando sussistano elementi sicuri per attribuire prevalenza alla tesi contraria a quella in precedenza affermata (Cass. n. 5747 del 2007).


Questo principio, peraltro, non si attaglia al caso di specie, nel quale il giudizio dinanzi alla giurisdizione ordinaria pervenuto a questa Corte non è quello in cui ha avuto luogo il giudicato costituzionale di rigetto (che, com'è noto, avuto riguardo all'art. 136 Cost., comma 1, non ha nemmeno un'efficacia preclusiva, potendo la questione non solo essere riproposta, sia pure con altri argomenti, ma addirittura potendo esserlo con gli stessi argomenti e ricevere una diversa risposta dalla Corte costituzionale in un diverso momento storico, come spesse volte è accaduto, non essendo la Corte stessa vincolata al suo precedente di rigetto). Viceversa, ciò che viene in rilievo nella specie è un principio più risalente, ancora una volta espressione del principio di tendenziale coerenza dell'ordinamento, pur nelle manifestazioni di competenza di organi diversi. Esso è quello secondo cui il fondamento comune delle interpretazioni, finalisticamente diverse, che compiono la Corte costituzionale e la Corte di cassazione esige che, ai fini dell'utile risultato della certezza del diritto obiettivo, le interpretazioni stesse non vengano a divergere, se non quando sussistano elementi sicuri per attribuire prevalenza alla tesi contraria a quella in precedenza affermatasi e saldamente costituita nella communis opinio dottrinale e giurisprudenziale (Cass. sez. un. n. 2175 del 1969).


Ora, è vero che l'affermazione direttamente riferita all'esegesi dell'art. 282 c.p.c. si inserisce nel solco della tradizionale interpretazione che legava l'esecutività alla sentenza di condanna nel merito, ma non ne fa proprie le premesse, posto che non esclude che l'esecutività possa riferirsi anche ai capi condannatoli di merito accessori a capi di accertamento o costitutivi che ne siano il presupposto, bensì sceglie di seguire un percorso argomentativo nuovo, cioè l'intendere la condanna nelle spese come estranea alla logica dell'anticipazione di tutela sostanziale rispetto al giudicato che sarebbe sottesa ad una norma come l'art. 282 c.p.c., (e lo sarebbe stata quando l'esecutività era riferita alla sentenza di secondo grado). Si tratta di una logica che, innanzi tutto è espressione di attività interpretativa che non assume a fondamento alcuna giustificazione costituzionale, cioè non si pone al livello dei principi costituzionali, e che, dunque, non può essere ritenuta espressione di esercizio da parte della Corte costituzionale della sua attività istituzionale di interprete dell'ordinamento costituzionale. Ne consegue che essa, ferma l'autorevolezza dell'organo da cui proviene, si pone sul piano della normale esegesi interpretativa e, pertanto, come tale può essere oggetto di dissenso, specie da parte del giudice cui compete istituzionalmente lo svolgimento della c.d. funzione di nomofilachia, atteso altresì che nella dottrina processualcivilistica da tempo era stato posto in discussione l'orientamento tradizionale. Peraltro, nella specie i passaggi argomentativi con i quali la sentenza mostra di ricollegare l'esecutività di cui dice l'art. 282 c.p.c., alla sentenza di condanna nel merito non sono nemmeno espliciti nell'individuate il fondamento di un simile collegamento esclusivo. Là dove precisano che il fondamento della condanna nelle spese è il principio di soccombenza non chiariscono perchè, una volta che il principio della soccombenza ha trovato manifestazione per il tramite del potere del giudice in una condanna, tale condanna, quale amminicolo della tutela in giudizio del diritto del convenuto che ha avuto ragione non debba trovare immediate attuazione. Va detto, semmai, che il lettore della sentenza - e ne è prova il commento che la sentenza ha ricevuto in dottrina - dall'accento posto dalla Corte sul valore del principio di soccombenza ricava l'impressione che la Corte, pur opinando che non sia l'art. 282 c.p.c., la chiave per giustificare l'esecutività del capo condannatorio alle spese giudiziali accessorio a sentenza di rigetto della domanda di merito, ritenga, in realtà, che tale esecutività si giustifichi proprio come implicazione del principio di soccombenza. Se, infatti, la giustificazione ultima di quest'ultimo è che il soggetto che agisce o resiste in giudizio non deve, se ha ragione, subire (almeno di regola: l'eccezione è il potere di compensazione) sacrifici per essere stato costretto ad agire o a resistere in giudizio, quali quelli del costo del processo, allora appare giustificato che, mano a mano che il processo segue il suo corso, l'autorità della decisione non definitiva possa giustificare l'esecutività immediata del capo sulle spese. Di modo che essa si giustifica per le ragioni poste a base dell'orientamento interpretativo sull'art. 282 c.p.c., ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte siccome espresse da Cass. n. 18512 del 2007. Esse non sono basate sul concetto di accessorietà cui allude il Giudice delle leggi e da Esso non sono state in alcun modo esaminate ed anzi parrebbero, come non ha mancato di rilevare la dottrina, ricevere surrettizio avallo. In fine, nel senso dell'orientamento qui condiviso, si veda, da ultimo, Cass. n. 16003 del 2008. Il ricorso, conclusivamente, dovrebbe essere dichiarato manifestamente infondato".


Dev'essere, dunque, ribadito che il capo condannatorio relativo alle spese accessorie ad una sentenza di primo grado di rigetto della domanda è immediatamente esecutivo ai sensi dell'art. 282 c.p.c.."

Cass. civ. Sez. III, Sent., 27-07-2012, n. 13373

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