02 agosto 2012

L'area dei soggetti non fallibili delineata attraverso la previsione di una soglia quantitativa


"Il ricorrente muove dall'errato presupposto che, nel regime anteriore all'entrata in vigore dei decreti legislativi nn. 5/06 e 167/07, l'accertamento della qualità di piccolo imprenditore - non soggetto a fallimento ai sensi dell'art. 2221 c.c., e del precedente testo della L. Fall., art. 1 - prescindesse totalmente dalla verifica dei parametri dimensionali dell'impresa.


In contrario, anche sotto la previgente disciplina, questa Corte ha costantemente affermato che la prevalenza del lavoro sul capitale, quale criterio identificativo del piccolo imprenditore non fallibile, andasse apprezzata in concreto, tenendo conto dell'attività svolta, dell'organizzazione dei mezzi impiegati, dell'entità dell'impresa e delle ripercussioni che il dissesto produce nell'economia generale (cfr. Cass. nn. 2455/08,3690/200, nonchè, in tema di impresa artigiana, fra le tante, Cass. nn. 12847/05, 20640/04, 18835/02, che escludono la rilevanza, ai fini della fallibilità, dell'iscrizione all'apposito albo).


Il legislatore della riforma, peraltro, proprio allo scopo di superare i contrasti interpretativi sorti in ordine alla nozione di piccolo imprenditore, ha delimitato l'area dei soggetti non fallibili non più attraverso il rinvio all'art. 2083 c.c., ma attraverso la previsione di una soglia quantitativa (riferita ai tre requisiti, da considerare congiuntamente, dell'attivo patrimoniale, dei ricavi e dell'ammontare dell'indebitamento) al di sotto della quale non può farsi luogo alla dichiarazione di insolvenza (Cass. n. 13086/010).


Come correttamente osservato dalla Corte di merito, l'introduzione di concreti criteri dimensionali, in luogo dell'astratto criterio della prevalenza del lavoro sul capitale, ha indubbiamente ampliato il novero degli imprenditori non assoggettabili a fallimento, includendovi anche gli esercenti di attività commerciali che non sarebbero mai state considerate "piccole" ai sensi dell'art. 2083 c.c.: tuttavia la questione sollevata dal ricorrente (se la L. Fall., art. 1, comma 2, riformata abbia ridefinito la portata dell'art. 2083 c.c., creando una sorta di nuova categoria di piccolo imprenditore, o se, piuttosto, abbia introdotto una deroga all'art. 2221 c.c., rendendo fallibili anche i piccoli imprenditori che abbiano superato, negli ultimi tre anni di attività, 300.000 Euro di attivo patrimoniale o 200.000 Euro di ricavi, od abbiano contratto debiti per un ammontare superiore ai 500.000 Euro) è, nella specie, del tutto priva di rilievo, posto che ciò che la norma stabilisce con chiarezza è che spetta all'imprenditore di dimostrare il possesso congiunto dei requisiti dimensionali che escludono la sua fallibilità.


Tanto, del resto, in piena coerenza con il principio di prossimità della prova vigente nel nostro ordinamento (Cass. n. 13533/01, e, nel suo solco, Cass. nn. 17874/07, 9439/08), non potendosi porre a carico del creditore l'onere di allegare dati contabili di cui non ha la disponibilità e che sono, invece, nella piena disponibilità del debitore.


L'assunto del L., secondo cui tale onere andrebbe capovolto qualora il debitore sia qualificabile piccolo imprenditore ai sensi dell'art. 2083 c.c., sembra, d'altro canto, fondarsi sull'esistenza di una sorta di presunzione - non ricavabile dalle norme codicistiche - di appartenenza a tate categoria di coloro che sono iscritti nella specifica sezione del R.I. e che esercitano l'impresa in via individuale e non tiene conto che, anche alla stregua della disciplina civilistica, la prevalenza dell'apporto personale del titolare rispetto al capitale investito andrebbe accertata in concreto.

Con il terzo motivo, L. solleva questione di legittimità costituzionale della L. Fall., art. 1, comma 2, per violazione dell'art. 3 Cost., nella parte in cui addossa al debitore l'onere di provare la propria non assoggettabilità a fallimento.


Anche questo motivo è infondato.


La questione è stata infatti già esaminata e dichiarata inammissibile dal giudice delle leggi che, con la sentenza n. 198 del 2009, ha sottolineato come l'eventuale ribaltamento dell'onere della prova sul creditore o sul P.M. renderebbe spesso impossibile per costoro ottenere l'accoglimento dell'istanza proposta ed ha altresì rilevato che, in materia, residua in ogni caso in capo al Tribunale un ampio potere officioso di indagine, il cui uso prudente e consapevole costituisce strumento di per sè idoneo ad evitare, nei limiti di quanto ragionevolmente dovuto, che siano dichiarati fallimenti che, date le caratteristiche del debitore, sarebbero ingiustificati."

Cass. civ. Sez. I, Sent., 30-07-2012, n. 13542

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