20 novembre 2014

Non è certo madre natura a stabilire i criteri di riparto delle incombenze domestiche. La Cassazione "bacchetta" la CdA di Venezia.

Nel merito il motivo è fondato con riferimento a tutti e due i ricorrenti, ed a tutti e due i vizi che hanno denunciato.

3.4. Per quanto concerne la posizione del sig. P.A., sussiste il lamentato vizio di motivazione, sotto il profilo della contraddittorietà.

La Corte d'appello, infatti, dopo avere affermato - correttamente - che il lavoro domestico è una utilità suscettibile di valutazione economica, e che la perduta possibilità di svolgerlo costituisce un danno risarcibile, ha nel caso di specie negato che l'attore avesse patito tale danno, sul presupposto che "non rientra nell'ordine naturale delle cose che il lavoro domestico venga svolto da un uomo".

Tale motivazione è illogica per tre ragioni.

3.4.2. La prima ragione di illogicità è che (a prescindere da qualsiasi considerazione circa l'esistenza o meno d'un ordine "naturale" delle cose: felix qui potuit rerum cognoscere causas) non è certo madre natura a stabilire i criteri di riparto delle incombenze domestiche tra i coniugi. Tale riparto è ovviamente frutto di scelte soggettive e di costumi sociali, le une e gli altri nemmeno presi in considerazione dalla Corte d'appello.

3.4.3. La seconda ragione di illogicità consiste nel fatto che l'affermazione della Corte d'appello è contraria al fondamentale principio giuridico di parità e pari contribuzione dei coniugi ai bisogni della famiglia, sancito dall'art. 143 c.c., commi 1 e 3: ed in mancanza di prove contrarie, che sarebbe stato onere dei convenuti addurre e che non furono addotte, è ragionevole presumere che i cittadini conformino la propria vita familiare ai precetti normativi, piuttosto che il contrario.

3.4.4. La terza ragione di illogicità della motivazione della Corte d'appello consiste nel fatto che secondo l'id quod plerumque accidit qualunque persona non può fare a meno di occuparsi di una certa aliquota del lavoro domestico: non foss'altro per quanto attiene le proprie personali esigenze.

Pertanto dal fatto noto che una persona sia rimasta vittima di lesioni che l'abbiano costretta ad un lungo periodo di rilevante invalidità, è possibile risalire al fatto ignorato che a causa dell'invalidità non abbia potuto attendere al menage familiare. La Corte d'appello, invece, ha capovolto tale deduzione logica, assumendo che dal fatto noto del sesso (maschile) dell'infortunato fosse possibile risalire al fatto ignorato che egli si disinteressasse completamente di qualsiasi attività domestica.

3.5. Fondato è altresì il ricorso con riferimento alla posizione della sig.a B.C..

La Corte d'appello ha rigettato la domanda di risarcimento del danno patrimoniale da perduta possibilità di attendere alle occupazioni domestiche, formulata dalla sig.a B.C., con una duplice ratio decidendi:

(a) da un lato, ha affermato che di tale perdita aveva tenuto conto nella liquidazione del danno non patrimoniale (peraltro senza indicare in che modo e misura, sicchè anche la motivazione sul punto finisce per essere una mera clausola di stile);

(b) dall'altro, ha soggiunto che la vittima non aveva dimostrato che a causa della malattia del marito avesse dovuto abbandonare "completamente e quotidianamente" le occupazioni domestiche.

Si tratta di due affermazioni gravemente erronee.

3.5.1. E' indubitabile che l'abbandono delle cure domestiche, ed in particolare la forzosa rinuncia ad occuparsi di figli minori, possano in teoria costituire un danno non patrimoniale.

E' altrettanto indubitabile che tale pregiudizio non ha nulla a che vedere con il danno patrimoniale consistito nella perduta possibilità di svolgere una attività suscettibile di valutazione economica come il lavoro domestico.

La forzosa rinuncia alle occupazioni domestiche, a causa di un infortunio, è infatti un pregiudizio che può riverberare effetti tanto sul piano non patrimoniale (ad es., la sofferenza per dovere delegare a terzi le cure parentali), quanto su quello patrimoniale (ad es., essere costretti a pagare una persona cui affidare le incombenze un tempo disimpegnate in prima persona).

L'uno e l'altro profilo sono tra loro distinti e separati: il primo non implica il secondo, e viceversa; così come possono i due pregiudizi essere contemporaneamente presenti o contemporaneamente inesistenti.

Pertanto la circostanza che nella liquidazione del danno patrimoniale per le lesioni sofferte da un prossimo congiunto si sia tenuto conto anche del dolore causato dalla forzosa rinuncia al lavoro domestico non esime il giudice dall'accertare e liquidare l'esistenza del danno patrimoniale eventualmente conseguito alla medesima rinuncia.

La sentenza è dunque illogica, per avere ritenuto legati da un nesso di alternatività (espresso dalla congiunzione latina "aut": o l'uno o l'altro, ma non tutti e due) due danni che invece erano tra loro autonomi (rapporto espresso nella logica formale dalla congiunzione latina "aut": o l'uno, o l'altro, o tutti e due, o nessuno), e cioè il danno patrimoniale e quello non patrimoniale. La Corte ha infatti negato il risarcimento del primo per avere risarcito il secondo, senza che i due risarcimenti fossero tra loro incompatibili.

3.5.2. Non meno erronea è la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui ha negato il risarcimento del danno in esame sul presupposto che la vittima non avesse dimostrato di avere "completamente e quotidianamente" abbandonato il lavoro domestico.

La perduta possibilità di svolgere lavoro domestico costituisce un danno patrimoniale, pari al costo ideale di un collaboratore cui affidare le incombenze che la vittima non ha potuto sbrigare da sè.

Questo danno, ovviamente, può essere totale, se la vittima è costretta a rinunciare allo svolgimento di qualsiasi attività domestica; ovvero parziale, se in conseguenza dell'illecito viene ridotto, ma non soppresso, il tempo che il danneggiato dedicava alle incombenze domestiche.

Pertanto rigettare la domanda di risarcimento del danno in esame sul presupposto che sarebbe mancata la prova di un allontanamento "completo e quotidiano" della sig.a B.C. dai lavori domestici è affermazione per un verso illogica, perchè sembra non ammettere che il danno patrimoniale possa essere totale o parziale; e comunque illegittima, perchè introduce una sorta di regola del "tutto o niente" che, in materia di danno aquiliano, è vietata dall'art. 1223 c.c.. Tale norma infatti, ammettendo al risarcimento i danni che sono "conseguenza immediata e diretta" del fatto illecito, rivela implicitamente che qualsiasi pregiudizio debba essere risarcito in misura proporzionale alla perdita subita dalla vittima, che sia essa totale o parziale.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 18-11-2014, n. 24471

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