15 dicembre 2013

Appropriazione indebita per l’avvocato che trattiene le somme del cliente. Inutile tentare la "via" della compensazione

Il ricorso è manifestamente infondato.

Come rilevano esattamente i giudici di merito, il fatto che il F. potesse in astratto pretendere dai propri clienti, a titolo di compenso professionale, somme maggiori di quelle liquidate a carico delle parti soccombenti con la sentenza civile, è del tutto indifferente nelle valutazioni del caso. Nel momento in cui il ricorrente trattenne per sè non solo le spese legali liquidate in sentenza, ma anche le somme destinate ai clienti, egli non poteva infatti vantare alcuna maggiore pretesa per compensi professionali, non avendo mai agito per ottenerne il riconoscimento. Ciò, anche a prescindere dall'ulteriore, corretto rilievo, contenuto in sentenza, che nemmeno per le spese legali liquidate dal giudice civile egli avrebbe potuto operare alcuna Trattenuta", non avendone chiesto la distrazione ai sensi dell'art. 93 c.p.c..

Nella specie, il ricorrente non può quindi in alcun modo invocare il principio secondo cui l'omessa restituzione della cosa e la sua ritenzione a titolo precario, a garanzia di un preteso diritto di credito, non integra il reato di appropriazione indebita ai sensi dell'art. 646 c.p., in quanto non modifica il rapporto tra il detentore ed il bene attraverso un comportamento oggettivo di disposizione "uti dominus" e l'intenzione soggettiva di interversione del possesso (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10774 del 25/01/2002, Imputato: Vollero), perchè egli non aveva alcun maggior credito certo, liquido ed esigibile in relazione all'opera professionale prestata a favore delle persone offese, e peraltro nemmeno ha dedotto di avere mai rappresentato ai clienti di non potersi ritenere soddisfatto della liquidazione giudiziale (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9225 del 06/07/1988, Imputato: LIANI, secondo cui nel reato di appropriazione indebita non può essere fatto valere il principio della compensazione con credito preesistente, allorchè si tratti di crediti non certi nel loro ammontare, nè liquidi nè esigibili; a fortiori il principio vale nel caso di specie, perchè, in definitiva, il presunto maggior credito del ricorrente per compensi professionali era assolutamente incerto anche nell'an, non essendo affatto scontato che la liquidazione giudiziale delle spese del processo civile dovesse essere ritenuta inadeguata).

Non si vede, quindi, quale "inadempimento" il F. potesse contestare alle persone offese, sul quale innestare il diritto di ritenzione delle somme ricevute per loro conto, che avrebbe dovuto invece senz'altro versare ai propri clienti. Le circostanze del fatto sono state poi adeguatamente valorizzate dai giudici di merito come prova dell'interversio possessionis, essendo in effetti la volontà appropriativa desumibile dal silenzio a lungo serbato dall'imputato sull'importo delle somme effettivamente percepite nell'interesse dei clienti, che ignari dell'esecuzione della sentenza civile ad opera della parte soccombente, avevano avviato le procedure coattive per il recupero del proprio credito.

In conclusione, del tutto correttamente la sentenza impugnata ha applicato al caso di specie il principio secondo cui commette il delitto di appropriazione indebita il mandatario che, trattenga definitivamente la somma ricavata dall'esecuzione del mandato invece di rimetterla al mandante (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 46586 del 29/11/2011 imputato Semenzato e altro); e altrettanto correttamente ha escluso che l'astratta previsione normativa del diritto di ritenzione valesse a scriminare il ricorrente, in assenza di qualunque accertamento del diritto sostanziale presidiato dalla garanzia speciale (in sentenza è citata Cass. 19.11.1998 nr. 1410).

Alla stregua delle precedenti considerazioni il ricorso va dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 1.000,00 alla cassa delle ammende, commisurata all'effettivo grado di colpa dello stesso ricorrente nella determinazione della causa di inammissibilità.

Corte di cassazione – Sezione II penale – Sentenza 29 novembre 2013 n. 47410

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