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16 ottobre 2012
Giustificato motivo aggettivo di licenziamento - Dequalificazione: equivalenza nelle mansioni e "ius variandi"
"Secondo l'indirizzo costante di questa Suprema Corte, nella nozione di giustificato motivo aggettivo di licenziamento è riconducibile anche l'ipotesi del riassetto organizzativo dell'azienda attuato al fine di una più economica gestione di essa e deciso dall'imprenditore non semplicemente per un incremento del profitto, ma per far fronte a sfavorevoli situazioni, non meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, imponendo una effettiva necessità di riduzione dei costi.
Tale principio consolidato (che non può che essere riaffermato anche nelle ipotesi di "esternalizzazione" o "terziarizzazione" di compiti o servizi, così come in quelle di "ridistribuzione" delle mansioni) va, poi, coordinato con il principio, parimenti costantemente affermato, secondo cui "il motivo oggettivo di licenziamento determinato da ragioni inerenti all'attività produttiva, nel cui ambito rientra anche l'ipotesi di riassetto organizzativo attuato per la più economica gestione dell'impresa, è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, atteso che tale scelta è espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost., mentre al giudice spetta il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall'imprenditore", con la conseguenza che "non è sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente licenziato, sempre che risulti l'effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operalo, nè essendo necessario, ai fini della configurahilità del giustificato motivo, che vengano soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato, ben potendo le stesse essere solo diversamente ripartite ed attribuite".
In definitiva, quindi, la insindacabilità del merito della scelta imprenditoriale non è di ostacolo alla verifica in concreto da parte del giudice della effettività della scelta operata dall'imprenditore, della non pretestuosità della stessa e della non mera strumentante della medesima soltanto ad un incremento del profitto.
In altre parole, ed in sostanza, il giudice deve pur sempre riscontrare nel concreto, seppure senza ingerenza alcuna nelle valutazioni di congruità e di opportunità economico-gestionale, quella "inerenza" della scelta imprenditoriale e delle "ragioni" del conseguente licenziamento, "all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa", richiesta dalla L. n. 604 del 1966, art. 3.
In tale quadro è stato, pertanto, ulteriormente precisato che "il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, della L. 15 luglio 1966, ex art. 3, è determinato non da un generico ridimensionamento dell'attività imprenditoriale, ma dalla necessità di procedere alla soppressione del posto o del reparto cui è addetto il singolo lavoratore, soppressione che non può essere meramente strumentale ad un incremento di profitto, ma deve essere diretta a fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti; il lavoratore ha quindi il diritto a che il datore di lavoro (su cui incombe il relativo onere) dimostri la concreta riferibilità del licenziamento individuale a iniziative collegate ad effettive ragioni di carattere produttivo-organizzativo e non ad un mero incremento di profitti e che dimostri, inoltre, la impossibilità di utilizzare il lavoratore stesso in altre mansioni equivalenti a quelle esercitate prima della ristrutturazione aziendale" (v.. Cass. n. 21282 del 2006).
In ogni caso, se il motivo consiste nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, - in relazione al quale non sono utilizzabili nè il normale criterio della posizione lavorativa da sopprimere, nè il criterio dalla impossibilità di repechage - il datore di lavoro deve pur sempre improntare l'individuazione del soggetto (o dei soggetti) da licenziare ai principi di correttezza e buona fede, cui deve essere informato, ai sensi dell'art. 1175 c.c., ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio e, quindi, anche il recesso di una di esse (Cass. n. 7046 del 2011).
[...]
L'art. 2103 c.c., sancisce: il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte.
Come affermato dalla giurisprudenza di legittimità (Cass., n. 1575 del 2010), non vi è alcun obbligo per il datore di lavoro di tener ferme le mansioni di assunzione, ma in caso spostamento ad altre mansioni, vi è obbligo di adibire il dipendente a mansioni equivalenti. Quindi, quali che siano le ragioni della modifica delle mansioni (tanto nel caso in cui le mansioni originarie siano assegnate ad altro dipendente, che nel caso in cui le stesse sì siano esaurite), lo spostamento del lavoratore ad altre mansioni deve attenersi alla regola della equivalenza.
Ai fini della verifica del legittimo esercizio dello "ius variandi" da parte del datore di lavoro deve essere valutata dal giudice di merito - con giudizio di fatto incensurabile in cassazione ove adeguatamente motivato - la omogeneità tra le mansioni successivamente attribuite e quelle di originaria appartenenza, sotto il profilo della loro equivalenza in concreto rispetto alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto ed alla utilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal dipendente nella pregressa fase del rapporto e nella precedente attività svolta (Cass. n. 425 del 2006).
Nella specie, la Corte d'Appello, peraltro con logica ed adeguata motivazione, ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi, ritenendo sussistente la dequalificazione del C., dalla data del distacco ad altra società, in quanto i contratti conclusi dallo stesso venivano assegnati ad altri lavoratori dipendenti di altra società, e tale assegnazione non poteva essere giustificata genericamente, allegando che le due società avevano gli stessi clienti, in assenza di dettagli sui contratti (data, nome del cliente, contenuto e valore); ciò, in particolare, tenuto conto delle competenze, per il settore marketing, acquisite dal C. nel settore commerciale.
Rimane priva di pregio la deduzione della ricorrente che ciò non avrebbe costituito un abbassamento del livello professionale del C., in quanto l'attività principale di quest'ultimo consisteva nel reperire nuovi clienti e non gestire clienti già acquisiti.
Ed infatti, da un lato, ciò conferma quanto affermato dalla Corte d'Appello in ordine al fatto che la gestione dei clienti acquisiti rientrava nell'attività del C.; dall'altro, il giudice di appello, alla luce della valutazione complessiva delle risultanze istruttorie, riteneva intervenuta la dequalificazione dal momento che i clienti più importanti erano stati assegnati ad altri lavoratori, mentre al C. erano stati lasciati clienti di scarsa importanza, così che lo stesso aveva un numero di clienti inferiore rispetto al passato."
Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 08-10-2012, n. 17087
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