23 marzo 2018

E' dovere professionale di un avvocato, che non può ridursi al ruolo di mero nuncius del cliente, filtrare le richieste e i desiderata dello stesso.

"In punto di diritto deve ribadirsi che il dovere dell’avvocato di sostenere la difesa della parte assistita con il massimo dell’impegno e della fermezza trova un limite nei doveri di probità, correttezza e lealtà, talché la libertà nella difesa della parte non può tradursi, da un lato, nell’utilizzo di forme espressive non consoni al decoro e alla dignità della professione e, dall’altro lato, nell’impiego di azioni o iniziative in sé legittime, ma che - in una doverosa logica improntata a criteri di adeguatezza e proporzionalità - risultano eccessive. In esplicazione di tale principio, in particolare, l’art. 48 del CdF vigente all’epoca dei fatti da giudicare (ed ora l’art. 65 del nuovo Codice Deontologico, che punisce la violazione dei doveri ivi previsti con la sanzione edittale della censura) sanziona specificamente la condotta dell’avvocato che tenta di ottenere che altri ponga in essere determinate condotte (ossia, secondo la dizione letterale della disposizione, che intima “particolari adempimenti”) “sotto comminatoria”, ossia minacciando, “azioni o iniziative sproporzionate o vessatorie”. In buona sostanza, la disposizione citata ha come ratio quella di contemperare le esigenze di difesa con il necessario rispetto della libertà di determinazione della controparte (così, tra le altre: CNF 12 dicembre 2013, n. 204), talché le iniziative legali prospettate o minacciate onde ottenere “particolari adempimenti” devono essere sempre calibrate al principio di proporzionalità, che esige che dette iniziative e/o azioni debbono essere poste in correlazione funzionale alle altrui inadempienze, così che esse non devono in alcun modo determinare il timore di subire pregiudizi, anche di ordine extra giudiziario, eccessivi ed ingiusti al fine di esercitare nel destinatario una indebita pressione psicologica, nel tentativo di coartarne la libera determinazione. In tale logica, ad esempio, questo Consiglio ha ritenuto che integra violazione dell’art. 48 CdF la comunicazione con la quale l’avvocato “senza alcuna necessità giuridica e funzionale all’attività difensiva, rappresenti alla controparte un rilevante pregiudizio anche dì ordine extra-giudiziario al fine implicito di esercitare una indebita pressione, come nel caso della riserva di sporgere denuncia penale in relazione a comportamenti invece privi di penale rilevanza” (CNF, 26 settembre 2014, n. 112), dal momento che la prospettazione di una tale iniziativa, in sé lecita, risulta in concreto del tutto sproporzionata e vessatoria, sì da configurare una “minaccia” indebita.

[...]

Rientra, infatti, nei doveri professionali di un avvocato (che non può ridursi al ruolo di mero nuncius del cliente) filtrare le richieste e i desiderata dello stesso, allineandoli, ove divergenti, ai canoni imposti dal corretto agire professionale, tra cui quello previsto nel menzionato articolo 48 del previgente CdF per il quale l’intimazione di una qualsiasi azione o iniziativa non è più lecita e si trasforma in minaccia, in quanto tale sanzionabile disciplinarmente, quando l’avvocato prospetti di avviare azioni o di prendere iniziative, come nel caso, sicuramente sproporzionate e eccessive."

CNF, sentenza n. 221/2017, del 22.12.2017


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