15 dicembre 2013

Dolo processuale revocatorio ed attività incompiuta dell’avvocato

I motivi - che, per la loro evidente connessione fattuale, logica e giuridica, si prestano ad un esame congiunto - sono infondati, avendo la sentenza impugnata fatto corretta applicazione dell'art. 395 c.p.c., in relazione alla fattispecie concreta, siccome ricostruita con valutazioni congrue e logiche.

Si osserva, innanzitutto, in conformità a costante giurisprudenza (S.U. n. 9213/1990, e, fra le molte, Cass. nn. 888/2001, 5068/1995, 7576/1994, 4833/1991, 1128/1987), che il dolo processuale di una delle parti in danno dell'altra in tanto può costituire motivo di revocazione della sentenza, ai sensi dell'art. 395 c.p.c., n. 1, in quanto consista in un'attività deliberatamente fraudolenta, concretantesi in artifici o raggiri tali da paralizzare o sviare la difesa avversaria e impedire al giudice l'accertamento della verità, facendo apparire una situazione diversa da quella reale. Di conseguenza, non sono idonei a realizzare la fattispecie descritta la semplice allegazione di fatti non veritieri favorevoli alla propria tesi, il silenzio su fatti decisivi della controversia o la mancata produzione di documenti, che possono configurare comportamenti censurabili sotto il diverso profilo della lealtà e correttezza processuale, ma non pregiudicano il diritto di difesa della controparte, la quale resta pienamente libera di avvalersi dei mezzi offerti dall'ordinamento al fine di pervenire all'accertamento della verità (Cass. 19 settembre 2008, n. 23866; Cass. 12 febbraio 2013, n. 3488).

Per integrare la fattispecie del dolo processuale revocatorio ai sensi dell'art. 395 c.p.c., n. 1, non è, dunque, sufficiente la sola violazione dell'obbligo di lealtà e probità previsto dall'art. 88 c.p.c., nè, in linea di massima, sono di per sè sufficienti il mendacio, le false allegazioni o le reticenze, ma si richiede un'attività intenzionalmente fraudolenta che si concretizzi in artifici o raggiri subiettivamente diretti e oggettivamente idonei a paralizzare la difesa avversaria e a impedire al giudice l'accertamento della verità. (Cass. 26 gennaio 2004, n. 1369). In particolare se è vero che, secondo un orientamento peraltro risalente nel tempo (cfr. Cass., S.U., n. 9213 del 1990), anche il silenzio su fatti decisivi può integrare gli estremi del dolo processuale revocatorio, è pur vero che ciò può avvenire soltanto a condizione che esso costituisca elemento essenziale di un'attività diretta a trarre in inganno la controparte e idonea, in relazione alle circostanze, a sviarne o pregiudicarne la difesa e a impedire al giudice l'accertamento della verità. Ne consegue che il silenzio può configurare dolo revocatorio della sentenza, ai sensi dell'art. 395 c.p.c., comma 1, n. 1, solo se rappresenti elemento di una macchinazione fraudolenta, che abbia concretamente inciso sul contraddittorio e sul diritto di difesa o, comunque, sull'accertamento della verità (Cass. 29 gennaio 2002, n. 1155).

Nulla di tutto ciò risulta essersi verificato nel caso di esame, in cui il comportamento incriminato si è concretato nell'omettere al giudice del monitorio che alcuni compensi richiesti con il ricorso per ingiunzione (disamina, redazione e carteggio) si riferivano ad un atto di appello per il quale era già scaduto il termine per la sua proposizione. A tal riguardo la Corte di appello ha escluso che sia stata acquisita la dimostrazione che "l'avv. F. abbia agito in perfetta mala fede con la piena consapevolezza di danneggiare volutamente e coscientemente il cliente al fine di lucrare somme non dovute" (e precisamente per la fase di appello, la somma corrispondente ad attuali Euro 820,13), sottolineando che, a tali effetti, non era sufficiente dimostrare che il difensore avesse ottenuto un compenso non dovuto - come semplicisticamente ritenuto dal primo giudice - ma occorreva la prova, incombente sulla parte istante in revocazione, che tale risultato fosse il frutto di un'attività coscientemente e volutamente diretta ad ingannare.

Corte di cassazione – Sezione III civile – Sentenza 15 novembre 2013 n. 25761


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