10 novembre 2013

Il primo medico che sbaglia diagnosi è responsabile penalmente.

La Corte territoriale, dopo aver affermato che il ritorno a casa della vittima, su decisione dei suoi familiari, aveva costituito esercizio di pietas nei confronti di paziente che oramai non rispondeva a qualsiasi trattamento sanitario, al fine di non negargli "exitus più dignitoso in ambiente domestico", puntualmente chiarisce che il D., al momento della dimissione, versava in condizioni talmente gravi da doversi ritenere che il decesso sarebbe stato inevitabile di lì a qualche ora, anche ove trasportato in un centro dotato di servizio di rianimazione. Di poi, correttamente riprendendo il consolidato orientamento maturato in sede di legittimità, e del tutto condiviso da questo Collegio, sull'equivalenza delle cause, spiega che, se al primo tragico errore medico, causa dell'evento, sia seguito errore di altro sanitario, successivamente intervenuto, la condotta sopraggiunta, salvo i casi dell'eccezionalità e dell'imprevedibilità, giammai può costituire causa sopravvenuta escludente il rapporto di causalità.

Il ricorrente, invece che misurarsi con la precipua ed approfondita motivazione resa sul punto dalla Corte territoriale ha, inammissibilmente, riproposto la questione in termini piuttosto generici e anodini.

Dall'incontestate risultanze istruttorie emerge nitidamente che il povero D. al momento della sua ultima dimissione trovavasi in condizioni irreversibilmente indirizzate verso l'assai prossimo decesso: già il primo intervento chirurgico d'emergenza (diretto a bonificare il cavo peritoneale, invaso da gas purulento, liquido gastrico e ingesti e a suturare la perforazione gastrica) consegnò il paziente, affetto da shock settico, in stato di coma ipossico; il secondo intervento laparatomico (diretto a ripulire il peritoneo), non solo non raggiunse il difficile obiettivo di favorire la guarigione, ma ulteriormente aggravò le condizioni della vittima, già stremata e totalmente defedata, tanto da non lasciare presagire spazi vitali.

In una tale situazione la decisione di sospendere il trattamento ospedaliero non assume affatto i connotati di un evento imprevedibile ed eccezionale, estraneo alla tipicità della sequela eziologica.

Nè, in questa sede è rilevante affrontare la tematica evocata dal ricorrente concernente la perimetrazione dell'area del c.d. inutile accanimento terapeutico.

Il principio sopra enunciato trova consolidato retaggio nella ferma giurisprudenza di questa Corte. Così, per restare solo a taluni precedenti, scelti fra i tanti, come sopra si è ricordato, la successiva condotta, costituente colpa medica, pur se grave (se del caso, quindi, la decisione di dimettere il paziente), ove non abbia le caratteristiche dell'imprevedibilità ed inopinabilità (nel senso di estemporaneità, integrante fatto atipico), non interrompe il nesso di causalità (Cass., Sez. 4, n. 6215 del 10/12/2009; Cass., Sez. 4, n. 10815 del 9/10/1995); nè la mera accelerazione della produzione dell'evento, destinato comunque a compiersi, sulla base di una valutazione dotata di un alto grado di credibilità razionale, tenuto conto dell'evidenza disponibile, è capace d'ingenerare l'effetto sperato dal ricorrente (Cass., Sez. 4, n. 10430 del 6/11/2003).”.

Corte di cassazione – Sezione IV penale – Sentenza 30 agosto 2013 n. 35828

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