17 novembre 2013

Commette illecito penale la madre che minaccia il figlio di separarlo dalla nonna paterna.

Il ricorso è infondato. E' ben vero che la potestà genitoriale comprende la facoltà di stabilire in quale ambito - spaziale e personale - debba vivere il figlio, ma tale facoltà non può essere esercitata in contrasto con le "aspirazioni" dei figli (art. 147 c.c.) e, a maggior ragione, con i loro bisogni più profondi, giacchè, altrimenti, quella potestà si risolverebbe in una forma di tutela - ormai vieta ù di natura padronale: concezione da gran tempo superata da tutte le legislazioni moderne a noi più vicine e, tra queste, del legislatore italiano. Soprattutto, la potestà (tra poco "responsabilità") genitoriale non può essere esercitata per costringere il figlio a comportamenti funzionali alla soddisfazione di interessi - morali ed economici - del genitore e allo stesso tempo contrastanti con quelli, della stessa natura, del figlio, giacchè, in caso contrario, oltre alla risoluzione del conflitto d'interessi a vantaggio della parte più forte, si assisterebbe ad un utilizzo distorto delle facoltà concesse al genitore in funzione, invece, dell'interesse della famiglia e di quelle, preminenti, del minore stesso.

Nella specie il minore ha subito, da parte della madre, una forte pressione, rivolta a costringerlo a rimettere la querela presentata, contro di lei, dal padre, prima di morire. Pressione esercitata con la minaccia di separarlo dalla nonna paterna, con cui il ragazzo conviveva dalla morte del padre (2003) e con cui aveva stabilito un significativo rapporto affettivo; insieme alla quale aveva ritrovato uno spazio di vita funzionale alla sua serenità. E ciò è stato fatto dall'imputata non per migliorare la condizione del minore o per recuperare il rapporto con lui, ma per ottenere comportamenti che soddisfacevano il suo esclusivo interesse personale (contrastante con quello del figlio). Logica e coerente, oltre che giuridicamente corretta, è, pertanto, la conclusione cui è pervenuta la Corte d'appello, secondo cui la vicenda va ricondotta alla fattispecie di cui agli artt. 56 - 610 c.p., sotto forma di tentativo non andato in porto.

Infondato è anche il secondo motivo di ricorso. Correttamente la Corte d'appello ha rilevato che il minore ultra quattordicenne può rimettere la querela, per cui la minaccia esercitata dalla madre era idonea a produrre l'effetto avuto di mira. Il fatto che la rimessione della querela, operata dal minore, fosse soggetta ad "approvazione" del rappresentante (art. 153 c.p.) non elide la capacità offensiva della condotta, giacchè nessun "rappresentante" avrebbe potuto fare a meno di tener conto dei desiderata del minore (anche solo per contrastarli), con la conseguenza che, seppur la volontà di quest'ultimo non è, da sola, sufficiente a produrre l'effetto remissorio, è tuttavia sufficiente ad innescare il meccanismo funzionale alle remissione. E' di tutta evidenza, quindi, che "l'evento dannoso o pericoloso", di cui all'art. 49 c.p., non era affatto "impossibile" in conseguenza dell'azione della B., ma era nel novero delle alte probabilità, sol che alla remissione del minore si fosse accompagnata l'acquiescenza del rappresentante.aterna

Corte di cassazione – Sezione III penale – Sentenza 11 settembre 2001 n. 37324



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