01 aprile 2021

Reintegrazione non obbligatoria neppure quando l’insussistenza del fatto, posto a base del licenziamento economico, si connoti come manifesta ? Incostituzionale!

"3.– Nel merito, la questione è fondata.

4.– I dubbi di costituzionalità si concentrano sull’art. 18, settimo comma, secondo periodo, dello statuto dei lavoratori, così come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge n. 92 del 2012, nel quadro di un ampio intervento riformatore sulle tutele contro i licenziamenti illegittimi.

Il legislatore ha inteso ridistribuire «in modo più equo le tutele dell’impiego» anche mediante l’adeguamento della disciplina dei licenziamenti «alle esigenze del mutato contesto di riferimento» e la previsione «di un procedimento giudiziario specifico per accelerare la definizione delle relative controversie» (art. 1, comma 1, lettera c, della legge citata).

All’originario modello, incentrato sulla tutela reintegratoria per tutte le ipotesi di nullità, annullabilità e inefficacia del licenziamento, fanno riscontro quattro regimi, applicabili ai rapporti a tempo indeterminato instaurati fino al 7 marzo 2015. A decorrere da questa data si dispiega la disciplina introdotta dal decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), che si caratterizza per una diversa ratio e per un diverso regime di tutele.

Si deve ricordare che la tutela reintegratoria piena, indipendentemente dal numero dei dipendenti occupati, si applica nelle ipotesi di licenziamento discriminatorio, nullo per causa di matrimonio o di maternità o di paternità, retto da motivo illecito determinante o dichiarato inefficace perché intimato in forma orale. Il giudice reintegra il lavoratore e gli riconosce un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, con detrazione di quel che il lavoratore abbia percepito per effetto dello svolgimento di altre attività lavorative (l’aliunde perceptum). L’importo minimo, invalicabile, è di cinque mensilità.

Il lavoratore, in sostituzione della reintegrazione, può chiedere al datore di lavoro un’indennità pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, senza rinunciare al risarcimento del danno patito nel periodo tra l’estromissione e la richiesta dell’indennità sostitutiva, che già risolve il rapporto di lavoro.

L’art. 18 dello statuto dei lavoratori, così come novellato nel 2012, prevede, inoltre, una tutela reintegratoria attenuata e una tutela indennitaria, declinata in forma piena e ridotta, e ne sancisce l’applicazione ai datori di lavoro che occupino più di quindici dipendenti (cinque, se si tratta di imprese agricole) nell’unità produttiva in cui ha avuto luogo il licenziamento o nell’àmbito dello stesso Comune o che occupino complessivamente, sia pure in diverse unità produttive, più di sessanta dipendenti.

La tutela reintegratoria attenuata, invocata nell’odierno giudizio, contempla la reintegrazione nel posto di lavoro, al pari della tutela reintegratoria piena, ma limita a dodici mensilità l’ammontare dell’indennità risarcitoria che il datore di lavoro è obbligato a corrispondere dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione. Da tale importo, peraltro, deve essere detratto non solo quel che il lavoratore abbia guadagnato in virtù di altre occupazioni (l’aliunde perceptum), ma anche quel che avrebbe potuto guadagnare adoperandosi con l’ordinaria diligenza nella ricerca di un’altra attività lavorativa (l’aliunde percipiendum). Anche in questo caso il lavoratore ha la facoltà – in concreto esercitata nel giudizio principale – di optare per l’indennità sostitutiva della reintegrazione.

Tale tutela si applica ai licenziamenti disciplinari, per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, allorché il giudice riscontri l’insussistenza del fatto contestato o la riconducibilità del fatto alle condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi o dei codici disciplinari.

La tutela reintegratoria attenuata sanziona anche i licenziamenti intimati senza giustificazione «per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore», o intimati in violazione delle regole che, nell’àmbito del licenziamento per malattia, disciplinano il periodo di comporto (art. 2110 del codice civile).

Nei licenziamenti economici, la tutela reintegratoria attenuata può essere applicata nelle ipotesi di «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo».

5.– Quanto al licenziamento per giustificato motivo oggettivo connesso a ragioni economiche, produttive e organizzative, che rappresenta il fulcro dell’odierna questione di legittimità costituzionale, il nuovo regime sanzionatorio previsto dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, come modificato dalla legge n. 92 del 2012, prescrive di regola la corresponsione di una indennità risarcitoria, compresa tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità.

Il ripristino del rapporto di lavoro, con un risarcimento fino a un massimo di dodici mensilità, è circoscritto all’ipotesi della manifesta insussistenza del fatto, che postula una evidente assenza dei presupposti di legittimità del recesso e dunque la sua natura pretestuosa (Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanza 19 marzo 2020, n. 7471).

Tale requisito, che il rimettente non censura, si correla strettamente ai presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che è onere del datore di lavoro dimostrare. Tali sono da intendersi le ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al suo regolare funzionamento, il nesso causale che lega il recesso alle scelte organizzative del datore di lavoro e, infine, l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 11 novembre 2019, n. 29102). Perché possa operare il rimedio della reintegrazione, è sufficiente che la manifesta insussistenza riguardi uno dei presupposti appena indicati (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 12 dicembre 2018, n. 32159).

Tali presupposti, pur nel loro autonomo spazio applicativo, si raccordano tutti all’effettività della scelta organizzativa del datore di lavoro, che il giudice è chiamato a valutare, senza sconfinare in un sindacato di congruità e di opportunità. Il vaglio della genuinità della decisione imprenditoriale garantisce che il licenziamento rappresenti pur sempre una extrema ratio e non il frutto di un insindacabile arbitrio.

6.– Il rimettente prende le mosse dall’assunto, avallato anche dalla più recente giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 3 febbraio 2020, n. 2366), che la reintegrazione non sia obbligatoria, neppure quando l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento si connoti come manifesta.

Il dato testuale conferma una tale premessa ermeneutica. Nel contesto dell’art. 18, settimo comma, dello statuto dei lavoratori, al perentorio «applica» del primo periodo fa riscontro il «può applicare» del secondo periodo e sottende, secondo il significato proprio delle parole, una facoltà discrezionale del giudice.

L’elemento letterale è poi corroborato dalla ratio legis, così come si ricava dall’esame dei lavori preparatori. L’attuale formulazione scaturisce dalla mediazione tra opposte visioni, all’esito di un acceso dibattito parlamentare. Le critiche alle “disarmonie” della previsione censurata, emerse nel corso dell’approvazione del disegno di legge presentato dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali, non hanno condotto alla reintroduzione della reintegrazione obbligatoria, pur proposta a più riprese.

La giurisprudenza di legittimità, nel tentativo di scongiurare le incertezze applicative che il testo della legge avrebbe ingenerato (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 8 luglio 2016, n. 14021), ha provato a definire i criteri che presiedono alla valutazione discrezionale del giudice e ha posto l’accento, in particolare, sui principi generali in tema di risarcimento in forma specifica (art. 2058 cod. civ.), che precludono la restitutio in integrum quando si riveli eccessivamente onerosa; norma applicabile anche alla responsabilità contrattuale.

Nella ricostruzione della Corte di cassazione, che costituisce diritto vivente, il richiamo alla disciplina del risarcimento del danno in forma specifica offre «un parametro di riferimento per l’esercizio del potere discrezionale del giudice», che impone di valutare se la reintegrazione sia «al momento di adozione del provvedimento giudiziale, sostanzialmente incompatibile con la struttura organizzativa medio tempore assunta dall’impresa» (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 2 maggio 2018, n. 10435).

Il giudice, pertanto, potrà pronunciare la reintegrazione del lavoratore «subordinatamente all’ulteriore valutazione discrezionale rispetto alla non eccessiva onerosità del rimedio» (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 31 gennaio 2019, n. 2930).

7.– La disposizione censurata, nel sancire una facoltà discrezionale di concedere o negare la reintegrazione, contrasta con l’art. 3 Cost., con riguardo ai profili e per i motivi di séguito esposti.

8.– Sul diritto al lavoro (art. 4, primo comma, Cost.) e sulla tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni (art. 35 Cost.), questa Corte ha fondato, già in epoca risalente, l’esigenza di circondare di «doverose garanzie» e di «opportuni temperamenti» le fattispecie di licenziamento (sentenza n. 45 del 1965, punto 4 del Considerato in diritto).

L’attuazione del diritto «a non essere estromesso dal lavoro ingiustamente o irragionevolmente» (sentenza n. 60 del 1991, punto 9 del Considerato in diritto) è stata ricondotta, anche di recente, nell’alveo delle valutazioni discrezionali del legislatore, quanto alla scelta dei tempi e dei modi della tutela (sentenza n. 194 del 2018, punto 9.2. del Considerato in diritto), anche in ragione della diversa gravità dei vizi e di altri elementi oggettivamente apprezzabili come, per esempio, le dimensioni dell’impresa. Si è anche rimarcato che la reintegrazione non rappresenta «l’unico possibile paradigma attuativo» dei princìpi costituzionali (sentenza n. 46 del 2000, punto 5 del Considerato in diritto).

In un assetto integrato di tutele, in cui alla Costituzione si affiancano le fonti sovranazionali (art. 24 della Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30) e dell’Unione europea (art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – CDFUE –, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007), «molteplici possono essere i rimedi idonei a garantire una adeguata compensazione per il lavoratore arbitrariamente licenziato» (di recente, sentenza n. 254 del 2020, punto 5.2. del Considerato in diritto).

Nell’apprestare le garanzie necessarie a tutelare la persona del lavoratore, il legislatore, pur nell’ampio margine di apprezzamento che gli compete, è vincolato al rispetto dei princìpi di eguaglianza e di ragionevolezza.

9.– La disposizione censurata entra in conflitto con tali princìpi.

Il carattere meramente facoltativo della reintegrazione rivela, anzitutto, una disarmonia interna al peculiare sistema delineato dalla legge n. 92 del 2012 e vìola il principio di eguaglianza.

Per i licenziamenti disciplinari, il legislatore ha previsto la reintegrazione del lavoratore, quando si accerti in giudizio l’insussistenza del fatto posto a base del recesso del datore di lavoro. Per i licenziamenti economici, l’insussistenza del fatto può condurre alla reintegrazione ove sia manifesta. L’insussistenza del fatto, pur diversamente graduata, assurge dunque a elemento qualificante per il riconoscimento del più incisivo fra i rimedi posti a tutela del lavoratore.

Secondo la valutazione discrezionale del legislatore, l’insussistenza del fatto – sia che attenga a una condotta di rilievo disciplinare addebitata al lavoratore sia che riguardi una decisione organizzativa del datore di lavoro e presenti carattere manifesto – rende possibile una risposta sanzionatoria omogenea, che è quella più energica della ricostituzione del rapporto di lavoro.

In un sistema che, per consapevole scelta del legislatore, annette rilievo al presupposto comune dell’insussistenza del fatto e a questo presupposto collega l’applicazione della tutela reintegratoria, si rivela disarmonico e lesivo del principio di eguaglianza il carattere facoltativo del rimedio della reintegrazione per i soli licenziamenti economici, a fronte di una inconsistenza manifesta della giustificazione addotta e del ricorrere di un vizio di più accentuata gravità rispetto all’insussistenza pura e semplice del fatto.

Le peculiarità delle fattispecie di licenziamento, che evocano, nella giusta causa e nel giustificato motivo soggettivo, la violazione degli obblighi contrattuali ad opera del lavoratore e, nel giustificato motivo oggettivo, scelte tecniche e organizzative dell’imprenditore, non legittimano una diversificazione quanto alla obbligatorietà o facoltatività della reintegrazione, una volta che si reputi l’insussistenza del fatto meritevole del rimedio della reintegrazione e che, per il licenziamento economico, si richieda finanche il più pregnante presupposto dell’insussistenza manifesta.

L’esercizio arbitrario del potere di licenziamento, sia quando adduce a pretesto un fatto disciplinare inesistente sia quando si appella a una ragione produttiva priva di ogni riscontro, lede l’interesse del lavoratore alla continuità del vincolo negoziale e si risolve in una vicenda traumatica, che vede direttamente implicata la persona del lavoratore. L’insussistenza del fatto, pur con le diverse gradazioni che presenta nelle singole fattispecie di licenziamento, denota il contrasto più stridente con il principio di necessaria giustificazione del recesso del datore di lavoro, che questa Corte ha enucleato sulla base degli artt. 4 e 35 Cost. (sentenza n. 41 del 2003, punto 2.1. del Considerato in diritto).

Tali elementi comuni alle fattispecie di licenziamento poste a raffronto dal rimettente, valorizzati dallo stesso legislatore nella previsione di una identica tutela reintegratoria, privano di una ragione giustificatrice plausibile la configurazione di un rimedio meramente facoltativo per i soli licenziamenti economici.

È sprovvisto di un fondamento razionale anche l’orientamento giurisprudenziale che assoggetta a una valutazione in termini di eccessiva onerosità la reintegrazione dei soli licenziamenti economici, che incidono sull’organizzazione dell’impresa al pari di quelli disciplinari e, non meno di questi, coinvolgono la persona e la dignità del lavoratore.

10.– Alla violazione del principio di eguaglianza e alla disarmonia interna a un sistema di tutele, già caratterizzato da una pluralità di distinzioni, si associa l’irragionevolezza intrinseca del criterio distintivo adottato, che conduce a ulteriori e ingiustificate disparità di trattamento.

Il rimettente scorge nella previsione censurata le caratteristiche di una norma “in bianco” e stigmatizza l’irragionevolezza di una disciplina «del tutto priva di criteri applicativi» idonei a orientare il potere discrezionale di disporre o meno la reintegrazione.

10.1.– Anche questi rilievi, che sorreggono l’argomentazione dell’ordinanza di rimessione, sono fondati.

Per i licenziamenti economici, il legislatore non solo presuppone una evidenza conclamata del vizio, che non sempre è agevole distinguere rispetto a una insussistenza non altrimenti qualificata, ma rende facoltativa la reintegrazione, senza offrire all’interprete un chiaro criterio direttivo.

La scelta tra due forme di tutela profondamente diverse – quella reintegratoria, pur nella forma attenuata, e quella meramente indennitaria – è così rimessa a una valutazione del giudice disancorata da precisi punti di riferimento.

Il richiamo alla eccessiva onerosità, che la giurisprudenza di legittimità ha indicato nell’intento di conferire alla previsione un contenuto precettivo meno evanescente, non pone rimedio all’indeterminatezza della fattispecie.

Tale nozione, funzionale a tracciare la linea di confine tra due forme di tutela dalla comune matrice risarcitoria (risarcimento in forma specifica o per equivalente), si colloca nel contesto di grandezze economiche comparabili. Nella disciplina della reintegrazione, invece, che si è via via affinata come autonoma tecnica di tutela rispetto al paradigma dell’art. 2058 cod. civ., essa finisce per rivelarsi inadeguata.

Nella ricostruzione operata dalla giurisprudenza, sopra richiamata, la misura indennitaria di tutela compensativa non può dirsi “equivalente”, quale invece è l’indennità sostitutiva della reintegrazione, prevista dal terzo comma dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori, ma ha invece un contenuto ridotto, quale quello previsto dal quinto comma del medesimo articolo.

L’eccessiva onerosità, declinata come incompatibilità con la struttura organizzativa nel frattempo assunta dall’impresa, presuppone valutazioni comparative non lineari nella dialettica tra il diritto del lavoratore a non essere arbitrariamente estromesso dal posto di lavoro e la libertà di iniziativa economica privata. Né serve a individuare parametri sicuri per la valutazione del giudice nel riconoscimento di due rimedi – la reintegrazione o l’indennità – caratterizzati da uno statuto eterogeneo.

In un sistema equilibrato di tutele, la discrezionalità del giudice riveste un ruolo cruciale, come questa Corte ha riconosciuto di recente nel censurare l’automatismo che governava la determinazione dell’indennità risarcitoria per i licenziamenti viziati dal punto di vista sostanziale (sentenza n. 194 del 2018) o formale (sentenza n. 150 del 2020), dapprima commisurata alla sola anzianità di servizio. Al giudice è stato restituito un essenziale potere di valutazione delle particolarità del caso concreto, in base a puntuali e molteplici criteri desumibili dall’ordinamento, frutto di una evoluzione normativa risalente e di una prassi collaudata.

Nella fattispecie sottoposta all’odierno scrutinio, la diversa tutela applicabile – che ha implicazioni notevoli – discende invece da un criterio giurisprudenziale che, per un verso, è indeterminato e improprio e, per altro verso, privo di ogni attinenza con il disvalore del licenziamento.

Il mutamento della struttura organizzativa dell’impresa che preclude l’applicazione della tutela reintegratoria è riconducibile allo stesso imprenditore che ha intimato il licenziamento illegittimo e può dunque prestarsi a condotte elusive. Tale mutamento, inoltre, può intervenire a distanza di molto tempo dal recesso ed è pur sempre un elemento accidentale, che non presenta alcun nesso con la gravità della singola vicenda di licenziamento.

È, pertanto, manifestamente irragionevole la scelta di riconnettere a fattori contingenti, e comunque determinati dalle scelte del responsabile dell’illecito, conseguenze di notevole portata, che si riverberano sull’alternativa fra una più incisiva tutela reintegratoria o una meramente indennitaria.

Per costante giurisprudenza di questa Corte (fra le molte, sentenza n. 2 del 1986, punto 8 del Considerato in diritto), ben può il legislatore delimitare l’àmbito applicativo della reintegrazione.

Nondimeno, un criterio distintivo, che fa leva su una mutevole valutazione casistica e su un dato privo di ogni ancoraggio con l’illecito che si deve sanzionare, non si fonda su elementi oggettivi o razionalmente giustificabili e amplifica le incertezze del sistema.

11.– Inoltre, nel demandare a una valutazione giudiziale sfornita di ogni criterio direttivo – perciò altamente controvertibile – la scelta tra la tutela reintegratoria e la tutela indennitaria, la disciplina censurata contraddice la finalità di una equa ridistribuzione delle «tutele dell’impiego», enunciata dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge n. 92 del 2012. L’intento di circoscrivere entro confini certi e prevedibili l’applicazione del più incisivo rimedio della reintegrazione e di offrire parametri precisi alla discrezionalità del giudice rischia di essere vanificato dalla necessità di procedere alla complessa valutazione sulla compatibilità con le esigenze organizzative dell’impresa.

Anche da questo punto di vista, si ravvisa l’irragionevolezza censurata dal Tribunale di Ravenna.

12.– Si deve dichiarare, pertanto, l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge n. 92 del 2012, nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «può altresì applicare» – invece che «applica altresì» – la disciplina di cui al quarto comma del medesimo art. 18.

Restano assorbiti gli ulteriori profili di censura prospettati dal rimettente."

Corte Costituzionale, Sent. 59/2021 del 1.4.2021


17 dicembre 2020

ll Tar Lazio chiede una sintetica relazione in merito all'evidenza scientifica sull'obbligo della mascherina per i minori a scuola

 - che nel verbale del CTS n. 104 del 31 agosto 2020, depositato dalla difesa erariale, che si riferisce alla ripresa delle attività scolastiche, si legge: “In particolare, l'Organizzazione Mondiale della Sanità, in un recente documento del 21 agosto fornisce indicazioni rispetto all'uso delle mascherine in ambito scolastico differenziandole per fasce di età: - Fra 6 e 11 anni: uso condizionato alla situazione epidemiologica locale, prestando, comunque, attenzione al contesto socio-culturale e a fattori come la compliance del bambino nell'utilizzo della mascherina e il suo impatto sulle capacità di apprendimento; - Dai 12 anni in poi: utilizzare le stesse previsioni di uso degli adulti”;

[...]

- che dal DPCM impugnato non risulta siano stati effettuati approfondimenti sulla necessità dell’uso della mascherina a scuola, anche quando sia garantito il distanziamento di un metro – distanziamento che il CTS rimarca essere la principale misura di prevenzione - né sull’incidenza dell’uso di mascherina, per alunni di età superiore ai 6 anni, sulla salute psico-fisica degli stessi, nè un’analisi del contesto socio-educativo in cui l’obbligo per tali scolari è stabilito come pressoché assoluto, né sulla possibilità che vi sia un calo di ossigenazione per apparati polmonari assai giovani causato dall’uso prolungato della mascherina;

- che neanche risulta che il DPCM abbia disciplinato l’imposizione dell’uso delle mascherine ai suddetti minori subordinandola alla adozione da parte degli istituti scolastici di specifici indirizzi operativi pratici per le singole classi, dando precise indicazioni sul monitoraggio del livello di ossigenazione individuale del minore dopo l'uso prolungato della mascherina, sull’ausilio da fornire in modo immediato agli scolari che diano segno di affaticamento, sulle modalità per valutare “la compliance del bambino nell'utilizzo della mascherina e il suo impatto sulle capacità di apprendimento”;

- che, infine, dal DPCM impugnato non emergono elementi tali da far ritenere che l’amministrazione abbia effettuato un opportuno bilanciamento tra il diritto fondamentale alla salute della collettività e tutti gli altri diritti inviolabili, parimenti riconosciuti e tutelati dalla costituzione, fra cui primariamente il diritto alla salute dei minori di età superiore ai 6 anni, sì da poter connotare di ragionevolezza e proporzionalità l’imposizione a questi ultimi dell’uso di un dispositivo di protezione individuale in modo prolungato e incondizionato, anche “al banco” e con distanziamento adeguato;

- che, a tal fine, è necessario acquisire dall’amministrazione, entro trenta giorni dalla comunicazione o, se anteriore, dalla notificazione della presente ordinanza, una sintetica relazione in cui si chiariscano le evidenze scientifiche, poste alla base dell’imposizione dell’uso della mascherina anche ai bambini di età superiore ai 6 anni, anche durante l’orario scolastico, basate su specifica istruttoria sulla “situazione epidemiologica locale” di ciascuna regione, sul “contesto socio-culturale” in cui i bambini vivono, come suggerito dal CTS nel verbale n. 104, dalle quali possa ritenersi scongiurato il pericolo che si verifichi un calo di ossigenazione per apparati polmonari assai giovani, causato dall’uso prolungato della mascherina, o che vi siano ricadute di tale imposizione sulla salute psico-fisica dei minori in una fase della crescita particolarmente delicata;

[...]

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Roma, Sezione Prima, dispone l’incombente istruttorio di cui in motivazione.

Compensa le spese della presente fase cautelare.

Fissa, per la trattazione del merito, l’udienza pubblica del 10 febbraio 2021.

Ordinanza TAR Lazio, sez. 1^, n. 7718/2020

10 luglio 2020

Corte Costituzionale: legittimità costituzionale dell’art. 709-ter, secondo comma, numero 4), del cpc - esercizio della responsabilità genitoriale o delle modalità di affidamento - gravi inadempienze o atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento

[...]

"3.– Nel merito, la prima questione di legittimità costituzionale – con la quale il Tribunale rimettente assume la violazione da parte dell’art. 709-ter, secondo comma, numero 4), cod. proc. civ., dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione al parametro interposto di cui all’art. 4 Prot. n. 7 CEDU sul divieto di bis in idem – non è fondata, in quanto è possibile un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata.

4.– Giova premettere una sintetica ricostruzione del quadro normativo di riferimento in cui si inserisce la medesima disposizione.

L’art. 709-ter, secondo comma, cod. proc. civ., stabilisce: «A seguito del ricorso, il giudice convoca le parti e adotta i provvedimenti opportuni. In caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento, può modificare i provvedimenti in vigore e può, anche congiuntamente: 1) ammonire il genitore inadempiente; 2) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore; 3) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti dell’altro; 4) condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 euro a un massimo di 5.000 euro a favore della Cassa delle ammende».

Tale disposizione è stata inserita, nelle norme del codice di procedura civile dedicate alla separazione coniugale, dall’art. 2 della legge n. 54 del 2006, che ha contestualmente introdotto la regola generale dell’affidamento condiviso della prole della coppia parentale in regime di separazione, regola che è subito apparsa foriera di più frequenti controversie tra i genitori sulle modalità di attuazione di questo nuovo istituto con un maggiore coinvolgimento del giudice per dirimere ogni genere di contrasto.

La collocazione della norma nell’ambito della disciplina processuale della separazione coniugale non ne limita l’operatività a questo solo àmbito, in quanto l’art. 4, comma 2, della stessa legge n. 54 del 2006 stabilisce espressamente che le nuove disposizioni dettate per la separazione giudiziale si applicano anche ai casi di «scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati».

L’art. 709-ter cod. proc. civ. demanda, nel primo comma, al giudice del procedimento in corso il potere di risolvere le controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della potestà genitoriale ovvero alle modalità dell’affidamento. Tali “controversie” sono costituite da disaccordi e contrasti che insorgono di frequente tra i genitori quando si tratta di individuare le modalità attuative dell’affidamento, ossia le forme di esercizio della responsabilità genitoriale ogni qual volta sia stato pronunciato un provvedimento di affidamento.

Nelle ipotesi in cui vengano accertate, poi, gravi inadempienze rispetto agli obblighi contenuti nei provvedimenti sull’esercizio della potestà genitoriale o sull’affidamento della prole o, in alternativa, il compimento di atti che arrechino pregiudizio al minore ovvero ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento, il medesimo giudice può non soltanto modificare i provvedimenti in vigore, ma anche pronunciare, a carico del genitore inadempiente, le misure sanzionatorie di cui ai numeri da 1) a 4) della stessa disposizione.

Proprio da questi poteri demandati all’autorità giudiziaria dal secondo comma dell’art. 709-ter cod. proc. civ. si evince che lo scopo principale della norma è quello di superare le difficoltà da lungo tempo emerse nella prassi applicativa rispetto alla possibilità di assicurare l’effettività del diritto della prole ad un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori – in linea con le finalità generali della stessa legge n. 54 del 2006 sull’affidamento condiviso – anche ove tale diritto sia riconosciuto in un provvedimento di carattere giurisdizionale che disciplina le modalità di affidamento, per tutti gli aspetti diversi da quelli economici, e il diritto/dovere di visita del genitore non collocatario, ossia profili afferenti a obbligazioni complesse di carattere infungibile, incidenti su diritti di carattere non patrimoniale.

Le evidenziate difficoltà si correlavano soprattutto alla sostanziale inidoneità del modello dell’esecuzione forzata delineato dal Terzo libro del codice di procedura civile per l’attuazione delle decisioni giudiziarie in tema di affidamento e responsabilità genitoriale nei confronti dei figli minori (o maggiorenni portatori di handicap) – inidoneità riconosciuta, pur incidentalmente, da questa Corte (ordinanza n. 68 del 1987) – almeno per tutti gli aspetti diversi dalle questioni di carattere economico. Per queste ultime, invece, oltre all’esecuzione per espropriazione forzata, sono previsti vari meccanismi volti ad assicurare una adeguata tutela del diritto di credito quali, ad esempio, il sequestro o il pagamento diretto da parte di terzi ai sensi dell’art. 156 del codice civile, e la possibilità ex art. 545 cod. proc. civ. di pignorare il trattamento stipendiale anche al di là del limite generale del cosiddetto quinto, oltre alla tutela penale di cui, attualmente, agli artt. 570 e 570-bis cod. pen.

In questo contesto deve collocarsi l’introduzione nel codice di procedura civile dell’art. 709-ter ad opera della legge n. 54 del 2006 sull’affidamento condiviso, quale disposizione volta principalmente a colmare oggettive lacune che si erano registrate nell’assicurare una tutela effettiva dei diritti della prole di una coppia genitoriale disgregata, correlati a obblighi di natura infungibile pur consacrati in provvedimenti giudiziari.

In particolare, si è consentito al giudice della cognizione – adito con il ricorso di cui all’art. 709-ter cod. proc. civ., a fronte di violazioni dei provvedimenti concernenti le modalità di esercizio della responsabilità genitoriale ovvero di quelle di affidamento – di modificare o integrare il contenuto di tali provvedimenti. Il legislatore, quindi, al fine di superare il problema derivante dall’inidoneità dell’esecuzione forzata, ha per un verso demandato al giudice di merito una nuova competenza, che si svincola da moduli rigidi come quelli esecutivi, per sfruttare pienamente la maggiore flessibilità della tutela giurisdizionale di cognizione, e risponde alla finalità di individuare l’autorità più adatta a risolvere le questioni che possono sorgere nella fase di attuazione della misura; per un altro, ha attribuito a tale giudice, accertato l’inadempimento alle statuizioni contenute nei provvedimenti già emanati nei confronti della coppia parentale, il potere di comminare, ove richiesto con ricorso ai sensi del secondo comma della stessa disposizione, le misure sanzionatorie ivi contemplate.

Quanto alla «sanzione amministrativa pecuniaria», dell’importo ricompreso tra un minimo di 75 euro ed un massimo di 5.000 euro in favore della Cassa delle ammende, prevista dalla disposizione censurata in parte qua, la stessa realizza innanzi tutto – sul modello di altri sistemi processuali – una forma di indiretto rafforzamento dell’esecuzione delle obbligazioni di carattere infungibile. Si tratta di obbligazioni il cui adempimento dipende in via esclusiva dalla volontà dell’obbligato e l’esecuzione indiretta si realizza, previa necessaria istanza di parte, attraverso un sistema di compulsione all’adempimento spontaneo prevedendo, in mancanza dello stesso, l’obbligo di corrispondere una somma in favore dello Stato. In ciò tale modello si accosta nella finalità – pur divergendo nel meccanismo processuale – alle misure di attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare introdotte successivamente dall’art. 614-bis cod. proc. civ., ad opera della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), che – poi divenute misure di coercizione indiretta – hanno invece vocazione generale, consentono l’esercizio di un potere d’ufficio del giudice e prevedono la corresponsione delle somme liquidate in favore dell’altra parte.

[...]

Nella fattispecie in esame può ben ritenersi che la sanzione pecuniaria “amministrativa” introdotta dall’art. 2 della legge n. 54 del 2006 (con la previsione dell’art. 709-ter cod. proc. civ.) sia simmetrica e parallela a quella prevista dal successivo art. 3 e non già complementare a quest’ultima.

Come già sopra anticipato, tale legge ha previsto, all’art. 1, la regola generale dell’affidamento condiviso dei minori e dell’esercizio tendenzialmente congiunto della potestà genitoriale rimettendo al giudice ogni decisione in caso di disaccordo. La stessa disposizione ha novellato l’art. 155 cod. civ. sui provvedimenti riguardo ai figli e ha introdotto, in particolare, l’art. 155-bis cod. civ., che regola l’affidamento a un solo genitore e l’opposizione all’affidamento condiviso, e l’art. 155-ter cod. civ. sulla revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli.

A fronte di nuovi diritti e nuovi obblighi, spesso di fare infungibile, e in assenza (all’epoca) di misure indirette per favorirne l’esecuzione (le misure di coercizione indiretta di cui all’art. 614-bis cod. proc. civ. sarebbero state introdotte solo alcuni anni dopo), lo stesso legislatore ha approntato, all’art. 2, uno specifico e mirato strumento processuale di tutela, costituito appunto dall’art. 709-ter cod. proc. civ. La ratio di tale norma è ben posta in evidenza dalla giurisprudenza di legittimità che ha affermato che «l’intento del legislatore appare palesemente quello di fornire uno strumento per la soluzione di conflitti tra genitori, riguardo ai figli, che, a seguito della nuova normativa, potrebbero presentarsi più frequentemente» (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 22 ottobre 2010, n. 21718). In altra pronuncia si è fatta applicazione dell’art. 709-ter cod. proc. civ. con riferimento alla violazione delle prescrizioni date dal giudice nel calendario delle visite del minore (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 27 giugno 2018, n. 16980). Parimenti – nell’escludersi l’applicabilità dell’art. 614-bis cod. proc. civ. – si è però precisato come la disposizione censurata possa offrire tutela al diritto di visita del figlio minore del genitore non collocatario a fronte delle condotte pregiudizievoli poste in atto dall’altro genitore (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 6 marzo 2020, n. 6471).

Parallelamente lo stesso legislatore ha rafforzato, all’art. 3, la già esistente tutela penale a fronte di una tipica obbligazione pecuniaria suscettibile di esecuzione forzata, oltre che di altre misure di garanzia della responsabilità patrimoniale, quale è quella avente ad oggetto l’assegno di mantenimento della prole nelle procedure di separazione dei coniugi e di scioglimento degli effetti civili del matrimonio. L’art. 3, infatti, prevede per la «violazione degli obblighi di natura economica» l’applicazione dell’art. 12-sexies della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio) e quindi le pene contemplate dall’art. 570 cod. pen.

Questo parallelismo tra l’art. 2, che ha introdotto l’art. 709-ter cod. proc. civ., e l’art. 3, che ha rafforzato l’art. 12-sexies citato, consente di escludere, in forza del canone dell’interpretazione conforme, che le due norme si intersechino e che la condotta sanzionata come reato dall’art. 3 della legge n. 54 del 2006 con le pene dell’art. 570 cod. pen. possa essere sanzionata anche con la pena pecuniaria “amministrativa” dell’art. 2.

La disposizione censurata ha dunque la sua ratio e la sua giustificazione nell’esigenza di assicurare una tutela effettiva rispetto all’adempimento di una serie di obblighi di carattere prevalentemente infungibile nei confronti della prole, per i quali prima dell’emanazione della stessa mancavano efficaci strumenti di attuazione e di coazione.

Per converso gli aspetti patrimoniali del rapporto tra i genitori e la prole, relativi all’assegno di mantenimento, non hanno mai posto significativi problemi attuativi, in quanto le relative pronunce sono eseguibili nelle forme del processo esecutivo per espropriazione (anche mediante un pignoramento dei crediti del debitore) e presidiate in sede penale dal reato di cui all’art. 570-bis cod. pen. (sentenza n. 189 del 2019) e finanche – ove il mancato pagamento dell’assegno di mantenimento ridondi in deprivazione dei mezzi di sussistenza – da quello di cui all’art. 570, secondo comma, numero 2), cod. pen.

L’art. 709-ter, secondo comma, cod. proc. civ., deve quindi essere interpretato nel senso che il mancato pagamento dell’assegno di mantenimento della prole, nella misura in cui è già sanzionato penalmente, non è compreso nel novero delle condotte inadempienti per le quali può essere irrogata dall’autorità giudiziaria adita la sanzione pecuniaria “amministrativa” in esame. Le condotte suscettibili di tale sanzione sono infatti “altre”, ossia le tante condotte, prevalentemente di fare infungibile, che possono costituire oggetto degli obblighi relativi alla responsabilità genitoriale e all’affidamento di minori.

Pertanto, nei termini sopra precisati, la prima questione deve ritenersi non fondata."

Corte Costituzionale, sentenza n. 145/2020 del 10.7.2020



24 giugno 2020

Invalidi civili totali (art. 12 L. 118/71): la legge non assicura “i mezzi necessari per vivere”.

285,66 euro mensili, previsti dalla legge per le persone totalmente inabili al lavoro per effetto di gravi disabilità, non sono sufficienti a soddisfare i bisogni primari della vita. È perciò violato il diritto al mantenimento che la Costituzione (articolo 38) garantisce agli inabili. 

Lo ha stabilito la Corte costituzionale nella camera di consiglio svoltasi ieri, 23 giugno 2020, esaminando una questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d’appello di Torino. In attesa del deposito della sentenza, previsto nelle prossime settimane, l’Ufficio stampa della Corte fa sapere quanto segue.

Il caso che ha dato origine alla presente decisione riguarda una persona affetta da tetraplegia spastica neonatale, incapace di svolgere i più elementari atti quotidiani della vita e di comunicare con l’esterno.
La Corte ha ritenuto che un assegno mensile di soli 285,66 euro sia manifestamente inadeguato a garantire a persone totalmente inabili al lavoro i “mezzi necessari per vivere” e perciò violi il diritto riconosciuto dall’articolo 38 della Costituzione, secondo cui “ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto di mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale”.
È stato quindi affermato che il cosiddetto “incremento al milione” (pari a 516,46 euro) da tempo riconosciuto, per vari trattamenti pensionistici, dall’articolo 38 della legge n. 448 del 2011, debba essere assicurato agli invalidi civili totali, di cui parla l’articolo 12, primo comma, della legge 118 del 1971, senza attendere il raggiungimento del sessantesimo anno di età, attualmente previsto dalla legge. Conseguentemente, questo incremento dovrà d’ora in poi essere erogato a tutti gli invalidi civili totali che abbiano compiuto i 18 anni e che non godano, in particolare, di redditi su base annua pari o superiori a 6.713,98 euro. 
 
La Corte ha stabilito che la propria pronuncia non avrà effetto retroattivo e dovrà applicarsi soltanto per il futuro, a partire dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza sulla Gazzetta Ufficiale.
Resta ferma la possibilità per il legislatore di rimodulare la disciplina delle misure assistenziali vigenti, purché idonee a garantire agli invalidi civili totali l’effettività dei diritti loro riconosciuti dalla Costituzione.

13 maggio 2020

SICUREZZA IN STUDIO, VADEMECUM PER LA RIAPERTURA

Il C.O.A. di Roma ha approvato la proposta di “Protocollo di emergenza COVID-19” contenente l’indicazione delle misure volte a contrastare e contenere la diffusione del virus negli ambienti di lavoro, che potrà essere adottato da tutti gli studi legali e rimodulato in base alle esigenze, alle dimensioni e alle realtà organizzative dei singoli studi. Nella proposta di Protocollo è richiamata tutta la normativa regolante la fattispecie e, in particolare, il “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”, sottoscritto a livello nazionale il 24 aprile 2020 (All. 6 al DPCM 26 aprile 2020), con la finalità di consentire la ripresa delle attività produttive nelle migliori condizioni di salubrità e sicurezza possibili e con la previsione di agevolazioni fiscali per le spese sostenute per la sanificazione e l’acquisto di dispositivi di sicurezza.

[fonte C.O.A. Roma]


27 agosto 2019

Blawg dell'Avvocato Maurizio Storti: superate le 300.000 visualizzazioni

Importante successo del blog "blawgavvmauriziostorti.blogspot.com" dell'Avv. Maurizio Storti.
Dal maggio 2010 al 27.8.2019 le pagine del blog sono state visualizzate oltre 300.000 volte.
Di seguito il dettaglio distinto per area geografica, browser e sistema operativo:




Un sentito ringraziamento agli amici utenti degli USA, Russia, Germania, Ucraina, Spagna, Francia, Cina, Regno Unito e Irlanda.


Vendita e appalto - differenze - prevalenza della componente del dare rispetto a quella del facere

Con il terzo motivo ... Srl lamenta la violazione degli artt. 1362 e ss., 1495 e 1667 c.c. perché la Corte di Appello avrebbe malamente applicato i canoni interpretativi del contratto concluso tra le parti ed erroneamente omesso di qualificarlo come appalto e di applicare di conseguenza, in luogo della norma di cui all'art. 1495 c.c., la diversa disciplina dei termini per la denuncia dei vizi dell'opera prevista -appunto- per l'appalto. La doglianza è inammissibile in quanto con essa si invoca un inquadramento del negozio giuridico intercorso tra le parti diverso da quello proposto dal giudice di merito, senza tener conto del consolidato principio per cui "In tema di interpretazione del contratto, il procedimento di qualificazione giuridica consta di due fasi, delle quali la prima -consistente nella ricerca e nella individuazione della comune volontà dei contraenti- è un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, sindacabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione in relazione ai canoni di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. c. c., mentre la seconda -concernente l'inquadramento della comune volontà nello schema legale corrispondente- risolvendosi nell'applicazione di norme giuridiche può formare oggetto di verifica e riscontro in sede di legittimità sia per quanto attiene alla descrizione del modello tipico della fattispecie legale, sia per quanto riguarda la rilevanza qualificante degli elementi di fatto così come accertati, sia infine con riferimento alla individuazione delle implicazioni effettuali conseguenti alla sussistenza della fattispecie concreta nel paradigma normativo" (Cass. Sez. 1, Ordinanza n.29111 del 05/12/2017, Rv. 646340; conf. Cass. Sez. 3, Sentenza n.420 del 12/01/2006, Rv. 586972). 
In particolare, ai fini dell'inquadramento del negozio sub specie di compravendita o appalto si ritiene che il criterio distintivo sia quello della "... prevalenza o meno de/lavoro sulla materia, da considerarsi, però, non in senso oggettivo, ma con riguardo alla volontà dei contraenti, al fine di accertare, nei singoli casi, se la somministrazione della materia sia un semplice mezzo per la produzione dell'opera ed il lavoro lo scopo del negozio (appalto) oppure se il lavoro sia il mezzo per la trasformazione della materia ed il conseguimento della cosa l'effettiva finalità del negozio medesimo (vendita)" (Cass. Sez. 2, Sentenza n.6171 del 02/06/1993, Rv.482645; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n.14209 del 17/12/1999, Rv.532306; Cass. Sez. 2, Sentenza n.11602 del 02/08/2002, Rv.556574; Cass. Sez. 2, Sentenza n.10319 del 28/05/2004, Rv.573264).   
Ne consegue che non è utilmente sindacabile in questa sede la scelta del giudice di merito di ritenere prevalente la componente del dare rispetto a quella del facere e di inquadrare, di conseguenza, la fattispecie nel paradigma della vendita anziché in quello dell'appalto, poiché essa si risolve in una valutazione di fatto concernente la ricostruzione della comune volontà dei contraenti.

Cassazione Civile Sent. Sez. 2 Num. 21693 Anno 2019 del 26.8.2019

10 gennaio 2019

Le espressioni "danno terminale", "danno tanatologico", "danno catastrofale" non hanno alcuna dignità scientifica, sono usate in modo polisemico e sono talora anche etimologicamente scorrette.

Prima di esporre le ragioni di tale manifesta infondatezza, questo Collegio ritiene doverosa una premessa di metodo, alla luce della quale scrutinare non solo il presente, ma anche tutti e tre i restanti motivi del ricorso.
Gli odierni ricorrenti hanno rispettivamente perduto, in conseguenza d'un fatto illecito, una figlia ed una sorella.
Dopo avere ottenuto un risarcimento, essi si dolgono nella presente sede che quel risarcimento non sarebbe stato adeguato ed esaustivo. 
Una censura di questo tipo, quando fosse ammissibile (e non lo sarebbe se prospettasse solo questioni di mero fatto), esigerebbe che si prospettasse al giudice, da un lato, il concreto pregiudi.zio patito dalla vittima, e dall'altro il concreto pregiudizio preso in esame dal giudice.
Solo nel caso di uno iato tra il primo ed il secondo, potrebbe sospettarsi la violazione di norme di legge da parte del giudice di merito.
La difesa dei ricorrenti, tuttavia, in ogni suo punto trascura di confrontarsi con questa regola fondamentale.
Essa infatti, più che prospettare fatti, formula teorie, e muove dall'assunto - inespresso, ma inequivoco - che esistano categorie a priori di danni ("danno biologico terminale", "danno esistenziale", "danno tanatologico"), e pretende - invece di applicare la legge ai fatti - di accomodare questi a quella, deformando la realtà per farla rientrare nelle categorie astratte.
Sarà dunque opportuno ricordare, preliminarmente, che le varie espressioni coniate in tema di danno non patrimoniale dalla fantasia di taluni interpreti, e talora non rifiutate da questa Corte ("danno terminale", "danno tanatologico", "danno catastrofale", "danno esistenziale"), non hanno alcuna dignità scientifica; sono usate in modo polisemico; sono talora anche etimologicamente scorrette (come l'espressione "danno tanatologico").
L'impiego di lemmi dal contenuto così ambiguo ingenera somma confusione ed impedisce qualsiasi seria dialettica, dal momento che ogni discussione scientifica è impossibile in assenza d'un lessico condiviso.
L'esigenza del rigore linguistico come metodo indefettibile nella ricostruzione degli istituti è stata già segnalata dalle Sezioni Unite di questa Corte, allorché hanno indicato, come precondizione necessaria per l'interpretazione della legge, la necessità di "sgombrare il campo di analisi da (...) espressioni sfuggenti ed abusate che hanno finito per divenire dei "mantra" ripetuti all'infinito senta una preventiva ricognzione e condivisione di significato (...), [che] resta oscuro e serve solo ad aumentare la confusione ed a favorire l'ambiguità concettuale nonché la pigrizia esegetica" (sono parole di Sez. U, Sentenza n. 12310 del 15/06/2015).
L'esame del secondo e del terzo motivo di ricorso esige dunque, preliminarmente, che si ricordino alcuni concetti fondamentali nella materia del danno non patrimoniale da uccisione. 

2.8. La persona che, ferita, sopravviva quodam tempore, e poi muoia a causa delle lesioni sofferte, può patire un danno non patrimoniale.
Questo danno può teoricamente manifestarsi in due modi.
Il primo è il pregiudizio derivante dalla lesione della salute; il secondo è costituito dal turbamento dell'animo e dalla sofferenza derivanti dalla consapevolezza della morte imminente.
Ambedue questi pregiudizi hanno natura non patrimoniale, come non patrimoniali sono tutti i pregiudizi che investono la persona in sé e non il suo patrimonio.
Quel che li differenzia non è la natura giuridica, ma la consistenza reale: infatti il primo (lesione della salute):
-) ha fondamento medico legale;
-) consiste nella forzosa rinuncia alle attività quotidiane durante il
periodo della invalidità;
-) sussiste anche quando la vittima sia stata incosciente.
Il secondo, invece:
-) non ha fondamento medico legale;
-) consiste in un moto dell'animo;
-) sussiste solo quando la vittima sia stata cosciente e consapevole. 

2.9. Il danno alla salute che può patire la vittima di lesioni personali, la quale sopravviva quodam tempore e poi deceda a causa della gravità delle lesioni, dal punto di vista medico-legale può consistere solo in una invalidità temporanea, mai in una invalidità permanente. 
Il lemma "invalidità", infatti, per secolare elaborazione medico-legale, designa uno stato menomativo che può essere transeunte (invalidità temporanea) o permanente (invalidità permanente). L'espressione "invalidità temporanea" designa lo stato menomativo causato da una malattia, durante il decorso di questa. L'espressione "invalidità permanente" designa invece lo stato menomativo che residua dopo la cessazione d'una malattia.
L'esistenza d'una malattia in atto e l'esistenza di uno stato di invalidità permanente non sono tra loro compatibili: sinché durerà la malattia, permarrà uno stato di invalidità temporanea, ma non v'è ancora invalidità permanente; se la malattia guarisce con postumi permanenti si avrà uno stato di invalidità permanente, ma non vi sarà più invalidità temporanea; se la malattia dovesse condurre a morte l'ammalato, essa avrà causato solo un periodo di invalidità temporanea (Sez. 3, Sentenza n. 5197 del 17/03/2015, Rv. 634697 - 01; così pure Sez. 3, Sentenza n. 7632 del 16/05/2003, Rv. 563159, § 3.3 dei "Motivi della decisione"). 

2.10. Il danno biologico causato dalla invalidità temporanea consiste nella forzosa rinuncia, durante il periodo di malattia, alle ordinarie attività non spiacevoli cui la vittima si sarebbe altrimenti dedicata, se fosse rimasta sana. 
Per secolare convenzione medico-legale, il danno alla salute da invalidità temporanea si apprezza in giorni, mai in frazioni di giorni: sarebbe, infatti, un esercizio meramente teorico pretendere di dare un peso monetario alle attività di cui la vittima è stata privata, durante una sopravvivenza di poche ore o pochi minuti.
Da quanto esposto consegue che in tanto la vittima di lesioni potrà acquistare il diritto al risarcimento del danno alla salute, in quanto abbia sofferto un danno alla salute medico legalmente apprezzabile, dal momento che per espressa definizione normativa, oltre che per risalente insegnamento della dottrina, il danno biologico è solo quello "suscettibile di accertamento medico legale" (così l'art. 138 cod. ass.; conforme è la dottrina e l'ormai pluridecennale giurisprudenza di questa Corte).
Ciò sul presupposto che il danno biologico non consiste nella mera lesione dell'integrità psicofisica, ma presuppone che tale lesione abbia compromesso l'esplicazione piena ed ottimale delle attività realizzatrici dell'individuo nel suo ambiente di vita, sicché "una concreta perdita o riduzione di tali potenzialità può concretizzarsi soltanto nell'eventualità della prosecuzione della vita, in condizioni menomate, per un apprezzabile periodo di tempo successivamente alle lesioni. 
Consegue che, in difetto di una apprezzabile protrazione della vita successivamente alle lesioni, pur risultando lesa l'integrità fisica del soggetto offeso, non è configurabile un danno biologico risarcibile, in assenza di una perdita delle potenziali utilità connesse al bene salute suscettiva di essere valutata in termini economici" (così già, tra le prime, Sez. 3, Sentenza n. 1704 del 25/02/1997, Rv. 502664 - 01).
La conclusione è che nel caso di morte causata da lesioni personali, sopravvenuta a distanza di tempo da queste, un danno biologico permanente è inconcepibile.
Quanto al danno biologico temporaneo, per potersene predicare l'esistenza sarà necessario che la lesione della salute si sia protratta per un tempo apprezzabile, perché solo un tempo apprezzabile consente quell'"accertabilità medico legale" che costituisce il fondamento del danno biologico temporaneo.
Normalmente tale "lasso apprezzabile di tempo" dovrà essere superiore alle 24 ore, giacché come accennato è il "giorno" l'unità di misura medico legale della invalidità temporanea; ma in astratto non potrebbe escludersi a priori l'apprezzabilità del danno in esame anche per periodi inferiori.
Nell'uno, come nell'altro caso, lo stabilire se la vittima abbia patito un danno biologico "suscettibile di accertamento medico legale" è un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, e non sindacabile in questa sede. 
Naturalmente, una volta accertata la sussistenza di un danno biologico temporaneo provocato da una lesione mortale, esso sarà risarcibile a prescindere dalla consapevolezza che la vittima ne abbia avuto, dal momento che quel pregiudizio consiste nella oggettiva perdita delle attività quotidiane (Sez. 3 - , Sentenza n. 21060 del 19/10/2016, Rv. 642934 — 01; Sez. 3, Sentenza n. 2564 del 22/02/2012, Rv. 621706 - 01). 

2.11 La vittima di lesioni che, a causa di esse, deceda dopo una sopravvivenza quodam tempore, può poi patire, come accennato, un pregiudizio non patrimoniale di tipo diverso: la sofferenza provocata dalla consapevolezza di dovere morire. 
Questa sofferenza potrà essere multiforme: potrà consistere nel provare la paura della morte; nell'agonia provocata dalle lesioni; nel dispiacere di lasciar sole le persone care; nella disperazione per dover abbandonare le gioie della vita; nel tormento di non sapere chi si prenderà cura dei propri familiari, e così via, secondo le purtroppo infinite combinazioni di dolore che il destino può riservare agli uomini. 
E' dunque evidente che la concepibilità stessa d'un simile pregiudizio presuppone che la vittima sia cosciente.
Se la vittima non fosse consapevole della fine imminente, infatti, non sarebbe nemmeno concepibile che possa prefigurarsela, e addolorarsi per essa.
In questa seconda ipotesi, poiché il danno risarcibile è rappresentato non dalla perdita delle attività cui la vittima si sarebbe dedicata, se fosse rimasta sana, ma da una sensazione dolorosa, la durata della sopravvivenza non è un elemento costitutivo del danno, né incide necessariamente sulla sua gravità.
Anche una sopravvivenza di pochi minuti, infatti, può consentire alla vittima di percepire la propria fine imminente, mentre - al contrario - una lunga sopravvivenza in totale stato di incoscienza non consentirebbe di affermare che la vittima abbia avuto consapevolezza della propria morte (Sez. U, Sentenza n. 26972 del 11/11/2008, Rv. 605494 - 01). 

2.12. In conclusione:
-) le espressioni "danno terminale", "danno tanatologico", "danno catastrofale" non corrispondono ad alcuna categoria giuridica, ma possono avere al massimo un valore descrittivo, e neanche preciso;
-) il danno da invalidità temporanea patito da chi sopravviva quodam tempore ad una lesione personale mortale è un danno biologico, da accertare con gli ordinari criteri della medicina legale, e da liquidare avendo riguardo alle specificità del caso concreto;
-) la formido mortis patita da chi, cosciente e consapevole, sopravviva quodam tempore ad una lesione personale mortale, è un danno non patrimoniale, da accertare con gli ordinari mezzi di prova, e da liquidare in via equitafiva avendo riguardo alle specificità del caso concreto. 

[...]

2.14. Del pari manifestamente infondate sono le deduzioni della difesa dei ricorrenti, nella parte in cui lamentano l'erroneità del rigetto della domanda di risarcimento del danno "morale" patito dalla vittima primaria.
Da un lato, infatti, il suddetto pregiudizio presuppone, per quanto detto, che la vittima sia rimasta cosciente ad abbia avuto consapevolezza della propria morte imminente, il che nel caso di specie non è stato nemmeno dedotto.
Al contrario, è la stessa descrizione delle condizioni cui la vittima giunse in ospedale, contenuta a p. 14 del ricorso, che induce a ritenere corretta la valutazione del giudice di merito, là dove ha escluso la sussistenza del danno in questione. 

[...]

2.16. Da quanto precede discende altresì che nessun sospetto di illegittimità costituzionale è ravvisabile nel suddetto orientamento giurisprudenziale.
Esso, infatti, accorda la più ampia tutela sia alla vittima di lesioni, sia ai suoi prossimi congiunti.
Nel caso di lesioni non mortali, sia la vittima primaria, sia i suoi congiunti - nel caso di lesioni rilevanti: Sez. U, Sentenza n. 9556 del 01/07/2002, Rv. 555495 - 01) - hanno diritto ad essere risarciti dei danni patrimoniali e non patrimoniali.
Nel caso di morte della vittima, i suoi congiunti hanno diritto ad essere risarciti dei danni patrimoniali e non patrimoniali.
Nel caso, infine, di sopravvivenza quodam tempore della vittima, questa ha diritto ad essere risarcita sia del danno biologico, sia della sofferenza provocata dalla formido mortis. La circostanza, poi, che tali pregiudizi siano risarcibili solo se oggettivamente accertabili e concretamente dimostrati non solo non confligge con alcuna norma costituzionale, ma costituisce al contrario un irrinunciabile presidio del principio di legalità. 

[...]

3.3. Nella parte in cui lamenta la violazione di legge il motivo è manifestamente infondato.
Che nel nostro ordinamento giuridico esista e sia risarcibile un pregiudizio non patrimoniale definibile come "danno esistenziale", nei termini in cui tale ambigua nozione venne concepita e sostenuta venti anni fa da minoritaria dottrina, è stato definitivamente escluso dalle Sezioni Unite di questa Corte, le quali hanno affermato che "di danno esistenziale come autonoma categoria di danno non è più dato discorrere" (Sez. U, Sentenza n. 26972 del 11/11/2008, § 3.3 dei "Motivi della decisione"). 

3.4. Resterebbe tuttavia da stabilire se, al di là delle espressioni usate dalla difesa dei ricorrenti, il motivo prospetti comunque un error in iudicando effettivamente sussistente, e consistito nella violazione del principio di integrale riparazione del danno.
Sotto questo profilo, l'assunto dei ricorrenti può così riassumersi: "noi abbiamo dedotto e provato di essere stati costretti, a causa del luttuoso evento, di avere mutato le nostre abitudini di vita, e la Corte d'appello ha ritenuto che tale danno non fosse risarcibile".
Anche così qualificato, tuttavia, il motivo resterebbe manifestamente infondato.
Il prossimo congiunto di persona deceduta in conseguenza d'un fatto illecito non patisce - giuridicamente parlando - tanti danni non patrimoniali quante sono le rinunce che ha dovuto sopportare o le avversità che ha dovuto affrontare.
Egli patisce un solo danno non patrimoniale, che è concetto unitario ed omnicomprensivo, nella stima del quale ovviamente il giudice dovrà tenere conto di tutte le conseguenze concrete provocate dal lutto (Cass. sez. un. 26972/08, cit.).
Nella stima di tali conseguenze, la distinzione principale che il giudice di merito dovrà compiere è quella tra conseguenze normali ed indefettibili, e conseguenze peculiari del caso di specie. Le prime sono quelle che di norma non possono essere evitate da nessuna persona di normale sensibilità che patisca un così tragico evento: e dunque, a mo' d'esempio, la sofferenza, la tristezza, la perdita della gioia della vita.
La seconde sono quelle che non costituiscono una conseguenza inevitabile del lutto, ma si sono verificate nel caso concreto a causa delle particolarità di questo.
Tale distinzione ha per conseguenza che, in mancanza di allegazione e di prova dell'esistenza di specificità del caso concreto, la liquidazione del risarcimento dovrà avvenire in base ai criteri standard  ordinariamente adottati dal giudicante; in caso contrario, quei criteri standard dovranno essere opportunamente ed equitativamente variati, per qualità o quantità. 

3.5. Nel caso di specie, la Corte d'appello di Napoli non ha affatto negato tale distinzione.
La Corte d'appello, infatti, ha innanzitutto affermato di monetizzare il risarcimento del danno sofferto dai congiunti di [...] tenendo conto:
-) del rapporto di parentela;
-) del legame affettivo di particolare intensità che legava la vittima agli appellanti;
-) delle indubbie sofferenze patite sulla base dello stretto vincolo familiare;
-) del rapporto di frequentazione che i familiari avevano con la vittima;
-) della giovanissima età della vittima;
-) della perdita di un punto di riferimento effettivo e di sostegno psicologico;
-) "di tutte le circostanze del caso concreto".
Ciò posto, la Corte d'appello ha poi aggiunto di non ritenere sussistenti nel caso concreto specificità tali da giustificare un innalzamento della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale. 
Tale valutazione non fu affatto illegittima. 
Questa Corte infatti ha in più occasioni affermato che soltanto in presenza di circostanze "specifiche ed eccezionali", tempestivamente allegate dal danneggiato, le quali rendano il danno concreto più grave, sotto gli aspetti indicati, rispetto alle conseguenze ordinariamente derivanti dagli analoghi pregiudizi non patrimoniali sofferti da altre persone in conseguenza di fatti simili, è consentito al giudice incrementare le somme dovute a titolo risarcitorio in sede di personalizzazione della liquidazione del danno non patrimoniale (Sez. 3, Sentenza n. 23778 del 07/11/2014; Sez. 3, Sentenza n. 24471 del 18/11/2014).
Pertanto, in presenza d'un danno non patrimoniale, la misura standard del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli organi giudiziari di merito può essere aumentata solo in presenza di conseguenze dannose "del tutto anomale ed affatto peculiari". 
Per contro, le conseguenze dannose da ritenersi normali e indefettibili secondo l'id quod plerumque accidit (ovvero quelle che qualunque persona che patisse il medesimo danno non potrebbe non subire) "non giustificano alcuna personalizzazione in aumento del risarcimento" (Sez. 3 - , Ordinanza n. 7513 del 27/03/2018, Rv. 648303 - 01).  
La Corte d'appello, pertanto, ha correttamente negato autonoma rilevanza alla circostanza che i genitori della vittima, dopo il lutto, avessero patito una grande sofferenza, non partecipassero più "a matrimoni e battesimi", e "si fossero inariditi".
Quelle dedotte dalla difesa dei ricorrenti, infatti, non erano certo circostanze peculiari, anomale ed eccezionali, ma costituivano purtroppo il doloroso ed umanissimo Calvario che chiunque perda una persona cara è costretto ad ascendere, pregiudizio che la Corte d'appello aveva già risarcito con la non irrisoria cifra di 280.000 curo per ciascuno dei genitori (in moneta del 2015), oltre accessori.

Cass. Civ., Ord. Sez. 6 Num. 32372 Anno 2018

19 dicembre 2018

Ordinanza di assegnazione: notifica col precetto, pagamento in un termine ragionevole e interessi

"L'opposizione dovrà essere nuovamente valutata in sede di rinvio, in base ai seguenti principi di diritto: 
«l'ordinanza con la quale il giudice dell'esecuzione, ai sensi dell'art. 553 c.p.c., assegna in pagamento al creditore procedente la somma di cui il terzo pignorato si è dichiarato debitore nei confronti del debitore espropriato, ha efficacia di titolo esecutivo nei confronti del terzo ed a favore dell'assegnatario anche prima della sua comunicazione o notificazione al terzo, e il creditore assegnatario può procedere alla notificazione di detta ordinanza anche unitamente all'intimazione dell'atto di precetto ma, in tale ultimo caso, laddove il terzo debitore intimato provveda all'integrale pagamento di tutte le somme dovute in un termine ragionevole (anche eventualmente superiore a quello di dieci giorni previsto dall'art. 480 c.p.c.), da accertarsi in concreto in base a tutte le circostanze rilevanti nella singola fattispecie, dovrà ritenersi inapplicabile l'art. 95 c.p.c., e le spese di precetto e funzionali all'intimazione resteranno a carico del creditore intimante; laddove il pagamento avvenga in un termine ragionevole, ma non sia integrale, le spese di precetto e di esecuzione saranno ripetibili dal creditore nei limiti di quanto necessario per il recupero delle sole somme effettivamente non pagate tempestivamente dal debitore»; 
«le somme oggetto di assegnazione in favore del creditore procedente all'esito del procedimento di espropriazione presso terzi (laddove riferibili a crediti già scaduti), tanto con riguardo all'importo assegnato a titolo di capitale, quanto con riguardo a quello assegnato per le spese di precetto ed esecuzione contestualmente liquidate dal giudice dell'esecuzione, costituiscono crediti di somme di danaro liquidi ed esigibili ai sensi dell'art. 1282 c.c., e come tali (in mancanza di diversa specificazione nel titolo) producono di regola interessi di pieno diritto dalla data dell'ordinanza di assegnazione (e fino al pagamento effettivo), anche a prescindere da una espressa previsione in tal senso nel titolo, ed anche a prescindere dalla comunicazione o notificazione della stessa ordinanza al terzo e dalla sussistenza di una mora di quest'ultimo; in ogni caso su tali somme sono certamente dovuti gli interessi di mora, ai sensi dell'art. 1219 c.c., dalla data di notificazione del precetto a quella del pagamento effettivamente operato dal debitore»."

Civile Ord. Sez. 6 Num. 17437/2018 del 4.7.2018

Inammissibile il ricorso incidentale condizionato in Cassazione della parte vittoriosa: le questioni assorbite possono essere riproposte al giudice di rinvio


"... in verità l'impugnata sentenza ha considerato assorbite le questioni sollevate a mezzo dei suddetti motivi; e nel giudizio di cassazione è giustappunto pacificamente inammissibile il ricorso incidentale condizionato con il quale la parte vittoriosa nel giudizio di merito sollevi questioni che siano rimaste assorbite, avendo il giudice di merito attinto la ratio decidendi da altre di carattere decisivo, in quanto tali questioni, in caso di accoglimento del ricorso principale, come nella specie, possono essere riproposte davanti al giudice di rinvio (v. Cass. n. 9907-10, Cass. n. 3796-08, Cass. n. 22501-06)."

Civile Ord. Sez. 6 Num. 31825 Anno 2018, 10.12.2018