16 dicembre 2016

Sevizie e condotta crudele: differenze chiarite dalla Cass. a SS.UU. Penale la quale, con l'occasione, bacchetta un certo modo di scrivere le sentenze.

Al riguardo queste Sezioni Unite non nutrono dubbi, alla luce della nitida connotazione semantica dei termini.
Le sevizie costituiscono azioni studiate, specificamente indirizzate finalisticamente ad infliggere alla vittima sofferenze fisiche aggiuntive, gratuite. Talvolta esse, pur afferendo senza dubbio al contesto illecito, non attengono propriamente all'azione esecutiva, tipica, e sono caratterizzate dall'adozione di specifici gesti volti proprio ad infliggere patimenti efferati. Dunque, la figura è caratterizzata dalla specificità della misura afflittiva studiata, sadicamente indirizzata direttamente alla vittima, nonché dall'intenzionalità dell'agire.
Parafrasando le classiche categorie del dolo d'evento, si può affermare che le sevizie richiedono dolo intenzionale: proprio la architettata, finalistica volontà di infliggere sofferenze perverse.
Per contro, la condotta crudele è quella che, pur non mostrando una studiata predisposizione finalizzata a cagionare, per qualche verso, un male aggiuntivo, eccede rispetto alla normalità causale e mostra l'efferatezza che costituisce il nucleo della fattispecie aggravante.
L'esperienza giuridica mostra illuminanti esempi delle fenomenologie di cui si parla. In un caso l'autore cagionò lesioni ai glutei e al fianco alla vittima quando era già agonizzante, per sadismo e sfregio. Nella sentenza di legittimità si parla genericamente di crudeltà; ma è verosimilmente più appropriato ritenere l'esistenza di sevizie, in considerazione del carattere sadico dell'azione di tagliuzzare i glutei, all'evidente quanto deliberato e studiato scopo (come si legge in sentenza) di infierire con patimenti umilianti e dolorosi (Sez. 1, n. 1894 del 18 gennaio 1996, Fertas, Rv. 203808).
In altro caso altrettanto emblematico sono state ritenute con piena evidenza le sevizie: la vittima venne legata, sottoposta ad una lenta, dolorosa e spasmodica asfissia da strangolamento; fu brutalmente pestata con frattura di alcune costole, sfregiata con una lunga ferita sulla guancia; venne pure stuprata (Sez. 1, n. 5901 del 14 febbraio 1980, Iaquinta, Rv. 145246).
3. Proprio l'efferatezza che contrassegna tutte le manifestazioni dell'aggravante induce a condividere l'indirizzo giurisprudenziale che, alla luce dell'art. 70 c.p., considera soggettiva la circostanza. Si tratta in effetti di comportamenti che rilevano precipuamente nella sfera della colpevolezza, dell'atteggiamento interiore, caratterizzato da particolare riprovevolezza per via della sua perversità.
E' ben vero che l'aggravante chiama in causa le particolari modalità dell'azione. Tuttavia tali peculiarità rilevano più che per la concreta afflittività della condotta tipica che conduce all'evento, per il contrassegno di spietatezza che conferiscono, nel complesso, alla volontà illecita manifestatasi nel delitto. Insomma, le eccedenti modalità dell'azione mostrano una riprovevolezza che giustifica l'aggravamento della pena.
Coerente con tale lettura della norma è la costante, condivisa giurisprudenza che ritiene l'aggravante anche quando la crudeltà si manifesta nei confronti di una persona viva di cui non si sa se percepisca concretamente l'afflizione gratuita, trovandosi in stato d'incoscienza. Parimenti per ciò che riguarda l'esistenza della crudeltà quando essa è rivolta contro una persona diversa dalla vittima. E' il caso di scuola del figlio costretto ad assistere allo scempio del genitore.
Insomma, è la perversità dell'intento che, al fondo, contrassegna la figura di cui si parla. Tale atteggiamento di gratuita eccedenza, naturalmente, è intrinsecamente volontario. Esso può essere definito doloso, ma con la precisazione, già accennata ma da ribadire, che non si fa qui riferimento al dolo d'evento ma se ne recuperano le categorie, i tipi, per più immediata ed agevole esplicazione del pensiero e catalogazione dei moti interiori entro schemi noti al lessico giuridico.
In breve, conclusivamente, è la stessa norma che configura l'aggravante come una circostanza soggettiva a colpevolezza dolosa.
Tale colpevolezza circostanziale può ben manifestarsi nella forma del dolo eventuale: l'agente è consapevole che vi è concreta, significativa possibilità che dalla propria condotta derivi un pregiudizio eccedente e tuttavia si risolve ad agire accettando tale eventualità. E' il caso dell'autore che lascia la vittima agonizzante e senza scampo in un luogo remoto, accettando la concreta eventualità che la morte sopravvenga dopo strazianti patimenti a contatto con avverse forze della natura.
Infine, l'aggravante può concretizzarsi anche nel caso in cui il dolo d'evento sia eventuale: si tiene una condotta virulenta accettando la possibilità che da essa discenda l'evento lesivo.
Le considerazioni svolte - si confida - rendono chiaro che la riprovevolezza aggiuntiva riguarda l'azione e non l'autore. Si infligge una pena più severa perché la condotta è efferata e non perché l'agente è una persona crudele. Il contrario avviso espresso dall'ordinanza di rimessione non può essere condiviso. L'attribuzione al diritto penale di un'impronta autoriale rischia di evocare scenari del passato estranei al moderno diritto penale costituzionale. Inoltre, il dato normativo è chiaro: il rimprovero riguarda la condotta posta in essere nel corso dell'esecuzione del reato. Si può essere compassionevoli per un'intera vita ed efferati in una speciale, magari drammatica contingenza esistenziale. Infine il sistema. Il codice non è alieno dal considerare l'autore: la recidiva, l'abitualità, la professionalità nel reato. Ma sempre lo fa considerando la storia personale e mai un singolo atto.

[...]

La pronunzia pone difficoltà di lettura, presentando talune patologie quanto all'esame delle questioni cruciali: la distonia tra motivazione e dispositivo; elefantiasi che offusca le ragioni della decisione; la disorganica esposizione delle prove e dei fatti, senza che ne sia chiaramente esplicitata la rilevanza in ordine alla risoluzione delle questioni controverse.
L'atto consta di oltre duecento pagine, ma la parte di gran lunga preponderante del testo è costituita dalla integrale, acritica trascrizione di deposizioni assunte nel giudizio. Non solo il documento è macroscopicamente sovrabbondante, ma neppure esplicita le ragioni di tanta profusione, nè soprattutto indica quali sono i passaggi degli atti acriticamente trascritti che esercitano un ruolo nella logica della decisione.
Si tratta di uno stile che si rinviene spesso nella produzione giurisprudenziale, alimentato anche dalla tecnologia di riproduzione dei testi. Tale stile ostacola la comprensione del senso della decisione, tradisce la funzione euristica della motivazione, disattende precise indicazioni di plurime norme processuali.
Di fronte a tale preoccupante degenerazione, le Sezioni Unite ritengono di dovere rimarcare il fenomeno dell'assenza di una chiara distinzione tra il contenuto della prova ed i fatti che da essa si desumono. L'acritica trasposizione nella sentenza del tenore delle prove, senza l'appropriata spiegazione in ordine ai fatti che si ritengono accertati, costituisce una patologica rottura della sequenza dei momenti dell'operazione decisoria, che rischia di vulnerarne la tenuta logica. Per contro, la chiara visione della sequenza indicata consente di ricondurre l'atto al virtuoso paradigma della chiarezza e concisione. Si segnano e si discutono, ove occorra anche diffusamente, solo i fatti rilevanti e le questioni problematiche, liberando la motivazione dalla congèrie di dettagli insignificanti che spesso vi compaiono senza alcuna necessità.

Cass. pen. Sez. Unite, Sent., (ud. 23/06/2016) 29-09-2016, n. 40516

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