"L'obbligo di fedeltà è sicuramente impegno globale di devozione, che presuppone una comunione spirituale tra i coniugi, volto a garantire e consolidare l'armonia interna tra essi (in tale ambito, la fedeltà sessuale è soltanto un aspetto, ma sicuramente assai rilevante). Quanto all'addebito, esso sussiste se vi siano violazioni degli obblighi matrimoniali, di regola gravi e ripetute, che diano causa all'intollerabilità della convivenza, (ciò anche per l'obbligo di fedeltà, come per qualsiasi altro obbligo coniugale) (Al riguardo Cass. n. 17193 del 2011).
[...]
Quanto ai principi di solidarietà familiare, invocati dal ricorrente incidentale, è bensì vero che l'obbligo di contribuzione durante la convivenza familiare sussiste in relazione alle sostanze e alle capacità di lavoro professionale e/o casalingo di entrambi i coniugi ed è volto a soddisfare i bisogni della famiglia, ma è altrettanto vero che, soprattutto in relazione ad attività ed operazioni economiche e straordinarie, come l'acquisto di un immobile, ben possono costituirsi rapporti di debito e credito tra i coniugi, come tra qualsiasi altro soggetto. Con il terzo motivo, il F. lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, e art. 2697 c.c., per insufficiente e contraddittoria motivazione circa l'assegnazione dell'intera casa coniugale, comodamente divisibile tra i coniugi, interamente alla B..
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L'assegnazione della casa coniugale, ai sensi dell'art. 155 quater c.c., va effettuata "tenendo prioritariamente conto dell'interesse dei figli", (per tutte, Cass. n. 16802 del 2009). Ritiene la Corte di Merito (riferendosi esplicitamente alla posizione delle figlie minori, che abitano nella casa coniugale, e richiamando, ancorchè implicitamente, le argomentazioni della sentenza di primo grado) che il "vissuto" delle minori stesse, le relazioni, gli interessi sviluppati, i bisogni attivati escludano, nel loro preminente interesse, una divisione della casa stessa che comporterebbe una notevole limitazione del loro spazio di vita.
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Quanto al ricorso principale, con il primo motivo, la ricorrente lamenta insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata, in punto esclusione dell'assegno di mantenimento a suo favore, nonchè violazione e falsa applicazione dell'art. 156 c.c..
Il motivo è fondato.
Secondo orientamento ampiamente consolidato, (per tutte, Cass., n 6698 del 2009) ai fini della determinazione dell'assegno d separazione (o di divorzio), l'inadeguatezza dei redditi del coniuge va commisurata al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale: accertato il quale, dovrà il giudice verificare se i mezzi economici a disposizione del richiedente, gli permettano di conservarlo e, in caso negativo, procederà alla valutazione comparativa dei mezzi a disposizione di ciascun coniuge. La sentenza impugnata, da un lato, ha accertato la sussistenza di un tenore di vita elevato durante la convivenza matrimoniale (ciò che giustificherebbe, a suo dire, la determinazione dell'assegno per le figlie minori, di importo piuttosto elevato), dall'altro, con una motivazione insufficiente e, almeno in parte, contraddittoria, ha precisato che la B. non avrebbe dimostrato la propria inadeguatezza dei redditi, svolgendo attività lavorativa retribuita, "non essendo quindi provato che essa non sia in grado di mantenere il tenore di vita precedente". Null'altro aggiunge il Giudice a quo, senza verifica alcuna sui mezzi economici del coniuge richiedente l'assegno, quasi che un'attività lavorativa qualsivoglia (nella specie, sembra pacifico che la moglie lavori part time presso un ente pubblico; diverge al contrario la valutazione su ulteriori redditi e proprietà in capo all'uno e all'altro coniuge) escluda di per sè sola l'assegno di mantenimento di separazione.
Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 143 c.c., in combinato disposto con l'art. 2043 c.c., nonchè vizio di motivazione, in relazione all'esclusione di responsabilità aquiliana del F., per violazione dell'obbligo di fedeltà matrimoniale.
Il motivo è fondato.
Afferma la sentenza impugnata che la condotta del F. non sarebbe "antigiuridica". La domanda di risarcimento del danno contrasterebbe con il diritto del coniuge di perseguire le proprie scelte personali, soprattutto in conseguenza "della legge che ha eliminato il carattere illecito dell'adulterio": il desiderio di "libertà e felicità" del F., pur comportando disgregazione della famiglia, sarebbe sanzionato con l'addebito della separazione, ma non potrebbe configurarsi quale fonte di risarcimento dei danni.
Non tiene conto il Giudice a quo dell'evoluzione giurisprudenziale di questi anni, di merito e legittimità con l'affermarsi e l'estendersi di uno dei fenomeni sicuramente più rilevanti nella vicenda più recente del diritto di famiglia; l'introduzione della logica e dei metodi della responsabilità civile nel rapporto tra coniugi e tra genitori e figli, che,del resto, si inserisce nel più generale ampliamento dell'area della responsabilità aquiliana.
Significativamente la sentenza impugnata parla di legge che ha rifiutato il carattere illecito dell'adulterio (si riferisce, evidentemente, alle notissime sentenze della Corte Costituzionale che avevano dichiarato l'illegittimità dei reati di adulterio e concubinato) quasi che, ancor oggi, i danni non patrimoniali siano soltanto derivanti da ipotesi di reato.
Quanta Corte ha avuto modo di precisare ripetutamente che la violazione di diritti fondamentali della persona costituzionalmente garantiti, anche ai sensi dell'art. 2 Cost., incidendo su beni essenziali della vita, da luogo a risarcimento di danni non patrimoniali (per tutte, Cass. nn. 7281, 7282, 7283 del 2003). E' vero che una parte della dottrina ha definito il nuovo orientamento giurisprudenziale "illiberale" perchè punirebbe ulteriormente il coniuge (magari già sanzionato dalla dichiarazione di addebito), con la "creazione" di diritti assolutamente inesistenti, non essendovi alcuna violazione del principio del neminem laedere.
Va precisato che la responsabilità tra coniuge o del genitore nei confronti del figlio, non si fonda sulla mera violazione dei doveri, matrimoniali o di quelli derivanti dal rapporto di genitorialità, ma sulla lesione, a seguito dell'avvenuta violazione di tali a doveri, di beni inerenti la persona umana, come la salute, la privacy, i rapporti relazionali, etc. (al y riguardo, più in generale, Cass. n. 9801 del 2005 e, specificamente sull'obbligo di fedeltà, Cass. n. 18853 del 2011, n. 610 del 2012).
Si riteneva altresì, come ancora afferma il Giudice a quo che l'addebito, strumento peraltro più sanzionatorìo che risarcitorio, non soffrisse la cumulabilità di ulteriori risarcimenti, salvo che vi fossero specifici danni patrimoniali, per i quali il coniuge avrebbe potuto ovviamente essere ritenuto responsabile (ad es. se egli avesse, con il suo comportamento, arrecato perdite al patrimonio dell'altro coniuge); ovvero - ipotesi del tutto differente - il coniuge arrecasse danno all'altro, prescindendo dalla sua qualità, in quanto mero soggetto danneggiante, come qualsiasi estraneo (ad es. con la propria guida spericolata).
Al contrario, come si diceva, secondo il nuovo orientamento, rileva proprio la qualità di coniuge e la violazione di obblighi nascenti dal matrimonio che, da un lato è causa di intollerabilità della convivenza, giustificando la pronuncia di addebito, con gravi conseguenze, com'è noto, anche di natura patrimoniale, dall'altro, si configura come comportamento (doloso o colposo) che, incidendo su beni essenziali della vita, produce un danno ingiusto, con conseguente risarcimento, secondo lo schema generale della responsabilità civile.
Possono dunque sicuramente coesistere pronuncia di addebito e risarcimento del danno, considerati i presupposti, i caratteri, le finalità, radicalmente differenti."
Cass. civ. Sez. I, Sent., 01-06-2012, n. 8862
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