27 aprile 2012

Infortuni sul lavoro - efficacia probatoria CTP del PM - il potere-dovere istruttorio del G.U.L.


"Occorre premettere che in tema di responsabilità civile, il nesso causale è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 c.p., per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonchè dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all'interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano - ad una valutazione "ex ante" - del tutto inverosimili, ferma restando, peraltro, la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che, nell'accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che non", mentre nel processo penale vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio" (Cass., n. 16123 del 2010, n. 10741 del 2009, Cass., S.U., n. 576 del 2008). A tali principi si è attenuta la Corte d'Appello nel valutare la sussistenza del concorso causale della condotta del lavoratore e del datore di lavoro nella determinazione dell'evento dannoso, come messo in evidenza dall'articolata e logica motivazione.


E' giurisprudenza costante di questa Corte che il disposto dell'art. 2087 c.c. - avente una funzione sussidiaria ed integrativa delle misure protettive da adottare a garanzia del lavoratore - abbraccia ogni tipo di misura utile a tutelare il diritto soggettivo dei lavoratori ad operare in un ambiente esente da rischi, così come è stato posto in rilievo dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 399 del 1996 (cfr. Cass., n. 4840 del 2006). Con detta pronuncia, il Giudice delle Leggi ha affermato che non sono soltanto le norme costituzionali (artt. 32 e 41 Cost.) ad imporre ai datori di lavoro la massima attenzione per la protezione della salute e dell'integrità fisica dei lavoratori, in quanto numerose altre disposizioni, assumono in proposito una valenza decisiva.


Nel richiamare, in proposito, il contenuto precettivo dell'art. 2087 c.c. - disposizione fondata sul generico dovere di prudenza, diligenza, osservanza delle norme tecniche e di esperienze, parallela all'art. 43 c.p. - che stabilisce che l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa tutte le misure che, secondo le particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, la Corte costituzionale ricordava l'interpretazione datane dalla Cassazione (Cass., n. 5048 del 1988), che aveva ritenuto che tale disposizione "come tutte le clausole generali, ha una funzione di adeguamento permanente dell'ordinamento alla sottostante realtà socio-economica" e pertanto "vale a supplire alle lacune di una normativa che non può prevedere ogni fattore di rischio, ed ha una funzione sussidiaria rispetto a quest'ultima di adeguamento di essa al caso concreto".


Le norme specifiche antinfortunistiche rappresentano, dunque, lo standard minimale richiesto dal legislatore per la tutela della sicurezza del lavoratore, sicchè a tal fine, vanno - proprio per la natura di "norma di chiusura" dell'art. 2087 c.c. - adottate tutte quelle misure che la specificità del rischio cui egli sia esposto impongono. La sicurezza del lavoratore costituisce un bene di rilevanza costituzionale (art. 41 Cost., comma 2, che espressamente impone limiti all'iniziativa privata per la sicurezza) che impone - a chi si avvalga di una prestazione lavorativa eseguita in stato di subordinazione - di anteporre al proprio (legittimo) profitto la sicurezza di chi tale prestazione esegua, adottando ogni cautela che lo specifico contesto lavorativo richieda (Cass., n. 17314 del 2004).


[...]


Con il sesto motivo d'impugnazione, assistito dal prescritto quesito di diritto, è dedotto il vizio di violazione di legge in riferimento al combinato disposto degli artt. 3, 24 e 111 Cost., nonchè agli artt. 101 e 116 c.p.c., in relazione all'efficacia probatoria attribuita, nella decisione impugnata, alla consulenza di parte disposta dal PM nel corso delle indagini preliminari, e senza contraddittorio delle parti, in un procedimento penale definito con sentenza di patteggiamento.


Il ricorrente, dato il rilievo attribuito alla CTP disposta dal PM, dalla Corte d'Appello, con il suddetto motivo introduce il tema della valenza probatoria delle prove assunte in un diverso giudizio, pendente tra le stesse parti o tra parti diverse, prospettando la lesione del principio del contraddittorio.


Il motivo non è fondato. Ed infatti, occorre rilevare che la Corte d'Appello poneva alla base della ritenuta violazione delle disposizioni antinfortunistiche, oltre alla cognizione del CT, anche la diretta valutazione dei luoghi di causa attraverso l'esame delle fotografie scattare, nell'immediatezza dei fatti, dai Carabinieri.


Nè è ravvisabile la dedotta violazione del principio del contraddittorio, poichè il giudice di merito può legittimamente tenere conto, ai fini della sua decisione, delle risultanze di una consulenza tecnica acquisita in un diverso processo, anche di natura penale ed anche se celebrato tra altre parti, atteso che, se la relativa documentazione viene ritualmente acquisita al processo civile, le parti di quest'ultimo possono farne oggetto di valutazione critica e stimolare la valutazione giudiziale su di essa (Cass., n. 28855 del 2008), come avvenuto nella fattispecie in esame.


[...]


Con il settimo motivo di ricorso è prospettato il vizio di violazione di legge (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), con riferimento al mancato esercizio da parte del giudice di appello, dei poteri istruttori di cui all'art. 437 c.p.c., in relazione all'art. 134 c.p.c., e art. 111 Cost..


La Corte d'Appello, in particolare, avrebbe omesso di pronunciare sulle istanze tendenti a sollecitare l'esercizio dei poteri ex artt. 437 e 134 c.p.c., e art. 111 Cost., (art. 360 Cost., comma 1, n. 3).


La censura, si precisa nella mancata ammissione di prove e CTU e nella deduzione della mancata audizione da parte del giudice di primo grado, in quanto ritenuta superflua, del teste G.C., unico testimone oculare dell'evento mortale.


Il motivo non è fondato.


Occorre rilevare che il motivo d'impugnazione, da un lato non soddisfa il requisito di autosufficienza del ricorso, in quanto genericamente il ricorrente fa riferimento a "prove richieste", a "CTU dedotta nel ricorso in appello", senza le necessarie specificazioni con riguardo alla fase processuale e al relativo contenuto degli atti processuali in cui sarebbero stati dedotti (nè riporta i capitoli di prova su cui avrebbe dovuto deporre il teste G., e non precisa se interponeva appello in proposito).


Nel rito del lavoro, ai sensi di quanto disposto dagli artt. 421 e 437 c.p.c., l'esercizio del potere d'ufficio del giudice, pur in presenza di già verificatesi decadenze o preclusioni e pur in assenza di una esplicita richiesta delle parti in causa, non è meramente discrezionale, ma si presenta come un potere - dovere, sicchè il giudice del lavoro non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale del giudizio fondata sull'onere della prova, avendo l'obbligo - in ossequio a quanto prescritto dall'art. 134 c.p.c., ed al disposto di cui all'art. 111 Cost., comma 1, sul "giusto processo regolato dalla legge" - di esplicitare le ragioni per le quali reputi di far ricorso all'uso dei poteri istruttori o, nonostante la specifica richiesta di una delle parti, ritenga, invece, di non farvi ricorso. Nel rispetto del principio dispositivo i poteri istruttori non possono in ogni caso essere esercitati sulla base del sapere privato del giudice, con riferimento a fatti non allegati dalle parti o non acquisiti al processo in modo rituale, dandosi ingresso alle cosiddette prove atipiche, ovvero ammettendosi una prova contro la volontà delle parti di non servirsi di detta prova o, infine, in presenza di una prova già espletata su punti decisivi della controversia, ammettendo d'ufficio una prova diretta a sminuirne l'efficacia e la portata (Cass., S.U., n. 11353 del 2004)."

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 23-04-2012, n. 6337

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