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04 aprile 2012
Difetto di motivazione in relazione alla sussistenza del nesso causale tra esposizione all'amianto e la patologia tumorale contratta.
"Va ricordato che il nesso causale è il legame necessario che deve intercorrere tra la condotta umana e l'evento. In diritto penale si pretende che il reo abbia contribuito materialmente alla verificarsi del risultato dannoso. E' quindi criterio di "imputazione oggettiva" del fatto al soggetto, non solo la ascrivibilità a lui della condotta, ma anche che il risultato lesivo sia "opera" dell'agente.
In tale ricerca è compito del giudice penale prendere atto che un evento non può che essere il frutto di una pluralità di condizioni (per la maggior parte naturali) e successivamente valutare se la condotta umana da indagare sia stata una condizione necessaria dell'evento.
A tal fine il giudice è chiamato a svolgere un giudizio "controfattuale" ipotetico e cioè contrario alla realtà come realizzatasi: dovrà valutare se, eliminando la condotta umana posta in essere, l'evento si sarebbe o meno realizzato. Se esso non si sarebbe realizzato, risulta dimostrato che la condotta umana ha avuto efficienza causale nel modificare la realtà e quindi a produrre l'evento. Poichè il giudizio da svolgere è ipotetico, è necessario per il giudice utilizzare dei criteri scientifici onde valutare la regolarità degli accadimenti a fronte di determinate condotte umane.
Tralasciando in questa sede l'analisi storica della evoluzione di tale tematica e, quindi, i riferimenti alle varie teorie elaborate, si deve ricordare che gli approdi più recenti della dottrina e della giurisprudenza in tema di nesso causale aderiscono alla cd. "teoria della sussunzione sotto leggi scientifiche", secondo cui un antecedente è condizione necessaria di un evento, se rientra nel novero di quegli antecedenti che, secondo una successione regolare, conforme ad una legge dotata di validità scientifica (cd. legge generale di copertura) determina il verificarsi di quegli accadimenti. Tale teoria, essendo ancorata a leggi scientifiche generali, consente di individuare i rapporti di successione "regolare" tra azione ed evento, inteso quest'ultimo non come vicenda unica, ma ripetibile ("spiegazione causale generalizzante", finalizzata al rispetto di ineludibili esigenze di garanzia).
Le leggi scientifiche sono: "universali", se spiegano la verificazione dell'evento in termini di certezza senza eccezioni;
"statistiche", che spiegano il ricollegarsi di un evento ad una determinata condizione solo in termini di percentualistici. In proposito va ricordata quella giurisprudenza che, in passato, ha ritenuto che "il rapporto di causalità deve essere accertato avvalendosi di una legge di copertura, scientifica o statistica, che consenta di ritenere che la condotta, con una probabilità vicina alla certezza, sia stata causa di un determinato evento ... con coefficienti percentualistici vicino a cento o quasi cento" (cfr. Cass. 4^, 14006/2001, Di Cintio).
Tale orientamento rispondeva all'esigenza di dare una spiegazione casuale compatibile con il principio del "oltre ogni ragionevole dubbio". Ma la impossibilità di disporre di leggi universali e la difficoltà concreta di poter sempre dare risposte probabilistiche con percentuali vicine alla certezza, ha condotto, soprattutto la giurisprudenza, ad elaborare un nuovo criterio di identificazione causale che, senza abbandonare la copertura delle leggi scientifiche, valorizza anche la probabilità logica, distinguendo appunto tra "probabilità statistica" e "probabilità logica" : la prima riferita al "tipo" di evento; la seconda riferita al singolo "evento concreto" (cd. "causalità individuale").
In breve, la probabilità "statistica" indica il grado di frequenza con cui ad un antecedente segue una conseguenza; la probabilità "logica", premessa la presenza di una legge statistica, indica nel caso concreto se con procedimento logico induttivo, sia da escludere la presenza di fattori causali alternativi idonei a produrre l'evento.
Sul punto è illuminante la nota sentenza "Franzese" delle Sezioni Unite di questa Corte, ove è stabilito che "Nel reato colposo omissivo improprio il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicchè esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l'azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l'interferenza di decorsi causali alternativi, l'evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva (sent. n. 30328/2002, Franzese).
Le Sezioni Unite, in sintesi, emancipano la identificazione del nesso causale dalla ricerca di un sempre più alto coefficiente statistico di probabilità dell'evento, ancorando la ricerca alla presenza della legge statistica ed alla assenza di fattori causali alternativi.
Come già ricordato in altre pronunce di questa Corte (cfr. Cass. 4^, 988/03, Macola; Cass. 4^, 4675/07, Baratalini), in quest'ottica, secondo la sentenza delle SS.UU. citata, non è sostenibile che si elevino a schemi di spiegazione del condizionamento necessario solo le leggi scientifiche universali e quelle statistiche che esprimano un coefficiente probabilistico prossimo ad 100, cioè alla "certezza", quanto all'efficacia impeditiva della prestazione doverosa e omessa rispetto al singolo evento.
Le sezioni unite da questa considerazione traggono la conclusione che la "certezza processuale" del nesso causale può derivare anche dall'esistenza di coefficienti medio bassi di probabilità cd. frequentista quando corroborati da positivo riscontro probatorio circa la sicura non incidenza nel caso concreto di altri fattori interagenti. Per converso livelli elevati di probabilità statistica o addirittura schemi interpretativi dedotti da leggi universali richiedono sempre la verifica concreta che conduca a ritenere irrilevanti spiegazioni diverse. Con la conseguenza che non è consentito dedurre automaticamente - e proporzionalmente - dal coefficiente di probabilità statistica espresso dalla legge la conferma dell'ipotesi sull'esistenza del rapporto di causalità. E' inadeguato, infatti, secondo la citata sentenza l'utilizzo di coefficienti numerici, mentre appare corretto enunciarli in termini qualitativi per cui le sezioni unite hanno condiviso quell'orientamento della giurisprudenza di legittimità che fa riferimento alla cd. "probabilità logica" che, rispetto alla cd. probabilità statistica, consente la verifica aggiuntiva dell'attendibilità dell'impiego della legge statistica al singolo specifico evento. Solo con l'utilizzazione di questi criteri può giungersi alla certezza processuale sull'esistenza del rapporto di causalità in modo simile all'accertamento relativo a tutti gli altri elementi costitutivi della fattispecie con criteri non dissimili dalla sequenza del ragionamento inferenziale dettato in tema di prova indiziaria dall'art. 192 c.p.p., comma 2, al fine di pervenire alla conclusione, caratterizzata da alto grado di credibilità razionale, che esclusa l'interferenza di decorsi alternativi, la condotta dell'imputato, alla luce della cornice nomologica e dei dati ontologici, è stata condizione necessaria dell'evento, attribuibile per ciò all'agente come fatto proprio.
La causalità omissiva, come già detto, presenta aspetti ancora più problematici, in quanto basata su una ricostruzione ancorata ad ipotesi e non su certezze.
Si tratta quindi di una causalità ipotetica, normativa, fondata, come quella commissiva, su un giudizio controfattuale ("contro i fatti" : se la condotta omessa fosse stata tenuta, si sarebbe impedito il prodursi dell'evento?) al quale si fa ricorso per ricostruire una sequenza che però, a differenza della causalità commissiva, non potrà mai avere una verifica fenomenica che invece, nella causalità commissiva è in talune ipotesi (non sempre però: si pensi alla responsabilità medica) verificabile. In caso di omissione, si è detto, il rapporto si instaura tra un'entità reale (l'evento verificatosi) e un'entità immaginata (la condotta omessa) mentre nella causalità commissiva il rapporto è tra due entità reali.
La giurisprudenza ha precisato che, proprio perchè nei reati omissivi si è in presenza di un "nulla", "la condotta doverosa che avrebbe potuto in ipotesi impedire l'evento deve essere rigorosamente descritta, definita con un atto immaginativo fondato precipuamente su ciò che accade solitamente in situazioni consimili, ma considerando anche le specificità del caso concreto" (Cass., sez. 4^, 21597/2007, Pecchioli).
In breve, in tali casi il giudice è chiamato a valutare se il comportamento omesso avrebbe o meno impedito il verificarsi dell'evento, ma al contrario della causalità dell'azione, in caso di omissione il ragionamento deve partire da un dato che non esiste nella realtà e cioè ipotizzare come avvenuta la condotta non tenuta, per poi valutare, con giudizio controfattuale, la sua efficacia impeditiva : è per tale motivo che in tema di causalità omissiva si discorre di giudizio doppiamente ipotetico.
Ciò detto è necessario ai fini del decidere valutare l'attendibilità o meno del ragionamento ricostruttivo della causalità, svolto dal giudice di merito, relativamente al decesso per tumore polmonare del T..
Si legge nella sentenza di primo grado (e tale valutazione è richiamata nella sentenza di appello, cfr. pg. 8) che "E' dunque provato che l'evento morta/e fu conseguenza (oltre che dalla protratta esposizione voluttuaria al fumo di sigaretta) anche dell'inalazione di fibre di amianto sul posto di lavoro in conseguenza della mancata adozione delle misure protettive contestate in epigrafe e previste della ivi citata normativa" (pg. 23-24). E' evidente che il giudice di merito, per riconoscere la rilevanza della condotta omissiva degli imputati, fa appello all'ipotesi del concorso di cause, attribuendo il decesso per adenocarcinoma del T. al fumo di sigarette ed all'esposizione all'amianto.
Ebbene, se la ricerca del nesso causale è facilitata per le patologie monofattoriali, cioè riconducibili all'azione di un solo fattore (es. l'asbestosi è riconducibile esclusivamente all'esposizione all'amianto), non altrettanto può dirsi per le patologie multifattoriali, cioè riconducibili ad una pluralità di possibili fattori causali come, nel caso di specie, l'adenocarcinoma.
In tale ultima ipotesi il giudice non può ricercare il legame eziologico, necessario per la tipicità del fatto, sulla base di una nozione di concausalità meramente medica; infatti, in tal caso, le conoscenze scientifiche vanno ricondotte nell'alveo di categorie giuridiche ed in particolare di una causa condizionalistica necessaria.
Pertanto, tornando al caso che ci occupa, per poter affermare la causalità della condotta omissiva degli imputati, nell'insorgenza del tumore polmonare patito dal T., era necessario dimostrare che esso non aveva avuto un'esclusiva origine dal prolungato ed intenso fumo di sigarette, ma che la esposizione all'amianto era stata una condizione necessaria per l'insorgere o per una significativa accelerazione della patologia. Invero il rapporto causale va riferito non solo al verificarsi dell'evento prodottosi, ma anche e soprattutto in relazione alla natura e ai tempi dell'offesa nel senso che dovrà riconoscersi il rapporto in questione non solo nei casi in cui sia provato la condotta omessa avrebbe evitato il prodursi dell'evento verificatosi, ma anche nei casi in cui sia provato che l'evento si sarebbe verificato in tempi significativamente più lontani ovvero quando, alla condotta colposa omissiva o commissiva, sia ricollegabile un'accelerazione dei tempi di latenza di una malattia provocata da altra causa (cfr. Cass. Sez. 4, Sentenza n. 40924 del 02/10/2008 Cc. (dep. 31/10/2008), Catalano, Rv. 241335).
Viceversa, la sentenza impugnata, sul punto, attinge ad un concetto vago di causalità e concausalità (il perito Ma. nella sua relazione identifica l'asbesto come "possibile" agente causale della fibrosi polmonare) che, se consentito in ambito medico, deve in ambito penale essere trasfuso in precise categorie giuridiche."
Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 21-12-2011) 22-03-2012, n. 11197
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