06 marzo 2012

Collegato lavoro e ius superveniens in Cassazione


"Nelle more della trattazione del ricorso è intervenuto la L. n. 183 del 2010, art. 32, che al comma 5 così dispone: "Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8".


Il successivo comma 7 stabilisce che "Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6, trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge. Con riferimento a tali ultimi giudizi, ove necessario, ai soli fini della determinazione della indennità di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per l'eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell'art. 421 c.p.c.".


La società ricorrente invoca, nella memoria ex art. 378 c.p.c., l'applicazione di tale ius superveniens, cui si oppone - invece - il controricorrente.


Secondo costante insegnamento di questa S.C. (cfr., ex aliis, Cass. 26.7.11 n. 16266), nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto una nuova disciplina del rapporto controverso può applicarsi purchè pertinente rispetto alle questioni poste in ricorso, atteso che i principi generali dell'ordinamento in materia di processo per cassazione richiedono che il motivo di impugnazione, con cui è investito, anche indirettamente, il tema coinvolto nella disciplina sopravvenuta, sia ammissibile secondo la disciplina sua propria. Ne consegue che - ove sia invocato la L. n. 183 del 2010, art. 32, riguardo alle conseguenze economiche della nullità della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro - è necessario che i motivi del ricorso, purchè ammissibili, investano specificamente le conseguenze patrimoniali dell'accertata nullità del termine medesimo.


Nel caso di specie, i motivi concernenti la decorrenza della mora accipiendi del datore di lavoro si ripercuotono direttamente sulle conseguenze patrimoniali dell'accertata nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato il 1.3.04 fra le odierne parti, di guisa che il cit. ius superveniens va applicato anche al presente giudizio di legittimità.


Nel caso particolare dell'applicabilità della L. n. 183 del 2010, art. 32, commi 5 e 7, anche ai giudizi di legittimità, questa S.C. si è già pronunciata con ordinanza n. 2112 del 28.1.2011 e, proprio sulla scorta di tale assunto, Corte cost. n. 303/2011 ha poi ammesso la rilevanza - anche se non la fondatezza - della prospettata questione di legittimità costituzionale.


Pur essendo la citata sentenza della Corte cost. vincolante solo nel giudizio a quo (trattandosi di pronuncia di rigetto), restano tuttavia insuperate le considerazioni svolte dalla summenzionata ordinanza n. 2112/2011 di questa Corte Suprema, che qui vanno sviluppate mediante un'interpretazione costituzionalmente conforme.


Orbene, per quanto il tenore testuale del cit. art. 32, comma 5 - riferendosi alla fissazione di un termine per l'eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni e all'esercizio dei poteri istruttori d'ufficio ex art. 421 c.p.c., - evochi attività proprie della sede di merito e non di quella di legittimità, nondimeno escludere il giudizio di cassazione dalla sfera di operatività della norma in discorso equivarrebbe a discriminare irragionevolmente tra loro situazioni, pur analoghe, in base alla circostanza - del tutto fortuita - della pendenza della lite in una fase piuttosto che in un'altra, assoggettando le parti del rapporto di lavoro ad un regime risarei torio diverso a seconda che i processi pendano in primo o secondo grado oppure innanzi a questa S.C..


E poichè una discriminazione di siffatto tipo è stata già dichiarata costituzionalmente illegittima da Corte cost. n. 214/09 con riferimento alla circostanza, accidentale, della pendenza di una lite (in quella occasione si trattava del D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, art. 4 bis introdotto dal D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 21, comma 1 bis, convertito, con modificazioni, in L. 6 agosto 2008, n. 133), a fortiori lo sarebbe se, all'interno della medesima ipotesi fattuale (pendenza della lite), si operasse un'ulteriore irragionevole distinzione (lesiva, quanto meno, dell'art. 3 Cost.) fra processi pendenti in sede di merito e altri innanzi ai giudici della legittimità.


Nè la doverosa interpretazione costituzionalmente conforme incontra, nel caso di specie, il limite di un insuperabile contrario tenore letterale della norma.


In proposito si muova dalla rilievo che il riferimento alla fissazione di un termine per l'eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni e all'esercizio dei poteri istruttori d'ufficio ex art. 421 c.p.c., è contenuto nel secondo periodo del comma 7, in chiave all'affermazione, che si legge nel primo periodo dello stesso comma, di applicabilità delle disposizioni di cui ai commi 5 e 6, a tutti i giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della legge.


In tal modo il legislatore, piuttosto che segnalare all'interprete un'incompatibilità del giudizio di legittimità rispetto ad attività proprie del merito, si è limitato a disciplinare gli effetti della norma una volta ripristinata la sede di merito mediante cassazione con rinvio conseguente, appunto, all'applicazione dello ius superveniens sancita nel primo periodo del comma.


In altre parole, il legislatore ha solo ricordato (sempre in ipotesi di previa applicazione in sede di legittimità dell'art. 32, comma 5 cit.) che il giudice del rinvio può ovviare al divieto di nuove istanze di prova mediante uso dei poteri istruttori d'ufficio, esercitabili anche in appello nei limiti di cui all'art. 437 c.p.c., comma 2, secondo periodo.


Indubbiamente prima facie resta un'apparente distonia sistematica, considerato che il divieto di nova in secondo grado contenuto nel primo periodo del cit. dell'art. 437 c.p.c., comma 2, poco si amalgama con il richiamo alla possibilità di fissare alle parti un termine per l'eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni, ove ad essere cassata sia (come normalmente avviene, fatti salvi eventuali ricorsi per saltum) una sentenza di appello, oppure ove il processo penda ancora in tale fase.


Ma piuttosto che intendere detto richiamo come improbabile deroga all'art. 437 c.p.c., o come divieto di applicazione dell'art. 32, comma 5, ai giudizi pendenti in appello o in cassazione (di problematica legittimità costituzionale, come si è detto), è doveroso risolvere l'improprietà tecnica (nata dall'unificazione, in un solo periodo, di tutti gli effetti dell'immediata applicazione dello ius superveniens che, invece, meglio si sarebbe potuta articolare per ciascun grado del processo) valorizzando l'inciso "ove necessario" e il valore disgiuntivo/inclusivo (di operatore logico booleano "Or") della congiunzione che precede l'ultima proposizione del cit. art. 32, comma 7, ("ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell'art. 421 c.p.c.").


L'inciso "ove necessariò" dimostra che la possibilità di modifiche del petitum e di esercizio dei poteri istruttori d'ufficio va modulata in ragione, appunto, dello stato e del grado in cui si trova il processo e affidata all'opera razionalizzatrice dell'interprete.


Pertanto, tali modifiche (di domande ed eccezioni) potranno eventualmente rendersi necessarie solo in prime cure, se del caso anche con esercizio dei poteri istruttori d'ufficio, mentre in appello - proprio grazie al valore disgiuntivo/inclusivo della congiunzione che precede l'ultima proposizione del comma - resteranno consentiti solo questi ultimi.


In conclusione, deve ribadirsi che il combinato disposto del cit. art. 32, commi 5 e 7, è applicabile anche in sede di legittimità.."

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 02-03-2012, n. 3305

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