26 dicembre 2013

Obbligo per il giudice adito successivamente di dichiarare la litispendenza. Le SS.UU. della Cassazione si pronunciano.

La Prima Sezione di questa Corte ha, come detto, sollecitato l'intervento di queste Sezioni Unite, sulla questione se sia configurabile e possa perciò essere dichiarata la litispendenza, ai sensi dell'art. 39 c.p.c., comma 1, tra cause identiche, sul piano soggettivo e oggettivo, che pendano però in gradi diversi.

[...]

Il Collegio ritiene che al quesito proposto dalla ordinanza interlocutoria debba rispondersi nel senso che la litispendenza opera anche nel caso in cui le cause aventi ad oggetto la medesima domanda si trovino in gradi diversi e che quindi, anche in tale caso, il giudice successivamente adito debba dichiarare la litispendenza.

[...]

In conclusione, deve affermarsi il seguente principio di diritto:

"a norma dell'art. 39 c.p.c., comma 1, qualora la medesima causa venga introdotta davanti a giudici diversi, quello successivamente adito è tenuto a dichiarare la litispendenza, rispetto alla causa identica precedentemente iniziata, anche se questa, già decisa in primo grado, penda davanti al giudice dell'impugnazione".

Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 12-12-2013, n. 27846

(la sentenza per esteso nella sezione "sentenza del mese")

24 dicembre 2013

La filiazione smantella l'affidamento condiviso

Interessante riflessione, nella sezione "dottrina" del blawg.

http://blawgavvmauriziostorti.blogspot.it/p/dottrina.html

Pensione di inabilità ex art. 12 L. 118/71: vale solo il reddito del soggetto interesato. Dal 28 giugno 2013 il reddito del coniuge non influisce

Su questo quadro normativo e giurisprudenziale si innesta il recente intervento del legislatore che con il D.L. 28 giugno 2013, n. 76, recante "Primi interventi urgenti per la promozione dell'occupazione, in particolare giovanile, della coesione sociale, nonchè in materia di Imposta sul valore aggiunto (IVA.) e altre misure finanziarie urgenti all'art. 10, comma 5, ha inserito dopo il D.L. 30 dicembre 1979, n. 663, art. 14 septies, comma 6, convertito, con modificazioni, dalla L. 29 febbraio 1980, n. 33, una ulteriore disposizione con la quale si specifica che "Il limite di reddito per il diritto alla pensione di inabilità in favore dei mutilati e degli invalidi civili, di cui alla L. 30 marzo 1971, n. 118, art. 12, è calcolato con riferimento al reddito agli effetti dell'IRPEF con esclusione del reddito percepito da altri componenti del nucleo familiare di cui il soggetto interessato fa parte".

La nuova norma interviene a chiare lettere ed individua quindi, anche per la pensione di inabilità, nel solo reddito dell'invalido il parametro in base al quale verificare l'esistenza del diritto alla prestazione assistenziale.

La disposizione dell'art. 10, comma 5, si completa con quanto disposto al successivo comma 6, della stessa norma dove si prescrive che "La disposizione del D.L. 30 dicembre 1979, n. 663, art. 14 septies, comma 7, convertito, con modificazioni, dalla L. 29 febbraio 1980, n. 33, introdotta dal comma 5, si applica anche alle domande di pensione di inabilità in relazione alle quali non sia intervenuto provvedimento definitivo e ai procedimenti giurisdizionali non conclusi con sentenza definitiva alla data di entrata in vigore della presente disposizione, limitatamente al riconoscimento del diritto a pensione a decorrere dalla medesima data, senza il pagamento di importi arretrati. Non si fa comunque luogo al recupero degli importi erogati prima della data di entrata in vigore della presente disposizione, laddove conformi con i criteri di cui al comma 5".

Così facendo il legislatore ha inteso definire un nuovo regime reddituale senza, tuttavia, pregiudicare le posizioni di tutti quei soggetti che avendo presentato domanda nella vigenza della precedente normativa (da interpretarsi nei termini più sopra riportati) non avessero ancora visto la definizione in sede amministrativa del procedimento ovvero fossero parti di un procedimento giudiziario ancora sub iudice.

Quasi a ribadire il suo carattere innovativo, poi, la norma precisa che il diritto alla pensione, sulla base dei nuovi requisiti stabiliti, decorrerà solo dalla data di entrata in vigore della nuova disposizione (28.6.2013) e soggiunge che non possono essere pagati importi arretrali sulle prestazioni riconosciute precisando quindi che, ove tale pagamento sia già intervenuto, le somme erogate non sono comunque recuperabili purchè il loro riconoscimento sia intervenuto prima della data di entrata in vigore del nuovo requisito reddituale e risulti comunque rispettoso dello stesso.

Sebbene l'intervento del legislatore presenti qualche ambiguità, tuttavia ritiene la Corte che dallo stesso possano tirarsi i seguenti principi che indirizzano sia l'attività amministrativa che quella giudiziaria, anche con riguardo ai giudizi già in corso alla data di entrata in vigore del D.L. n. 76 del 2013, più volte richiamato.

Ed infatti in esito all'entrata in vigore delle citate disposizioni, dal 28 giugno 2013, si deve ritenere che:

- il riconoscimento del diritto alla pensione di inabilità sia condizionato oltre che dalla totale invalidità anche dal possesso di un reddito personale dell'invalido non superiore, per l'anno in corso ad Euro 16.127,30. - la disposizione si applica anche alle domande amministrative presentate prima del 28 giugno 2013 ed a tutte le domande giudiziarie non ancora definite.

- ove l'Istituto, anteriormente a tale data, abbia erogato ratei di prestazione, sia in via amministrativa che in esecuzione di un provvedimento giudiziario, le somme non sono ripetibili a condizione che il reddito personale dell'invalido fosse inferiore al limite annualmente previsto.

Cass. civ. Sez. VI - Lavoro, Ord., 12-12-2013, n. 27812

http://www.quotidianodiritto.ilsole24ore.com/pdf2013/QuotidianoDiritto/_Allegati/2013/12/Cassazione%2027812%20_2013.pdf

16 dicembre 2013

L’agenzia di viaggio risarcisce il viaggio di nozze se omette di controllare il visto della moglie

Quanto alla natura degli obblighi a carico dell'agente, non può essere condivisa la tesi del resistente, secondo cui la CCV non impone alcun obbligo di informazione circa i visti e i documenti di ingresso nel paese di destinazione a carico del mero intermediario di viaggio, tali obbligazioni gravando esclusivamente sull'organizzatore di viaggi e fornitore di pacchetti turistici.

Vero è che l'art. 18 CCV non menziona espressamente, con riferimento al mero intermediario di viaggi, i doveri di informazione sui visti turistici, nè l'obbligo di procurarli ai viaggiatori.

Ma l'art. 3 della Convenzione medesima dispone che anche l'intermediario, come l'organizzatore di viaggi, è tenuto a proteggere "... i diritti e gli interessi dei viaggiatori secondo i principi generali del diritto e i buoni usi in questo campo".

L'art. 22 soggiunge che "L'intermerdiario di viaggi risponde di qualsiasi inosservanza che commette nell'adempimento dei suoi obblighi, l'inosservanza venendo stabilita considerando i doveri che competono ad un intermediario di viaggi diligente". Per poter escludere la responsabilità dell'Agenzia Gr. ai sensi delle citate norme il g.a. avrebbe dovuto accertare se -anche ammesso che la prestazione richiesta all'Agenzia sia consistita nella sola vendita dei biglietti aerei - le modalità della contrattazione, l'identità dei clienti (che l'agente è tenuto ad acquisire all'atto della vendita dei biglietti aerei), le circostanze di cui l'agente era o poteva essere a conoscenza (per esempio il fatto che si trattava di due sposi in viaggio di nozze), e cosi via, avrebbero dovuto indurre l'Agenzia a rilevare, facendo uso dell'ordinaria diligenza e in base agli usi del settore, che la L.G. era cittadina extracomunitaria e che avrebbe dovuto munirsi del visto di ingresso in (OMISSIS), o quanto meno, l'agente avrebbe dovuto mettere in allarme i clienti circa questa possibilità, si che essi stessi procedessero agli opportuni accertamenti.

Non si richiede, cioè, che gli acquirenti dei biglietti avessero espressamente informato la Gr. che la moglie era cittadina extracomunitaria, e di ciò avessero fornito la prova, come afferma la sentenza di appello.

Era piuttosto necessario accertare se tale circostanza fosse comunque conosciuta o conoscibile dall'intermediario, facendo uso dell'ordinaria diligenza e delle competenze tipiche degli operatori del settore, come disposto dalle citate norme della CCV. Su questi aspetti - che hanno rilevanza decisiva ai fini del giudizio sulla responsabilità, sia in base ai criteri stabiliti dalla CCV, sia anche in base alle norme generali sul mandato - manca nella sentenza impugnata ogni motivazione.

Se si considera che l'intermediario di viaggio, per la stessa natura della sua professione, è normalmente tenuto a sapere quali paesi stranieri, e per quali viaggiatori, richiedano il visto di ingresso; che è comunque in grado di accertarsene con maggiore facilità che non il cliente, trovandosi quotidianamente ad affrontare problemi del genere, e che i dati forniti dalla viaggiatrice sulla sua identità per ottenere il rilascio del biglietto rivelavano quanto meno l'esotismo del nome, la situazione appare oggettivamente tale da indurre a ritenere che un operatore del settore avrebbe dovuto porsi quanto meno il dubbio circa la necessità del visto di ingresso e dovesse informarne i clienti. La sentenza impugnata sul punto è carente, quanto meno sotto il profilo dell'insufficienza della motivazione. Si ricorda che in tema di responsabilità contrattuale l'onere di fornire la prova dell'adempimento, o delle circostanze che lo avrebbero reso impossibile o inesigibile, è a carico della parte obbligata. La Gr. avrebbe dovuto dimostrare, quindi, che la cittadinanza extracomunitaria della L.G. non poteva essere obiettivamente desunta dai dati raccolti in occasione della vendita e dell'intestazione dei biglietti, nè dalle modalità secondo cui si è svolto il rapporto.

La motivazione della Corte di appello non è condivisibile neppure nella parte in cui ha escluso che sia configurabile responsabilità dell'agente Gr. sulla base del norme che regolano il mandato.

Il principio per cui il mandatario è tenuto ad eseguire solo le prestazioni che gli siano specificamente richieste dal mandante è in linea di principio corretto, ma deve essere applicato tenendo conto della distinzione fra i c.d. essentialia ed i naturalia negotii, i quali ultimi vanno normalmente inclusi nell'oggetto del contratto, pur se non espressamente menzionati.

E' frequente (soprattutto in tema di mandato) che i contraenti enuncino solo lo scopo perseguito; non necessariamente le singole attività necessarie per raggiungerlo, ed è compito dell'interprete stabilire - anche in base ai principi in tema di buona fede nella conclusione, nell'interpretazione e nell'esecuzione del contratto (art. 1337, 1366 e 1375 cod. civ.) - se una determinata attività preparatoria o accessoria sia da ritenere compresa nella prestazione dovuta, pur se non espressamente menzionata, perchè ordinariamente richiesta o comunque strumentale al perseguimento dello scopo dichiarato: in particolar modo quando la relativa omissione vanifichi l'utilità della prestazione principale.

Il giudice di appello ha disatteso il principio per cui il contratto comprende non solo quanto espressamente emerga dal suo tenore letterale, ma tutto ciò su cui le parti si siano anche implicitamente proposte di contrattare (cfr. artt. 1362 e 1364 c.c. e artt. 1365 c.c. ss.), tenuto conto della prassi corrente, dei doveri di ordinaria diligenza gravanti su ognuna di esse, anche in relazione alle loro competenze ed al loro bagaglio culturale, e di ogni altra circostanza: ferma restando l'esigenza che resti comunque inalterato l'equilibrio economico dell'affare, cosi come originariamente previsto ed accettato (problema che nella specie non si pone, considerato che l'informazione sui visti non avrebbe richiesto al mandatario di sobbarcarsi a peculiari oneri economici aggiuntivi).

La motivazione con cui il giudice di appello ha escluso l'applicabilità delle norme sul mandato è quindi anch'essa insufficiente e fondata su argomentazioni giuridiche non complete e non condivisibili.

Corte di cassazione – Sezione III civile – Sentenza 27 settembre-12 novembre 2013 n. 25410



15 dicembre 2013

Appropriazione indebita per l’avvocato che trattiene le somme del cliente. Inutile tentare la "via" della compensazione

Il ricorso è manifestamente infondato.

Come rilevano esattamente i giudici di merito, il fatto che il F. potesse in astratto pretendere dai propri clienti, a titolo di compenso professionale, somme maggiori di quelle liquidate a carico delle parti soccombenti con la sentenza civile, è del tutto indifferente nelle valutazioni del caso. Nel momento in cui il ricorrente trattenne per sè non solo le spese legali liquidate in sentenza, ma anche le somme destinate ai clienti, egli non poteva infatti vantare alcuna maggiore pretesa per compensi professionali, non avendo mai agito per ottenerne il riconoscimento. Ciò, anche a prescindere dall'ulteriore, corretto rilievo, contenuto in sentenza, che nemmeno per le spese legali liquidate dal giudice civile egli avrebbe potuto operare alcuna Trattenuta", non avendone chiesto la distrazione ai sensi dell'art. 93 c.p.c..

Nella specie, il ricorrente non può quindi in alcun modo invocare il principio secondo cui l'omessa restituzione della cosa e la sua ritenzione a titolo precario, a garanzia di un preteso diritto di credito, non integra il reato di appropriazione indebita ai sensi dell'art. 646 c.p., in quanto non modifica il rapporto tra il detentore ed il bene attraverso un comportamento oggettivo di disposizione "uti dominus" e l'intenzione soggettiva di interversione del possesso (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10774 del 25/01/2002, Imputato: Vollero), perchè egli non aveva alcun maggior credito certo, liquido ed esigibile in relazione all'opera professionale prestata a favore delle persone offese, e peraltro nemmeno ha dedotto di avere mai rappresentato ai clienti di non potersi ritenere soddisfatto della liquidazione giudiziale (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9225 del 06/07/1988, Imputato: LIANI, secondo cui nel reato di appropriazione indebita non può essere fatto valere il principio della compensazione con credito preesistente, allorchè si tratti di crediti non certi nel loro ammontare, nè liquidi nè esigibili; a fortiori il principio vale nel caso di specie, perchè, in definitiva, il presunto maggior credito del ricorrente per compensi professionali era assolutamente incerto anche nell'an, non essendo affatto scontato che la liquidazione giudiziale delle spese del processo civile dovesse essere ritenuta inadeguata).

Non si vede, quindi, quale "inadempimento" il F. potesse contestare alle persone offese, sul quale innestare il diritto di ritenzione delle somme ricevute per loro conto, che avrebbe dovuto invece senz'altro versare ai propri clienti. Le circostanze del fatto sono state poi adeguatamente valorizzate dai giudici di merito come prova dell'interversio possessionis, essendo in effetti la volontà appropriativa desumibile dal silenzio a lungo serbato dall'imputato sull'importo delle somme effettivamente percepite nell'interesse dei clienti, che ignari dell'esecuzione della sentenza civile ad opera della parte soccombente, avevano avviato le procedure coattive per il recupero del proprio credito.

In conclusione, del tutto correttamente la sentenza impugnata ha applicato al caso di specie il principio secondo cui commette il delitto di appropriazione indebita il mandatario che, trattenga definitivamente la somma ricavata dall'esecuzione del mandato invece di rimetterla al mandante (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 46586 del 29/11/2011 imputato Semenzato e altro); e altrettanto correttamente ha escluso che l'astratta previsione normativa del diritto di ritenzione valesse a scriminare il ricorrente, in assenza di qualunque accertamento del diritto sostanziale presidiato dalla garanzia speciale (in sentenza è citata Cass. 19.11.1998 nr. 1410).

Alla stregua delle precedenti considerazioni il ricorso va dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 1.000,00 alla cassa delle ammende, commisurata all'effettivo grado di colpa dello stesso ricorrente nella determinazione della causa di inammissibilità.

Corte di cassazione – Sezione II penale – Sentenza 29 novembre 2013 n. 47410

Ritardo nella consegna dell’immobile: risarcimento pari al valore locativo

I motivi di ricorso sono infondati.

Le due censure possono essere esaminate congiuntamente in quanto connesse con riferimento al criterio di liquidazione dei danni. E' sufficiente osservare che la valutazione e la motivazione sul punto sono conformi, alla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il danno per la mancata disponibilità di un immobile, da parte di un imprenditore commerciale, è "in re ipsa", considerata l'impossibilità per costui di conseguire l'utilità ricavabile dal bene medesimo in relazione alla natura normalmente fruttifera di esso. Per la determinazione del risarcimento del danno, quindi, ben può farsi riferimento al cosiddetto danno figurativo, costituito dal valore locativo del cespite (Cass. n. 26610/2008; n. 10498/2006).

Consegue che, nella specie, correttamente il giudice di appello ha fatto ricorso al criterio di liquidazione equitativa del danno sulla base del valore locativo dell'immobile; la Corte di merito ha poi richiamato le testimonianze solo ai fini della "verosimiglianza" sulla insorgenza del danno, ritenendo irrilevante, una volta applicato detto criterio, che le testimonianze riguardanti la concessione in affitto dei locali compromessi in vendita, si riferissero a "semplici abboccamenti preliminari o a trattative già avanzate".

Il ristoro dei danni successivi a quelli indicati nella sentenza di primo grado è, del pari, aderente a detto criterio in quanto risulta calcolato per gli ulteriori anni per i quali la parte attrice non aveva potuto disporre degli immobili, essendo la loro consegna avvenuta, come accertato dal giudice di merito, con verbale dell'8.7.2009 e, quindi, successivamente alla data della sentenza di primo grado. Va, di conseguenza, disatteso il rilievo difensivo della ricorrente (svolto col motivo sub 2), sulla possibilità della Edilcervialto di locare gli immobili prima dell'avvenuta loro consegna, costituendo tale adempimento della promittente venditrice il presupposto necessario per consentire alla promissaria acquirente di poter disporre del bene promesso in vendita. Al rigetto del ricorso consegue la condanna della ricorrente al pagamento, nei confronti della controricorrente, delle spese processuali liquidate come da dispositivo.

Corte di cassazione – Sezione II civile – Sentenza 28 novembre 2013 n. 26637


Chi trova l’oggetto smarrito deve provvedere alla restituzione. Altrimenti è ricettazione

Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per essere manifestamente infondato il motivo proposto. Difatti esso riproduce pedissequamente gli argomenti prospettati nel gravame, ai quali la Corte d'appello, rifacendosi anche alla sentenza di primo grado, ha dato adeguate e argomentate risposte, esaustive in fatto e corrette in diritto, che il ricorrente non considera nè specificatamente censura. Il giudice di appello, per affermare l'infondatezza della tesi difensiva in punto di qualificazione giuridica del fatto ai sensi dell'art. 647 c.p., ha, con argomentazioni ineccepibili sia logicamente che giuridicamente, evidenziato "... il titolo era compenso quantomeno del delitto di furto, commesso dalla persona che effettivamente aveva rinvenuto gli oggetti smarriti dal B., poichè come tale va qualificato il fatto di chi si impossessa di una cosa smarrita che contenga chiari ed intatti i segni esteriori di un possesso legittimo altrui, i quali consentano l'individuazione del titolare del diritto...". Tale specifica e dettagliata motivazione il ricorrente non prende nemmeno in considerazione, limitandosi a ribadire la tesi già esposta nei motivi di appello e confutata, con diffuse e ragionevoli argomentazioni, nella sentenza impugnata.

E sul punto la Corte territoriale si è adeguata all'orientamento di questa Corte (sez. 5 n. 40327 del 21/9/2011, Rv. 251723), condiviso dal Collegio, in base al quale sussiste in delitto di furto, e non quello di appropriazione di cose smarrite tutte le volte in cui, come nel caso di specie, il bene conservi i segni evidenti del legittimo possesso altrui. Ed appunto, nel caso di specie, si trattava di un assegno bancario dal quale poteva risalirsi agevolmente al titolare del conto corrente, il quale, nonostante lo smarrimento, non aveva perso la propria signoria sulla cosa, permanendo il suo diritto alla restituzione in caso di rinvenimento della stessa (sez. 2 n. 8109 del 26/4/2000, Rv. 216589). In tal senso deve affermarsi che il soggetto che abbia trovato l'oggetto smarrito, deve provvedere alla restituzione dello stesso ove siano presenti segni che consentano di individuarne il legittimo titolare; il non farlo integra una condotta appropriativa illecita idonea ad integrare sotto il profilo materiale e quello psicologico il delitto di furto, che costituisce il delitto presupposto della ricettazione ritenuta integrata a carico del ricorrente.

Corte di Cassazione – Sezione II penale – Sentenza 25 novembre 2013, n. 46991


Contratto di locazione a non domino: è "solo" inefficace

Venendo dunque all'esame del merito del primo motivo di ricorso, va rilevato in fatto che il giudice del rinvio, chiamato a stabilire se fosse corretta o meno la sentenza di primo grado che affermò la responsabilità del locatore per inadempimento, condannandolo al risarcimento del danno, ha ritenuto che "la responsabilità del locatore non può essere regolata dalla normativa relativa al contratto di locazione, non sussistendo (...) un valido contratto di locazione alla base del rapporto tra le parti".

Ed un valido contratto di locazione, secondo la Corte d'appello di Venezia, non sarebbe sussistito perchè il locatore, al momento della stipula, non aveva alcun valido titolo giuridico per disporre dell'immobile oggetto del contratto.

Questa affermazione è erronea in iure. Essa, infatti, confonde il piano della validità del contratto con quello della sua efficacia.

Nel caso di specie la Corte d'appello era chiamata a stabilire quale dovesse essere la sorte di un contratto di locazione stipulato da un locatore che non era nè proprietario dell'immobile locato, nè titolare di altri diritti reali, nè titolare di diritti personali di godimento su esso (c.d. locazione a non domino), e che di conseguenza non aveva potuto garantire al conduttore il pacifico godimento della cosa.

Per stabilire se un simile negozio sia invalido occorre muovere dal rilievo che il contratto valido è quello conforme alle prescrizioni dettate per esso dalla legge; il contratto efficace è invece quello idoneo a produrre effetti.

L'eterogeneità dei due concetti comporta la possibilità che un contratto sia valido, ma inefficace (ad es., il contratto sottoposto a condizione sospensiva), ovvero invalido, ma efficace (ad es., il contratto affetto da un vizio che ne comporti l'annullabilità).

Tra le principali cause di inefficacia del contratto la dottrina unanime annovera la mancanza di legittimazione in capo allo stipulante.

La legittimazione è tradizionalmente intesa come il potere di un soggetto di disporre dell'oggetto del contratto. La mancanza di essa non comporta l'invalidità del contratto, perchè quest'ultimo non può ritenersi difforme dallo schema legale sol perchè stipulato da persona non legittimata. La mancanza di legittimazione in capo allo stipulante comporta dunque soltanto l'inefficacia del contratto, cioè l'inidoneità a produrre gli effetti suoi propri.

I principi appena esposti sono del tutto pacifici in dottrina, da quasi un secolo: il primo contributo monografico dedicato ai negozi sul patrimonio altrui risale al 1936, ed i principi ivi esposti sono rimasti sostanzialmente condivisi sino ad oggi.

Alla luce di queste osservazioni è agevole stabilire se il contratto di locazione stipulato a non domino sia, nei rapporti tra locatore e conduttore, invalido od inefficace.

La locazione è definita dall'art. 1571 c.c., il contratto "col quale una parte si obbliga a far godere all'altra una cosa mobile o immobile per un dato tempo, verso un determinato corrispettivo".

Il contratto di locazione non ha natura reale: da esso infatti non scaturisce quale effetto immediato, in capo al conduttore, l'acquisto di un diritto rei inhaerens. Da un lato, infatti, il diritto del conduttore non può essere fatto valere erga omnes; dall'altro esso necessita della collaborazione del locatore per essere soddisfatto (come si desume dal testo dell'art. 1575 c.c.). Ci troviamo, dunque, al cospetto di un tipico diritto di credito.

La locazione stipulata a non domino non è dunque un contratto invalido: esso infatti non confligge con alcuna prescrizione imperativa, nè l'art. 1571 c.c., include, tra i requisiti di validità del contratto, la proprietà o la disponibilità dell'oggetto da parte del locatore.

L'indisponibilità (sia giuridica che di fatto) dell'immobile da parte del locatore costituisce dunque un tipico caso di difetto di legittimazione a stipulare, dal quale consegue non l'invalidità, ma l'inefficacia del contratto.

Va da sè che, ove il locatore di cosa altrui non sia in grado di garantire al conduttore il pacifico godimento della cosa, egli si rende inadempiente alle obbligazioni assunte con la stipula del contratto, ed in particolare a quelle di cui all'art. 1575 c.c.

Le conclusioni appena raggiunte sono corroborate da principi ripetutamente affermati da questa Corte.

Si è infatti più volte stabilita la validità del contratto di locazione stipulato da chiunque avesse la disponibilità (anche soltanto) di fatto di un bene (ex plurimis, Sez. 3, Sentenza n. 15443 del 14/07/2011; Sez. 3, Sentenza n. 9493 del 20/04/2007; Sez. 3, Sentenza n. 8411 del 11/04/2006; Sez. 3, Sentenza n. 4764 del 04/03/2005; Sez. 3, Sentenza n. 470 del 17/01/1997; Sez. L, Sentenza n. 640 del 11/02/1978; la sentenza capostipite in tal senso è rappresentata da Sez. 3, Sentenza n. 306 del 30/01/1968).

Unica eccezione a tale principio è rappresentata dall'ipotesi in cui la detenzione da parte del locatore sia stata acquisita vi aut clam, o comunque in violazione di norme di ordine pubblico (come nel caso dell'usurpatore): ma in tali casi l'invalidità del contratto deriverebbe dall'illiceità del suo oggetto, non certo dal difetto di legittimazione del locatore (ex multis, Sez. 2, Sentenza n. 4119 del 13/07/1984).

Corte di cassazione – Sezione III civile – Sentenza 19 novembre 2013 n. 25911



Shopping compulsivo diagnosticato alla moglie? Scatta l’addebito

Ammette bensì la Corte di Appello che, al test di Rorscharch la M. manifestava una nevrosi caratteriale repressa che ha indotto il consulente, sulla base del pregresso comportamento, a formulare una diagnosi di "shopping compulsivo", caratterizzato da un impulso irrefrenabile ed immediato ad acquistare e da una tensione crescente, alleviata soltanto acquistando appunto beni mobili. Aggiunge la sentenza, richiamando le osservazioni del consulente, che la M. si è presentata davanti al CTU, lucida ed orientata nei parametri spazio temporali nei confronti delle persone e delle cose, disponibile al colloquio, curata nell'aspetto e nell'abbigliamento, adeguata nel comportamento, ed ha risposto con attenzione e concentrazione, mentre la memoria rimaneva perfettamente integra.

Continua il giudice a quo, precisando che la M. era perfettamente conscia della sua patologia e lo stesso CTU ha escluso un'incapacità di intendere e di volere, sussistendo soltanto un impulso compulsivo all'acquisto, sicuro disturbo della personalità che tuttavia, anche in base all'andamento pregresso, si poteva ritenere "ciclico".

In tale contesto, le osservazione della ricorrente circa errori di fatto della sentenza, peraltro soltanto affermati (ad esempio, si contesta l'affermazione della sentenza stessa, per cui la M. non si sarebbe sottoposta a cure mediche), presentano una valenza del tutto marginale. E' bensì vero che questa Corte (Cass. S.U. n. 9163 del 2005) ha affermato che nelle cause di imputabilità potrebbero rientrare pure nevrosi, psicopatie, disturbi della personalità, ma, nella specie, evidentemente, il disturbo mentale, pur presente nella M., secondo le risultanze della consulenza, come richiamate dal giudice a quo, non escludeva la sua imputabilità.

Affermata dunque la piena imputabilità della ricorrente, sicuramente i comportamenti riscontrati, pacificamenti sussistenti (furti di denaro ai familiari ed ai terzi, acquisti particolarmente frequenti e fuori misura di beni mobili), configurano violazione dei doveri matrimoniali. ai sensi dell'art. 143 c.c..

Quanto al nesso di causalità con l'intollerabilità della convivenza, la M., in modo del tutto apodittico e generico sostiene che i predetti comportamenti si situavano lontano nel tempo, e non in prossimità della separazione: la ricorrente non fornisce specificazioni nè riscontri probatori. Limitatamente a tale aspetto, il ricorso presenta profili di non autosufficienza, e dunque di inammissibilità.

Va pertanto confermata la pronuncia di addebito, con conseguente esclusione dell'assegno di mantenimento per la M..

Corte di cassazione – Sezione I civile – Sentenza 18 novembre 2013 n. 25843


Dolo processuale revocatorio ed attività incompiuta dell’avvocato

I motivi - che, per la loro evidente connessione fattuale, logica e giuridica, si prestano ad un esame congiunto - sono infondati, avendo la sentenza impugnata fatto corretta applicazione dell'art. 395 c.p.c., in relazione alla fattispecie concreta, siccome ricostruita con valutazioni congrue e logiche.

Si osserva, innanzitutto, in conformità a costante giurisprudenza (S.U. n. 9213/1990, e, fra le molte, Cass. nn. 888/2001, 5068/1995, 7576/1994, 4833/1991, 1128/1987), che il dolo processuale di una delle parti in danno dell'altra in tanto può costituire motivo di revocazione della sentenza, ai sensi dell'art. 395 c.p.c., n. 1, in quanto consista in un'attività deliberatamente fraudolenta, concretantesi in artifici o raggiri tali da paralizzare o sviare la difesa avversaria e impedire al giudice l'accertamento della verità, facendo apparire una situazione diversa da quella reale. Di conseguenza, non sono idonei a realizzare la fattispecie descritta la semplice allegazione di fatti non veritieri favorevoli alla propria tesi, il silenzio su fatti decisivi della controversia o la mancata produzione di documenti, che possono configurare comportamenti censurabili sotto il diverso profilo della lealtà e correttezza processuale, ma non pregiudicano il diritto di difesa della controparte, la quale resta pienamente libera di avvalersi dei mezzi offerti dall'ordinamento al fine di pervenire all'accertamento della verità (Cass. 19 settembre 2008, n. 23866; Cass. 12 febbraio 2013, n. 3488).

Per integrare la fattispecie del dolo processuale revocatorio ai sensi dell'art. 395 c.p.c., n. 1, non è, dunque, sufficiente la sola violazione dell'obbligo di lealtà e probità previsto dall'art. 88 c.p.c., nè, in linea di massima, sono di per sè sufficienti il mendacio, le false allegazioni o le reticenze, ma si richiede un'attività intenzionalmente fraudolenta che si concretizzi in artifici o raggiri subiettivamente diretti e oggettivamente idonei a paralizzare la difesa avversaria e a impedire al giudice l'accertamento della verità. (Cass. 26 gennaio 2004, n. 1369). In particolare se è vero che, secondo un orientamento peraltro risalente nel tempo (cfr. Cass., S.U., n. 9213 del 1990), anche il silenzio su fatti decisivi può integrare gli estremi del dolo processuale revocatorio, è pur vero che ciò può avvenire soltanto a condizione che esso costituisca elemento essenziale di un'attività diretta a trarre in inganno la controparte e idonea, in relazione alle circostanze, a sviarne o pregiudicarne la difesa e a impedire al giudice l'accertamento della verità. Ne consegue che il silenzio può configurare dolo revocatorio della sentenza, ai sensi dell'art. 395 c.p.c., comma 1, n. 1, solo se rappresenti elemento di una macchinazione fraudolenta, che abbia concretamente inciso sul contraddittorio e sul diritto di difesa o, comunque, sull'accertamento della verità (Cass. 29 gennaio 2002, n. 1155).

Nulla di tutto ciò risulta essersi verificato nel caso di esame, in cui il comportamento incriminato si è concretato nell'omettere al giudice del monitorio che alcuni compensi richiesti con il ricorso per ingiunzione (disamina, redazione e carteggio) si riferivano ad un atto di appello per il quale era già scaduto il termine per la sua proposizione. A tal riguardo la Corte di appello ha escluso che sia stata acquisita la dimostrazione che "l'avv. F. abbia agito in perfetta mala fede con la piena consapevolezza di danneggiare volutamente e coscientemente il cliente al fine di lucrare somme non dovute" (e precisamente per la fase di appello, la somma corrispondente ad attuali Euro 820,13), sottolineando che, a tali effetti, non era sufficiente dimostrare che il difensore avesse ottenuto un compenso non dovuto - come semplicisticamente ritenuto dal primo giudice - ma occorreva la prova, incombente sulla parte istante in revocazione, che tale risultato fosse il frutto di un'attività coscientemente e volutamente diretta ad ingannare.

Corte di cassazione – Sezione III civile – Sentenza 15 novembre 2013 n. 25761


Responsabilità dell’ente per l’infortunio del pedone e la c.d. comparative negligence

I motivi sono fondati nei limiti di cui in appresso.

Ed infatti, superato l'orientamento giurisprudenziale formatosi sulla scia della sentenza n. 156 del 1999 della Corte costituzionale secondo la quale i limiti di operatività di uno dei particolari criteri di imputazione previsti dall'art. 2051 cod. civ. è l'effettività del rapporto di custodia, prima ratio su cui è imperniata la sentenza della Corte di merito, la giurisprudenza di legittimità è ormai orientata nel senso che la responsabilità dell'ente proprietario della strada prescinde dalla maggiore o minore estensione della rete e deve invece esser accertata o esclusa in concreto in relazione alle caratteristiche della stessa, alle condizioni in cui solitamente si trova, alle segnalazioni di attenzione, e all'affidamento che su di esse fanno gli utenti, tra cui gli interventi di manutenzione, secondo criteri di normalità.

Pertanto spetta all'ente proprietario provare di aver assolto, con efficace diligenza, gli oneri di organizzazione dell'attività di sorveglianza per garantire la sicurezza dell'uso della strada, comprese le opportune indicazioni di attenzione nel caso di dislivelli accentuati della pavimentazione, e dell'attività di manutenzione della stessa onde eliminare le anomalie più pericolose e prevedibili in ragione del materiale di rivestimento, quale il basolato, per sua natura non regolare e stabile, potenziando di conseguenza diligentemente anche l'illuminazione notturna e la pulizia della strada onde consentirne la visibilità.

Al contempo è onere della danneggiata provare che, soprattutto se a conoscenza dello stato dei luoghi, ha prestato la dovuta attenzione nell'uso della strada, nelle particolari condizioni di tempo - ora notturna - in cui è accaduto l'infortunio, avuto riguardo anche al tipo di calzatura quella sera indossato, in applicazione del principio secondo cui la cosa intrinsecamente pericolosa assume tanto minore efficienza causale dell'evento quanto più il possibile pericolo è suscettibile di essere previsto e superato attraverso l'adozione delle normali cautele da parte dello stesso danneggiato (Cass. 19 febbraio 2008, n. 4279, 14 febbraio 2013 n. 3662). Infatti è da riaffermare che i danni da caduta sono originati da incidenti a prevenzione bilaterale in cui sia danneggianti che vittime devono adottare opportune misure preventive idonee a diminuire i rischi di incidenti (c.d. comparative negligence).

Pertanto il ricorso va accolto, la sentenza di appello va cassata, e la causa rinviata per nuovo esame di merito alla luce dei principi suesposti.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 05-11-2013, n. 24793


Consulente tecnico del pubblico ministero punito di più del CTP per il compimento di una falsa consulenza - profili di incostituzionalità

Premesso che l'oggetto del processo è costituito dalla condotta di alcuni soggetti che consegnavano ad un consulente tecnico del Pubblico ministero una somma di denaro (da quello simulatamente accettata) allo scopo di fargli predisporre una consulenza falsa, le Sezioni Unite sono chiamate a dare una qualificazione giuridica a detto fatto e, in particolare, a dare risposta alla questione: "se sia configurabile il reato di intralcio alla giustizia di cui all'art. 377 c.p., nel caso di offerta o di promessa di denaro o di altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero al fine di influire sul contenuto della consulenza qualora il consulente tecnico non sia stato ancora citato per essere sentito sul contenuto della consulenza".

...la questione ermeneutica sottoposta all'esame della Corte si concentra sull'applicabilità di una delle due fattispecie delittuose già sperimentate nel corso del procedimento di merito, e cioè l'istigazione alla corruzione o l'intralcio alla giustizia.

A fronte di un orientamento giurisprudenziale, espresso da un unico precedente, per altro non recente, della Sesta Sezione (sentenza n. 4062 del 07/01/1999, Pizzicaroli, Rv. 214146), che aveva configurato il reato di istigazione alla corruzione nel caso di offerta o promessa di denaro o altra utilità fatta al consulente del pubblico ministero (nominato in fase di indagine e non ancora citato per il successivo eventuale dibattimento) affinchè ammorbidisse gli esiti della sua relazione, l'ordinanza della medesima Sesta Sezione, con la quale è stata rimessa la questione alle Sezioni Unite, evidenzia come possibile una qualificazione alternativa del fatto in termini di intralcio alla giustizia ex art. 377 c.p..

[...]

Procedendo per gradi, deve preliminarmente ricordarsi che il delitto di intralcio alla giustizia esiste, con questa rubrica, nel nostro ordinamento giuridico dal marzo del 2006.

Tale reato, infatti, è stato introdotto dalla legge 16 marzo 2006, n. 46, di ratifica ed esecuzione della Convenzione dell'ONU contro il crimine organizzato transnazionale (c.d. Convenzione di Palermo o Toc Convention), che, all'art. 23, invitava gli Stati aderenti a punire, con sanzione penale, la c.d. obstruetion of justice, e cioè le condotte di violenza, minaccia, intimidazione, promessa, offerta di vantaggi considerevoli per indurre alla falsa testimonianza o comunque interferire nella produzione di prove anche testimoniali, nel corso di processi relativi ai reati oggetto della Convenzione, ovvero consistenti nell'uso di violenza, minaccia, intimidazione per interferire con l'esercizio di doveri d'ufficio da parte di un magistrato o di un appartenente alle forze di polizia, in relazione agli stessi reati.

Per adeguarsi a tale indicazione, il legislatore, preso atto che nel sistema italiano esisteva già una norma - l'art. 377 c.p. - che puniva l'offerta o la promessa di vantaggi nei confronti del testimone e che era rubricata come "subornazione", con la citata L. n. 146, art. 14, è intervenuto sulla disposizione vigente, rinominando il già esistente delitto, appellandolo con il termine richiestoci dalla disposizione internazionale (e cioè come "intralcio alla giustizia") e aggiungendo al testo vigente due ulteriori commi (gli attuali terzo e quarto) per punire le condotte di violenza e minaccia.

[...]

Per completezza, è opportuno ricordare che con la L. 20 dicembre 2012, n. 237 (di ratifica dello Statuto di Roma, istitutivo della Corte penale internazionale permanente competente a conoscere del crimine di genocidio, c.d. dell'Aja) si è ulteriormente interpolato l'art. 377: con l'art. 10, comma 8, della novella si è estesa la portata della fattispecie penale in commento all'ipotesi in cui l'offerta o la promessa di denaro o altra utilità sia rivolta a persona chiamata a rendere dichiarazioni innanzi alla Corte dell'Aja.

Nessuna modifica è stata, invece, apportata dal legislatore all'art. 373 c.p., che, sotto la rubrica "Falsa perizia o interpretazione", punisce unicamente il perito o l'interprete che, nominato dall'autorità giudiziaria, da parere o interpretazioni mendaci, o afferma fatti non conformi al vero.

[...]

La dottrina, in modo assolutamente maggioritario, ritiene che il riferimento contenuto nell'art. 377 c.p., vada letto come riguardante il solo consulente tecnico di ufficio nominato dal giudice civile, e ciò malgrado sia assolutamente fuori discussione che, già prima dell'intervento del D.L. n. 306 del 1992, questa figura poteva essere destinataria di un'attività subornatrice punibile, in quanto l'art. 64 c.p.c., lo parifica ai fini della responsabilità penale al perito nominato dal giudice penale (v. Sez. 6, n. 14101 del 05/02/2007, Avancini, Rv. 236214). La disposizione del D.L. non avrebbe, in questa prospettiva, innovato, ma semplicemente confermato l'interpretazione già in precedenza proposta, con l'obiettivo di fugare ogni possibile dubbio ermeneutico. Non sarebbero, invece, possibili soggetti passivi dell'attività illecita punita dall'art. 377 c.p., i consulenti di parte e quelli nominati dal pubblico ministero, in quanto nei loro confronti non sarebbe ipotizzabile il delitto di cui all'art. 373 c.p..

Queste conclusioni, adombrate pure dai ricorrenti, trovano conforto anche nella giurisprudenza di questa Corte, che ha affermato che il reato di falsa perizia (art. 373 c.p.) non è configurabile con riferimento all'attività dei consulenti di cui possono avvalersi sia il difensore sia il pubblico ministero, desumendosi questa conclusione non solo dal principio di stretta legalità sancito dall'art. 2 c.p., che inibisce il ricorso all'interpretazione analogica, ma, indirettamente, anche dal fatto che in occasione delle modificazioni apportate dal D.L. 8 giugno 1992, n. 306, art. 11, comma 6, convertito dalla L. 7 agosto 1992, n. 356, in tema di subornazione, era stato incluso tra le persone verso le quali si dirige l'opera del subornatore proprio il consulente tecnico: il che contribuiva a far ritenere che l'omessa indicazione del consulente tecnico nella norma dell'art. 373 c.p., fosse intenzionale (Sez. 6, n. 1096 del 26/03/1999, Poletti, Rv. 213681).

A parere del Collegio, effettivamente nella fattispecie qui considerata la norma richiamata dall'art. 377 c.p., in termini di direzione della condotta di intralcio non può essere, con riferimento al consulente tecnico nominato in sede penale, l'art. 373 c.p., che evoca, per quel che qui interessa, una "falsa perizia", in quanto il consulente tecnico (anche quello del pubblico ministero e pur con le precisazioni di cui si dirà) non è un perito e non produce dunque una perizia. Certo è ben possibile pensare che vi sia stato un difetto di coordinamento tra l'inserimento nell'art. 377 c.p., ad opera del D.L. n. 306 del 1992 del riferimento al consulente tecnico e la mancata previsione di tale figura soggettiva nell'art. 373 c.p., ma il rispetto del principio di tassatività del precetto penale rende impossibile considerare il riferimento alla "perizia" come estensibile alla "consulenza tecnica". A riprova della correttezza di questa conclusione va ricordato che il Progetto di riforma del codice penale elaborato dalla Commissione ministeriale presieduta dal prof. Pa. nella parte relativa ai delitti contro l'amministrazione della giustizia ha previsto espressamente il reato di "falsa perizia, interpretazione o consulenza", includendo tra i soggetti attivi di tale reato anche il consulente tecnico nominato dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari (v. il relativo Schema di delega legislativa per l'emanazione di un nuovo codice penale).

[...]

Per le argomentazioni sopra svolte deve concludersi che appare del tutto razionale che al consulente tecnico del pubblico ministero siano applicabili le conseguenze penali previste, in caso di false dichiarazioni, dall'art. 372 c.p. (o, in sede di indagini, dall'art. 371 bis c.p.), ovviamente limitatamente a quella parte di attività che non contiene valutazioni tecnico-scientifiche, ma riporta l'esposizione circa la natura e la consistenza di queste.

A riprova di ciò sta, del resto, anche il dato letterale della norma: il riferimento al "consulente tecnico" - inserito nel testo dell'art. 377 c.p.p., senza ulteriori specificazioni, ad opera del D.L. n. 306 del 1992 - si presta senz'altro a essere rapportato anche alla figura di cui ci si occupa. L'opinione contraria, espressa, come si è visto, in dottrina e prospettata inizialmente pure dai ricorrenti, secondo cui il riferimento al consulente tecnico inserito dal citato d.l. n. 306 riguarderebbe solo quello nominato dal giudice civile, si scontra sia con un'obiezione formale (una simile specificazione non è indicata dalla norma) sia, soprattutto, con una insuperabile considerazione sistematica (l'estensione al consulente tecnico in sede civile delle disposizioni penali relative ai periti discende positivamente dalla espressa previsione dell'art. 64 c.p.c., comma 1, dovendosi essa dunque apprezzare, ove questo ne fosse il senso, chiaramente superflua; tanto che si è sempre ritenuto che il riferimento al "perito", contenuto nell'art. 373 c.p., debba intendersi fatto anche al consulente del giudice civile, proprio in forza del citato art. 64 c.p.c.).

[...]

Si tratta, però, di una soluzione che - sebbene imposta per essere, come si è visto, l'art. 322 c.p., comma 2, l'unica norma applicabile al caso concreto - presenta, ad avviso del Collegio, innegabili profili di incostituzionalità.

L'offerta di denaro o di altra utilità al consulente del pubblico ministero (pubblico ufficiale) per il compimento di una falsa consulenza risulta punita più gravemente dell'analoga condotta diretta a un perito, che rientra pacificamente, per il principio di specialità, nell'art. 377 c.p., comma 1. Nella prima ipotesi, infatti, per il combinato disposto degli artt. 319 e 322 c.p., (nella formulazione vigente pro tempore, prima della riforma recata dalla L. n. 190 del 2012), sarebbe irrogabile la reclusione da un anno e quattro mesi a tre anni e quattro mesi; nella seconda, invece, per il combinato disposto degli artt. 372, 373 e 377 c.p., la reclusione da otto mesi a tre anni.

[...]

Preso atto dell'inerzia del legislatore, che non ha ritenuto di intervenire sull'art. 373 c.p. (per prevedervi anche la falsa consulenza, includendo tra i soggetti attivi del reato anche il consulente tecnico nominato dal pubblico ministero) e neppure di inserire tra i reati contro l'amministrazione della giustizia un apposito delitto che punisca la condotta di intralcio alla giustizia esercitata specificamente nei confronti del consulente tecnico del pubblico ministero, non resta che rilevare la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 322 c.p., comma 2, in riferimento all'art. 3 Cost., sotto il duplice profilo della inspiegabile disparità di trattamento di situazioni analoghe e della irragionevolezza, nella parte in cui per l'offerta o la promessa di denaro o altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero per il compimento di una falsa consulenza prevede una pena superiore a quella di cui all'art. 377 c.p., comma 1, in relazione all'art. 373 c.p..

La rilevanza della questione discende, come si è visto, da tutte le considerazioni sopra svolte, che portano a concludere che l'unica disposizione applicabile alla particolare fattispecie sottoposta all'esame della Corte è appunto l'art. 322 c.p., comma 2, con gli inevitabili profili di contrasto con l'art. 3 Cost., di cui si è detto.

La questione di costituzionalità sollevata impone la sospensione del giudizio in corso. La Cancelleria provvederà a notificare la presente ordinanza ai ricorrenti, al Procuratore Generale presso la Corte di cassazione e al Presidente del Consiglio dei Ministri, e a comunicarla ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.

Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 27-06-2013) 23-10-2013, n. 43384


Obbligo di comportarsi secondo buona fede nelle trattative: esteso anche al contratto validamente concluso

In particolare, l'odierno ricorrente non tiene conto dell'orientamento giurisprudenziale di questa Corte, secondo cui, perchè possa ritenersi integrata la responsabilità precontrattuale, è necessario che tra le parti siano in corso trattative; che le trattative siano giunte ad uno stadio idoneo a far sorgere nella parte che invoca l'altrui responsabilità il ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto; che la controparte, cui si addebita la responsabilità, le interrompa senza un giustificato motivo; che, infine, pur nell'ordinaria diligenza della parte che invoca la responsabilità, non sussistano fatti idonei ad escludere il suo ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto. La verifica della ricorrenza di tutti i suddetti elementi, risolvendosi in un accertamento di fatto, è demandato al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato (Cass. n. 7768/2007; 2479/2007; 11243/2003).

Nel caso in esame, il giudice di secondo grado ha correttamente e congruamente motivato, ritenendo che, l'alta probabilità della conoscenza soggettiva, da parte del D., della reale entità nummaria del canone locatizio era rinvenibile nella circostanza di fatto, pacifica, che il D., già al momento della stipula del preliminare, era uno dei conduttori dei quattro alloggi che componevano la palazzina, sicchè appariva improbabile che l'acquirente dell'immobile non avesse mai affrontato la questione con la conduttrice dell'appartamento locato (la G.), anche per informarla del proprio ingresso nel contratto in luogo del precedente locatore.

Inoltre, secondo l'orientamento di questa S.C., la regola posta dall'art. 1337 c.c., non si riferisce alla sola ipotesi della rottura ingiustificata delle trattative ma ha valore di clausola generale, il cui contenuto non può essere predeterminato in modo preciso ed implica il dovere di trattare in modo leale, astenendosi da comportamenti maliziosi o reticenti e fornendo alla controparte ogni dato rilevante, conosciuto o conoscibile con l'ordinaria diligenza, ai fini della stipulazione del contratto. Ne consegue che la violazione dell'obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto assume rilievo non solo in caso di rottura ingiustificata delle trattative e, quindi, di mancata conclusione del contratto o di conclusione di un contratto invalido o inefficace, ma anche nel caso in cui il contratto concluso sia valido e, tuttavia, risulti pregiudizievole per la parte vittima dell'altrui comportamento scorretto (Cass. n. 24795/2008; n. 6526/2012).

Corte di cassazione – Sezione VI civile – Sentenza 21 ottobre n. 23873


Possibile il protesto anche se il traente ordina alla banca di non pagare prima della scadenza del termine di presentazione

Con l'unico motivo di ricorso la s.p.a. Banca di Roma ha censurato la violazione e falsa applicazione degli artt. 1711 e 1856 c.c., e del R.D. n. 1736 del 1933, art. 35, evidenziando che l'istituto bancario risponde, ai sensi dell'art. 1856 cod. civ. secondo le regole del mandato per l'esecuzione di incarichi ricevuti dal correntista. Ne consegue che, nella specie, non poteva non ottemperare all'ordine impartitole dal cliente di non pagare gli assegni anche se pervenuti prima della scadenza del termine di presentazione, peraltro con la specificazione dell'esonero della banca da ogni responsabilità. A tale condotta la banca era obbligata, essendo tenuta in caso contrario a restituire alla correntista le somme portate dai titoli.

[...]

Passando all'esame del primo motivo del ricorso principale deve evidenziarsi che il R.D. n. 1736 del 1933, art. 35, stabilisce che l'ordine di non pagare la somma recata dall'assegno bancario ha effetto solo dopo che sia spirato il termine di presentazione.

La norma ha la doppia funzione di garantire la conservazione della provvista, a tutela dell'affidamento del prenditore, quanto meno fino alla scadenza del termine di presentazione, e di consentire al traente, scaduto tale termine, di riacquistare la libertà di disporre della provvista, potendo l'assegno essere pagato anche successivamente alla scadenza di esso. La banca, sulla base del dettato normativo è libera di pagare l'assegno prima della scadenza del termine di presentazione, risultando in via generale, esonerata da responsabilità sia nei confronti del prenditore che del traente, una volta provveduto al pagamento. Ricorre, invece, la responsabilità della banca trattaria, nei confronti del prenditore, nell'ipotesi di rifiuto di pagamento prima della scadenza del termine di presentazione e nei confronti del traente nel disporre il pagamento anche dopo lo spirare del termine, in presenza di un ordine di revoca del traente. Nella fattispecie dedotta nel presente giudizio non si prospetta, tuttavia, alcuna delle due ipotesi di responsabilità della banca sopra indicate che costituiscono le due forme paradigmatiche d'inosservanza del duplice contenuto precettivo dell'art. 35 come sopra individuate. La banca ha ricevuto dal traente un ordine scritto di non provvedere al pagamento con espresso esonero di responsabilità anche prima della scadenza del termine di presentazione ed ha ritenuto di dare ad esso esecuzione in ottemperanza agli obblighi di mandataria conseguenti al vincolo contrattuale assunto con il cliente. Così operando, ha eluso la funzione di garanzia dell'affidamento del prenditore contenuta nell'art. 35 ma non quella riguardante il traente, avendo provveduto ad eseguire esattamente un ordine dal medesimo disposto. Non possono, al riguardo, essere condivise le contrarie conclusioni della sentenza impugnata, condivise nel controricorso. Esse si fondano su una lettura superficiale dei principi risultanti dalla giurisprudenza di legittimità e non tengono conto della peculiarità della fattispecie del presente giudizio nella quale a far valere la responsabilità della banca non è il prenditore, del tutto legittimato a tal fine ma il traente dopo aver formulato espressamente e per iscritto l'ordine di non pagare.

Deve osservarsi, al riguardo che l'imperatività del precetto relativo all'inefficacia dell'ordine di non pagare prima della scadenza del termine di presentazione non ha carattere assoluto ma deve conformarsi alle esigenze di tutela poste a base della disposizione, la quale, come indicato in Cass. 10579 del 2004 "mira ad assicurare un'affidabile circolazione del titolo e a garantire l'esistenza di fondi dal momento dell'emissione dell'assegno fino alla scadenza del termine di presentazione".

[...]

Pertanto, il traente che, dopo aver emesso il titolo, ordini alla banca di non pagare si assume il rischio del protesto e, in caso di revoca della provvista o estinzione anticipata del conto della sanzione amministrativa L. n. 386 del 1990, ex art. 2, (Cass. 29841 del 2011), non potendo tale condotta essere giustificata neanche dall'intento di prevenire il rischio dell'inadempimento altrui. Deve, pertanto, condividersi, l'assunto del ricorrente secondo il quale il cliente nella specie è l'unico a rispondere degli ordini da lui stesso impartiti alla banca non potendosi dolere del protesto eziologicamente determinato dagli ordini medesimi.

In conclusione il ricorso deve essere accolto. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto la causa può essere decisa ai sensi dell'art. 384, comma 2, nel merito, con il rigetto della domanda proposta dalla Gift Travel s.r.l. (già P.M. Italia) avente ad oggetto la dichiarazione d'illegittimità dei protesti relativi ai tre assegni bancari aventi scadenza del 15 luglio, 15 agosto e 30 settembre 1998, la loro cancellazione e il risarcimento dei danni subiti per l'esecuzione. L'integrale riforma della sentenza impugnata travolge, contrariamente a quanto ritenuto dalla parte controricorrente Camera di Commercio anche la statuizione sulle spese di lite. Peraltro, contrariamente a quanto ritenuto dalla predetta parte controricorrente, nell'ultima pagina del ricorso è espressamente richiesta la revisione del regime delle spese di lite contenuto nella sentenza impugnata. Si ritiene, in virtù della relativa novità della questione di diritto affrontata di compensare integralmente le spese di lite per i gradi di merito e per il presente procedimento.

Corte di cassazione – Sezione I civile – Sentenza 10 ottobre 2013 n. 23077


Interessi moratori e decorrenza dalla sentenza con la relativa liquidazione del debito

Il terzo motivo denuncia la mancata liquidazione degli interessi moratori, riconosciuti nel d.i. e decorrenti dal 27.12.2001 nonostante egli avesse inviato la specifica ed il parere del Consiglio dell'ordine al Comune con raccomandata A/R del 27.9.2001 e culmina nel seguente quesito di diritto: "il Tribunale di Taranto ha violato o no la norma di cui all'art. 112 c.p.c., omettendo di pronunciarsi sulla domanda relativa alla liquidazione degli interessi moratori? E, ancora, l'omessa pronuncia, di fatto, nega il diritto del creditore ad ottenere il pagamento di interessi in violazione degli artt. 1219 e 1224 c.c.?".

Quanto alla decorrenza degli interessi il Tribunale ha affermato che non vi era prova dell'invio della notula da parte del professionista all'Amministrazione. Pertanto poichè nella fattispecie era sorta controversia sul quantum, gli interessi e il preteso maggior danno da svalutazione monetaria (che nella fattispecie non risulta sia stato oggetto di precedente istanza), restano soggetti alle comune regole di cui all'art. 1224 c.c., postulando il verificarsi della mora debendi (Cass. n. 5004 del 28.4.1993). Peraltro questa S.C. ha precisato al riguardo che "... se è vero che, in tema di liquidazione di diritti ed onorari di avvocato e procuratore a carico del cliente, la disposizione comune alle tre tariffe forensi (civile, penale e stragiudiziale) contenuta nel D.M. 14 febbraio 1992, n. 238 prevede che gli interessi di mora decorrano dal terzo mese successivo all'invio della parcella, quando tuttavia insorge controversia tra l'avvocato ed il cliente circa il compenso per prestazioni professionali, il debitore non può essere ritenuto in mora prima della liquidazione del debito, che avviene con l'ordinanza che conclude il procedimento L. 13 giugno 1942, n. 794, ex art. 28, (che è di particolare, sollecita definizione), sicchè è da quella data - e nei limiti di quanto liquidato dal giudice - e non da prima che va riportata la decorrenza degli interessi (Cass. n. 5240 del 29.05.1999; Cass. n. 11777 del 07.06.2005).

Corte di cassazione – Sezione II civile – Sentenza 9 ottobre 2013 n. 22982


Il campeggio non può essere residenza

Deve infatti affermarsi il principio secondo il quale il campeggio è caratterizzato dalla presenza di allestimenti e servizi finalizzati alla sosta ed al soggiorno dei turisti, dovendosi quindi escludere ogni forma di stabile residenza, come risulta evidente dall'espresso riferimento alla "sosta" ed al "soggiorno", che presuppongono una permanenza temporanea ed alla figura del "turista", il quale è individuabile, secondo il significato della parola stessa, come un soggetto che viaggia e soggiorna in località diverse dalla sua residenza abituale per un periodo di tempo limitato per piacere, affari o altri scopi.

Corte di cassazione – Sezione III penale – Sentenza 8 ottobre 2013 n. 41479


Il bar/cornetteria rumoroso deve risarcire il disturbo

Passando al 4 motivo del ricorso, con esso si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 184 e 356 e 112, (domanda risarcitoria erroneamente dichiarata assorbita). Deduce che la Corte distrettuale, dopo aver accolta la seconda censura formulata dall'appellante D.M., aveva dichiarata assorbito l'appello incidentale con cui la P. aveva riproposto la domanda risarcitoria disattesa dal primo giudice, che faceva riferimento anche alla violazione dell'art. 844 c.c., (immissioni intollerabili).

La doglianza appare fondata. Invero la P. aveva chiesto in primo grado il ristoro del danno morale, biologico e patrimoniale (deprezzamento del valore del proprio immobile) conseguenti ad immissioni superiori alla soglia di normale tollerabilità, provenienti dagli esercizi commerciali ubicati nei locali di por pietà D.M.. Non v'è dubbio che tali danni (art. 844 c.c.) presentano profili di autonomia rispetto alla denuncia di violazione delle norme del regolamento condominiale, per cui il rigetto di tale ultima domanda non poteva esimere il giudicante dall'esame della prima (ed assorbimento).

Corte di cassazione – Sezione II civile – Sentenza 8 ottobre 2013 n. 22892


Regolamento condominiale e divisione in parti uguali la spesa per parti comuni - criterio della soccombenza

Con il secondo motivo la ricorrente ha dedotto la violazione e falsa applicazione dell'art. 1123 c.c., e art. 68 disp. att. c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Tale doglianza appare, ad avviso del relatore, manifestamente infondata. Infatti, come già correttamente rilevato nel grado d'appello dal Tribunale di Napoli, il criterio legale di ripartizione delle spese condominiali, prescritto dal combinato disposto dell'art. 1123 c.c., e art. 68 disp. att. c.p.c., può essere derogato, essendo disponibile il diritto di contribuzione o riparto, relativo alle dette spese, mediante convenzione che, per la sua natura contrattuale, presuppone il consenso di tutti i condomini.

Nel caso in esame, il regolamento condominiale possiede natura contrattuale (come si evince dall'all. n. 8 alla produzione di parte opposta in primo grado) e risulta richiamato nel contratto locativo (cfr. art. 14).

Dunque, sotto tale profilo, non si è concretizzata alcuna violazione di norme di legge (cfr, a tal proposito, Cass. n. 3944 del 2002, per cui in materia di condominio, è valida la disposizione del regolamento condominiale, di natura contrattuale, secondo cui le spese generali e di manutenzione delle parti comuni dell'edificio vanno ripartite in quote uguali tra i condomini, giacchè il diverso e legale criterio di ripartizione di dette spese in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascun condomino (art. 1123 c.c.) è liberamente derogabile per convenzione (quale appunto il regolamento contrattuale di condominio), nè siffatta deroga può avere alcuna effettiva incidenza sulla disposizione inderogabile dell'art. 1136 c.c., ovvero su quella dell'art. 69 disp. att. c.c., in quanto, seppure con riguardo alla stessa materia del condominio negli edifici, queste ultime disciplinano segnatamente i diversi temi della costituzione dell'assemblea, della validità delle deliberazioni e delle tabelle millesimali; v., anche, Cass., n. 898 del 1984).

[...]

Infatti, secondo quanto stabilito dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr., ad es., Cass. n. 15483 del 2008 e Cass. n. 17523 del 2011), il criterio della soccombenza, sulla base del quale va effettuata la statuizione delle spese, deve essere unitario e globale, anche qualora il giudice ritenga di giungere alla compensazione parziale delle spese di lite, condannando poi per il residuo una delle parti; in tal caso, l'unitarietà e la globalità del suddetto criterio comporta che, in relazione all'esito finale della lite, il giudice deve individuare la parte parzialmente soccombente e quella, per converso, parzialmente vincitrice, in favore della quale il giudice del gravame è tenuto a provvedere sulle spese secondo il principio della soccombenza applicato all'esito globale del giudizio, piuttosto che ai diversi gradi del giudizio ed al loro risultato.

Corte di cassazione – Sezione VI civile – Ordinanza 7 ottobre 2013 n. 22824


Autolesione dell’alunno davanti a scuola - obbligo di vigilanza del personale scolastico - sussiste

Il motivo è infondato.

Come questa Corte ha già avuto modo di affermare in ipotesi di danno come nella specie cagionato dall'alunno a sè medesimo (c.d.

autolesioni), l'accoglimento della domanda di iscrizione, con la conseguente ammissione dell'allievo a scuola, determina l'instaurazione di un vincolo negoziale dal quale sorge a carico della medesima l'obbligazione di vigilare sulla sicurezza e l'incolumità dell'allievo per il tempo in cui questi fruisce della prestazione scolastica, in tutte le sue espressioni (v. Cass., 15/2/2011, n. 3680).

La scuola è pertanto tenuta a predisporre tutti gli accorgimenti all'uopo necessari, anche al fine di evitare che l'allievo procuri danno a se stesso (v. Cass., 8/2/2012, n. 1769), sia all'interno dell'edificio che nelle pertinenze scolastiche, di cui abbia a qualsiasi titolo la custodia, messe a disposizione per l'esecuzione della propria prestazione (v. Cass., 15/2/2011, n. 3680; Cass., 6/11/2012, n. 19160).

Ivi ricompreso pertanto il cortile antistante l'edificio scolastico, del quale la scuola abbia la disponibilità e ove venga consentito il regolamentato accesso e lo stazionamento degli utenti, e in particolare degli alunni, prima di entrarvi (come rimasto dai giudici di merito pacificamente accertato nel caso, essendo l'ingresso dotato di cancello la cui apertura e chiusura veniva effettuata dal personale della scuola).

L'istituto è dunque tenuto ad osservare obblighi di vigilanza e controllo con lo sforzo diligente adeguato alla natura della cosa e alle circostanze del caso concreto, dovendo adottare tutte le misure idonee a prevenire ed impedire la produzione di danni a terzi.

E' in altri termini tenuto a mantenere la condotta diligente dovuta (nel senso che trattasi di "contratto di protezione", in base al quale, tra gli interessi da realizzarsi da parte dell'istituto scolastico rientra quello alla integrità fisica dell'allievo, con conseguente risarcibilità dei danni da autolesione dal medesimo sofferti v. peraltro Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 577. V. altresì Cass., 28/8/2009, n. 18805) secondo criteri di normalità, da apprezzarsi in relazione (anche) alla sua capacità tecnico- organizzativa (cfr., con riferimento al medico e alla struttura ospedaliera, Cass., 13/4/2007, n. 8826).

Il normale esito della prestazione dipende allora da una pluralità di fattori, tra cui l'organizzazione dei mezzi adeguati per il raggiungimento degli obiettivi in condizioni di normalità, secondo un giudizio relazionale di valore, in ragione delle circostanze del caso.

Al riguardo, si noti, la scuola è tenuta ad un comportamento diligente consentaneo alle condizioni di tempo e di luogo, a fortiori in considerazione della circostanza che in presenza di una situazione di pericolo i minori, se lasciati soli, possono compiere atti incontrollati e potenzialmente autolesivi, come appunto nella specie, essendo rimasto accertato che "sussisteva la... situazione pericolosa del locale per riscaldamento seminterrato, non protetto da idonee recinzioni".

Ne consegue che, in caso di danno da lesioni conseguente a sinistro avvenuto nei locali e pertinenze scolastiche, l'attore deve provare che tale danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, mentre l'istituto ha l'onere di dimostrare che l'evento dannoso è stato determinato da causa a sè non imputabile.

All'istituto incombe allora di dare in particolare la prova di avere adottato, in relazione alle condizioni della cosa e alla sua funzione, tutte le misure idonee ad evitare il danno, e che il danno si è ciononostante verificato per un evento non prevedibile nè superabile con la diligenza normalmente adeguata in relazione alle circostanze concrete del caso (v. Cass., 24 maggio 1997, n. 4632).

Va per altro verso osservato che, diversamente da quanto sostenuto dall'odierno ricorrente, lo svolgimento del rapporto si estende a tutto il tempo in cui l'alunno "fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni", e pertanto, come correttamente affermato dalla corte di merito nell'impugnata sentenza, sin dal momento in cui "con l'apertura dei cancelli" risulta "consentito l'ingresso e la permanenza degli alunni nel detto piazzale antistante la scuola", e cioè all'interno della pertinenza scolastica messa a disposizione dalla scuola dei fruitori della propria complessa prestazione contrattuale.

Orbene, dei suindicati principi la corte di merito ha nell'impugnata sentenza fatto invero piena e corretta applicazione.

Corte di cassazione – Sezione III civile – Sentenza 4 ottobre 2013 n. 22752