29 settembre 2013

Impedire al conducente del ciclomotore di muoversi è violenza privata

Si afferma, inoltre, nella giurisprudenza di questa Corte come integri gli estremi del delitto di violenza privata la minaccia, ancorchè non esplicita, che si concreti in un qualsiasi comportamento o atteggiamento idoneo ad incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di un danno ingiusto al fine di ottenere che, mediante la detta intimidazione, il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare o ad omettere qualcosa (v. Cass. Sez. 5, 26 gennaio 2006 n. 7214 e Sez. 2, 18 gennaio 2011 n. 3609).

Anche in questo caso la Corte territoriale, con motivazione del tutto logica ed ispirata ai suddetti principi, ha affermato sussistenza del reato non avendo la parte offesa potuto proseguire la sua marcia con il motorino in conseguenza del comportamento dell'imputato, paratosi avanti lo stesso.

Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 21-03-2013) 03-06-2013, n. 23945



Negli sbocchi su strada da luoghi non soggetti a pubblico passaggio i conducenti hanno l’obbligo di arrestarsi e dare preceda a chi circola sulla strada

All'imputato era stato contestato che, per colpa, consistita in imprudenza e nella inosservanza dell'art. 145 C.d.S., comma 6, omettendo di dare precedenza, nell'immettersi su strada principale a bordo del proprio furgone Fiorino, aveva cagionato la morte di V.V., che, proveniente dalla sinistra della strada principale, alla guida di una motocicletta Yamaha, collideva con il predetto furgone che in quel momento ostruiva la carreggiata, venendo scalzato dalla moto e riportando ferite mortali. Nel capo d'imputazione si evidenziava la condotta altrettanto colposa della vittima avendo contribuito al verificarsi dell'evento per non aver tenuto, in detto tratto di strada a visibilità limitata, in violazione dell'art. 141 C.d.S., comma 3, una velocità adeguata.

[...]

I motivi esposti sono fondati sicchè il ricorso va accolto ovviamente ai soli fini civili.

La sentenza impugnata è affetta da vizio motivazionale per la errata e non approfondita valutazione di elementi di fatto, chiaramente emersi dall'istruttoria dibattimentale, o ritenuti per certi ma che tali non sono.

Il dato della velocità mantenuta prima del sinistro dal motociclista è stato ritenuto determinante nel convincimento di non colpevolezza dell'imputato espresso dal Tribunale e confermato dalla Corte distrettuale.

In effetti, i giudici del merito, hanno sostanzialmente affermato che nessun altra condotta di guida si poteva esigere dal G. che, alla guida di un autocarro, si era immesso, da una via secondaria, su una strada principale, ad una velocità minima di 10 km/h, allorchè sopraggiungeva, ad andatura non moderata ed in ogni caso non adeguata alle caratteristiche della strada, la motocicletta guidata dal V.. Costui, nel tentare una manovra di emergenza, tesa ad evitare il veicolo che si trovava già sulla carreggiata, perdeva il controllo del suo motoveicolo, veniva sbalzato dalla sella e con il capo andava ad urtare la ruota anteriore sinistra dell'autocarro Fiorino.

Orbene, prima ancora di considerare la evidenziata condotta colposa del guidatore della motocicletta, ritenuta dai giudici fattore causale determinante nella produzione dell'evento, tale da escludere il nesso eziologico tra il comportamento di guida del G., come originariamente contestato, e lo stesso evento, ritiene il Collegio che la Corte distrettuale, alla luce delle norme del codice della strada e delle comuni norme di prudenza e diligenza, cui si debbono conformare gli utenti della strada, nella specie i guidatori di autoveicoli, abbia erroneamente ritenuto corretta e prudenziale la condotta di guida del G.. Il dato di fatto considerato in sentenza è che questi si era immesso su di una strada principale da una via secondaria, per altro non aperta al pubblico transito di veicoli, "gradualmente ad una velocità stimata in circa 10 Km/h ed, allorchè sopraggiunse la Yamaha, era fermo sulla semicarreggiata percorsa dal V. proprio per ispezionare che dalla sua sinistra non provenissero altri veicoli".

Innanzitutto, è nozione anche di comune esperienza che chi si immette da una via secondaria, ancorchè in assenza di segnale di STOP, su di una principale è tenuto a fermarsi sul ciglio e non procedere verso la sede stradale, ancorchè a bassa velocità; tale obbligo è previsto specificamente dall'art. 145 C.d.S., comma n. 6 (Negli sbocchi su strada da luoghi non soggetti a pubblico passaggio i conducenti hanno l'obbligo di arrestarsi e dare preceda a chi circola sulla strada).

Solo fermandosi e guardando prima a sinistra, avendo per altro un angolo di visuale a sinistra di 48 metri (come affermato dal CTU), il G. poteva rendersi conto dell'arrivo o meno di altri veicoli.

Dunque, da parte dei giudici non è stata tenuto in conto tale norma comportamentale di guida, e, con riferimento all'occupazione della semicarreggiata hanno fatto riferimento al c.d. diritto di precedenza acquisito o "precedenza di fatto".

[...]

Quanto alla assunta condotta altamente colposa della persona offesa (che in questa sede non si intende assolutamente porre in discussione, ancorchè tutte le valutazioni sulla effettiva velocità tenuta dal V. - per altro non determinata in sentenza - richiedono un'ulteriore verifica alla luce delle osservazioni, puntuali, della parte civile e non considerate dalla Corte del merito), ritiene il Collegio che l'apparato argomentativo a sostegno della scelta operata in dispositivo dal giudicante non possa ritenersi plausibile e coerente, in quanto, quella condotta, alla luce di quanto ora argomentato circa il comportamento del guidatore dell'autocarro che presenta profili di colpa, specifici e generici (come per altro contestati), non può essere ritenuta fattore essenziale nella produzione dell'evento, ma tutt'al più causa concorrente che non esclude, però, il nesso eziologico tra la condotta di guida del G. e la morte del V..

La sentenza va pertanto annullata per una nuova valutazione con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, cui rimette anche il regolamento delle spese tra le parti del presente giudizio.

Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 05-03-2013) 30-05-2013, n. 23343


La dichiarazione d’insolvenza di una società cooperativa esclusivamente mutualistica non è preclusa dal mancato raggiungimento di € 30.000 di debiti scaduti impagati

Non risultano precedenti di questa corte sulla possibilità di dichiarare lo stato d'insolvenza di società o enti con esposizione debitoria inferiore al minimo indicato nella L. Fall., art. 15, u.c..

Il motivo è in ogni caso infondato.

Sul piano della formulazione testuale delle norme, la L. Fall., art. 15, che nel suo ultimo comma esclude "la dichiarazione di fallimento" dell'impresa insolvente, se l'ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti e dall'istruttoria prefallimentare sia complessivamente inferiore a Euro 30.000,00, non è richiamato dalla L. Fall., art. 194, tra le norme applicabili alla liquidazione coatta amministrativa. La stessa disposizione non è neppure richiamata, specificamente, dall'art. 195, della stessa legge a proposito dell'accertamento giudiziario dello stato d'insolvenza anteriore alla liquidazione medesima. Si tratta di una norma che introduce un'eccezione alla regola della fallibilità delle imprese, come tale insuscettibile di applicazioni analogiche a ipotesi (dichiarazione d'insolvenza di impresa non fallibile) diverse da quella regolata (dichiarazione di fallimento dell'impresa insolvente).

Più in radice, è da considerare che la deroga stabilita dalla norma in esame, che non contraddice lo stato d'insolvenza dell'impresa e non lo esclude, risponde ad esigenze di economia processuale che rendono ingiustificati i tempi e in costi di una procedura fallimentare nel caso di esposizioni debitorie minori. Essa, insomma, per un verso risponde a esigenze che non possono essere automaticamente estese all'istituto della liquidazione coatta amministrativa, connotato da ragioni di pubblica utilità; e per l'altro incide sulla liquidazione concorsuale ma non sullo stato d'insolvenza, qual è definito nella L. Fall., art. 5 cpv., disposizione alla quale implicitamente rinvia l'art. 2545 terdecies c.c., in tema d'insolvenza delle cooperative. Non vi sono dunque i presupposti per utilizzare questa previsione nella discussione sulla possibilità di dichiarare lo stato d'insolvenza.

Sul piano astrattamente logico essa, semmai, potrebbe venire in considerazione a proposito della liquidazione coatta amministrativa disposta a norma della disposizione da ultimo citata (o del D.Lgs. 2 agosto 2002, n. 220, art. 12). Un'ipotesi del genere è contemplata in effetti nella normativa secondaria, laddove esclude la nomina del commissario liquidatore nelle procedure di scioglimento d'ufficio ex art. 2544 c.c., delle società cooperative e dei loro consorzi, quando le attività da liquidare, purchè di natura mobiliare, non abbiano valore superiore a L. 2.500.000 (decreto del Ministero lavoro previdenza sociale 27 gennaio 1998: non rileva il fatto che, ai fini dell'economicità della procedura liquidatoria, qui si tenga conto del parametro dell'attivo, e nella L. Fall., art. 15, u.c., del passivo). Ma proprio il caso citato, con il suo espresso riferimento all'art. 2544 c.c. (oggi art. 2545 septiesdecies c.c.), che regola lo scioglimento della cooperativa per atto dell'autorità in casi diversi da quello dell'insolvenza, dimostra come il tema dei modi della liquidazione sia da un lato logicamente posposto a quello dello scioglimento, e dall'altro del tutto indipendente da quello dell'accertamento dell'insolvenza. Le ipotesi, che si vogliano rinvenire nell'ordinamento, di esclusione della liquidazione coatta amministrativa della cooperativa esclusivamente mutualistica, anche in caso d'insolvenza, riguardano insomma le determinazioni dell'autorità amministrativa in ordine alla liquidazione, e non l'accertamento dello stato d'insolvenza.

In conclusione il motivo di ricorso deve essere respinto, in applicazione del principio per cui la dichiarazione d'insolvenza della società cooperativa esclusivamente mutualistica, a norma della L. Fall., art. 195, non è impedita dalla circostanza che l'ammontare dei debiti della società, scaduti e non pagati, sia complessivamente inferiore a Euro 30.000,00, non applicandosi in questo caso l'art. 15, u.c., della medesima legge.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 22-04-2013, n. 9681


Il creditore non può rifiutare il pagamento con un assegno circolare al posto del contante

Va respinto anche il secondo profilo di questo motivo di ricorso, che denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1206, 1212, 1214, 1182, 1119, 1220 e 1188 c.c..

Con esso si vuoi negare che l'offerta brevi manu di assegno circolare non trasferibile (di importo superiore, all'epoca, a venti milioni di lire) sia idonea a mettere in mora il creditore, o a interrompere la mora del debitore o a far ritenere ingiustificato il rifiuto del creditore di ritirare l'assegno. Si evidenzia che l'assegno recava l'intero importo capitale, ma non gli interessi nel frattempo maturati e che il tentativo di consegna era stato seguito da invio di copia del medesimo assegno a soggetto terzo con la conferma di volerlo lasciare a disposizione del creditore.

La censura è posta anche sotto il profilo del vizio di motivazione.

E' infondata da ogni punto di vista.

Va premesso che non risulta dedotto, come necessario in sede di legittimità quando si sollevi questione giuridica che non è trattata dalla sentenza impugnata, che la questione del mancato pagamento degli interessi fosse stata oggetto di argomentazione difensiva in sede di merito.

La rilevanza degli interessi era comunque stata considerata implicitamente nel comparare i due inadempimenti, proprio considerando il mese di ritardo nel pagamento offerto. Essa assume peso solo in relazione alla valutazione di merito censurata ex art. 360 c.p.c., n. 5.

Quanto all'idoneità ex art. 1220 c.c., dell'offerta di assegno circolare - la prova dell'offerta materiale è stata data in causa e la censura relativa è stata qui respinta - non v'è dubbio alcuno secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass. 26617/07; 18240/02) che sussista tale idoneità e che sia contrario al dovere di correttezza il rifiuto del creditore, senza plausibili motivi, di accettare assegni circolari in luogo di somme di denaro al cui pagamento sia tenuto il debitore.

Il denunciato vizio di motivazione non sussiste, perchè esso muove dal presupposto che sia dubbia l'offerta fisica dell'assegno, risultata invece provata.

Lo scarso peso attribuito alla mancanza degli inetressi, neppure indicata in corso dei rapporti negoziali quale espresso motivo di rifiuto dell'assegno e dunque da considerare quale mero espediente individuato in corso di causa, è palese che non vale a inficiare la valutazione dì merito sulla comparazione dei due inadempimenti, che ha respiro globale adeguatamente motivato.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 28-05-2013, n. 13209


Responsabilità per l’insegnante anche se l’allievo è maggiorenne

Con citazione del 21 e 22 aprile 2000 Z.C. conveniva dinanzi al Tribunale di Venezia il Ministero della Pubblica Istruzione e B.E. deducendo che il (OMISSIS) "in orario di lezione" presso l'Istituto Statale d'Arte (OMISSIS), indossava come partecipante all'annuale recita natalizia un costume da angelo; il compagno di scuola B.E., per scherzo, con un accendino appiccava il fuoco alle ali della vicina compagna F.G., vestita anch'essa da angelo; nell'intento di spegnere le fiamme staccando le ali dal costume di costei, il suo costume si incendiava, con conseguenti gravi ustioni, con esiti deturpanti. Pertanto chiedeva la condanna in solido dei convenuti al risarcimento dei danni, che quantificava in lire 489.606.860.

[...]

La domanda e l'accoglimento di iscrizione alla frequentazione di una scuola - nella specie statale - fondano un vincolo giuridico tra l'allievo e l'istituto, da cui scaturisce, a carico dei dipendenti di questo, appartenenti all'apparato organizzativo dello Stato, accanto all'obbligo principale di istruire ed educare, quello accessorio di proteggere e vigilare sull'incolumità fisica e sulla sicurezza degli allievi, sia per fatto proprio, adottando tutte le precauzioni del caso, che di terzi, fornendo le relative indicazioni ed impartendo le conseguenti prescrizioni, e da adempiere, per il tempo in cui gli allievi fruiscono della prestazione scolastica, con la diligenza esigibile dallo status professionale rivestito, sulla cui competenza e conseguente prudenza costoro hanno fatto affidamento, anche quali educatori e precettori del comportamento civile e della solidarietà sociale, valori costituzionalmente protetti, e da inculcare senza il limite del raggiungimento della maggiore età dell'allievo.

Quanto in particolare ai suddetti obblighi accessori scaturenti dal cd. contatto sociale degli insegnanti con gli allievi, trovano positiva disciplina nel R.D. 30 aprile 1924, n. 965, art. 39, comma 2, secondo e terzo cpv. (Ordinamento interno dei regi istituti di istruzione media, di primo e secondo grado), che all'uopo dispongono:

"I Professori devono Trovarsi nell'Istituto almeno cinque minuti prima che cominci la propria lezione" e "assistere all'ingresso e all'uscita dei propri alunni", e L. n. 312 del 1980, art. 61, per effetto del quale l'Amministrazione si surroga al personale direttivo, docente, educativo e non docente della scuola non solo materna ed elementare, ma anche secondaria e artistica, nella responsabilità civile per i danni arrecati in connessione a comportamenti degli alunni durante la loro permanenza a scuola.

Quindi correttamente, sulla base dei fatti rappresentati dall'attrice nell'atto di citazione, i giudici di secondo grado ha qualificato la domanda della Z. da responsabilità per inadempimento, del Ministero e dei suoi dipendenti, a detti obblighi e perciò, assoggettata al regime probatorio di cui all'art. 1218 cod. civ. - applicabile anche all'obbligazione risarcitoria che scaturisce da un illecito se vi è connessa la violazione di un diritto alla protezione (che può esser garantito anche avvalendosi del personale ausiliario, da aumentare a seconda delle circostanze concrete) - hanno affermato che l'amministrazione non aveva provato di aver adottato tutti i provvedimenti informativi, organizzativi, anche di emergenza, e prescrittivi, anche disciplinari, ed impartito le relative informazioni sia ai partecipanti alla recita, sia agli spettatori di essa, atti a garantire la sicurezza della scuola, anche nello svolgimento delle attività ricreative (D.P.R. 31 maggio 1974, n. 417, art. 3, di cui è destinatario il personale direttivo) al fine di impedire l'evento verificatosi, non imprevedibile stante la pericolosità del costume elevatamente infiammabile indossato da alcuni allievi partecipanti alla recita (approvata dal collegio dei docenti), ovvero ad impedirne tempestivamente le disastrose conseguenze, vieppiù se taluni che lo indossavano si erano allontanati dall'aula magna in cui vi erano tutti, ed hanno statuito la conseguente superfluità dell'indagine sulla responsabilità extracontrattuale, astrattamente concorrente. Pertanto il ricorso va respinto. Le spese giudiziali seguono la soccombenza nei confronti della Z. e si liquidano come da dispositivo.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 15-05-2013, n. 11751


Diffamazione per l’avvocato che accusa di falsità il C.T.U.

Con sentenza in data 17.05.2006 n.3254, il Tribunale di Torino accoglieva la domanda di risarcimento danni proposta dall'arch. O.M. nei confronti dell'avv. B.G. per affermazioni ritenute diffamatorie, contenute nell'istanza di sostituzione di c.t.u., depositata dal suddetto legale in una causa civile in cui l'attore era stato nominato consulente; condannava, quindi, il convenuto al pagamento della somma di Euro 5.000,00 a titolo di danno non patrimoniale, nonchè al rimborso delle spese di lite.

La decisione, gravata da impugnazione dell'avv. B., era confermata dalla Corte di appello di Torino, la quale con sentenza in data 15.01.2009 rigettava l'appello, condannando l'appellante al pagamento delle ulteriori spese.

[...]

Nessuna delle censure formulate con il suddetto motivo merita accoglimento.

Innanzitutto - contrariamente a quanto affermato da parte ricorrente - la motivazione impugnata non è svolta per relationem, avendo la Corte di appello, punto per punto, preso in esame le censure dell'appellante, esprimendo le ragioni della propria motivata condivisione delle valutazioni del primo Giudice, sia in ordine al significato diffamatorio delle espressioni in contestazione, sia con riguardo all'insussistenza delle condizioni di applicabilità dell'esimente di cui all'art. 598 c.p., invocata dall'avv. B., segnatamente evidenziando che:

l'avere qualificato "falsa" la risposta fornita dall'arch. O., nella sua qualità di c.t.u., al giudice della causa in cui l'odierno ricorrente patrocinava le ragioni di un Condominio (laddove il B. affermava: "sta di fatto che, come al solito il c.t.u. non risponde e la risposta è palesemente priva di ogni pregio e falsa") significava attribuire al consulente di aver dolosamente fornito al giudice una risposta che sapeva non corrispondente al vero e, quindi, di avere dato intenzionalmente una risposta non corretta, volendo alterare i dati della realtà, laddove, se del caso, il difensore avrebbe dovuto indirizzare le sue doglianze in altra sede (art. 373 c.p.);

anche l'espressione "sedicente", adoperata dall'avv. B. ("Ritiene il sedicente tecnico che le opere...") travalicava i limiti della difesa e continenza, siccome stava a indicare che il c.t.u. si qualificava tecnico, nella consapevolezza di non esserlo, laddove al contrario lo stesso era iscritto nell'albo dei consulenti, oltre ad essere un architetto;

l'ultima frase in contestazione ("Chi non è in grado di fare il perito, soprattutto per le perizie giudiziali che sono assai delicate per i risvolti che esse necessariamente comportano, dovrebbe lasciare il compito a chi è preparato in merito...."), seppure di più sfumata portata diffamatoria, investiva la professionalità e la capacità dell'arch. O., del tutto gratuitamente, non solo nella singola vertenza, ma in generale; e ciò era particolarmente grave, dal momento che l'avv. B. sosteneva di non avere mai avuto contatti professionali con l'arch. O. e ciononostante ne affermava tout court l'incapacità professionale.

Le valutazioni espresse sono di stretto merito e, come tali, soggiacciono in questa sede a un sindacato che è limitato alla verifica della correttezza giuridica e della coerenza logico - formale delle argomentazioni svolte a sostegno, non essendo consentito al Giudice di legittimità, di procedere ad una nuova valutazione attraverso la disamina autonoma delle emergenze procedimentali.

In punto di diritto si rammenta - in conformità a principi acquisiti nella giurisprudenza di questa Corte - che la speciale esimente contemplata dall'art. 598 c.p., "per offese in scritti o discorsi pronunciati dinanzi alla autorità giudiziaria", con la quale il legislatore ha inteso garantire alle parti del processo la massima libertà nell'esercizio del diritto di difesa, trova applicazione sempre che le offese riguardino in modo diretto ed immediato l'oggetto della controversia e abbiano rilevanza funzionale per le argomentazioni svolte a sostegno della tesi prospettata o per l'accoglimento della domanda proposta (tra le varie cfr. nella giurisprudenza civile Cass. 28 agosto 2007, n. 18207; Cass. 18 maggio 2005, n. 10423 e in quella penale: Cass. 7 febbraio 2008, n. 9071).

In particolare si ritiene che l'esimente non è condizionata dalla necessità delle offese, mentre è necessario il rispetto del criterio della pertinenza, dal momento che la norma ne delimita chiaramente l'estensione, richiedendo che "le offese concernono l'oggetto della causa...". Ne consegue che, per quanto l'esimente si applichi anche alle offese che non concernano momenti decisivi dell'argomentazione, queste devono comunque essere direttamente connesse al tema della causa, con la conseguenza che tali presupposti non ricorrono ove le offese non siano pertinenti e si risolvano in giudizi apodittici sulla persona offesa, senza che sia possibile rilevare inferenze argomentative nella controversia in discussione presso l'Autorità giudiziaria (Cass. pen., 8 gennaio 2005, n. 6495).

Cass. civ. Sez. III, Sent., 21-05-2013, n. 12402



Parco-giochi e obbligo di vigilanza per il ristoratore

Va premesso, in merito al rapporto che intercorre tra l'azione di responsabilità per danni a norma dell'art. 2043 cod. civ. e l'azione di responsabilità a norma dell'art. 2051 cod. civ., in conformità alla giurisprudenza assolutamente pacifica di questa Corte (cfr. Cass. 23 giugno 2009, n. 14622; Cass. 2 febbraio 2007, n. 2308; Cass. 6 luglio 2004, n. 12329; Cass. Sez. Unite, 7 agosto 2001, n. 10893), che l'applicabilità dell'una o dell'altra norma implica, sul piano eziologico e probatorio, diversi accertamenti e coinvolge distinti temi d'indagine, trattandosi di accertare, nel primo caso, se sia stato attuato un comportamento commissivo od omissivo, dal quale è derivato un pregiudizio a terzi, e dovendosi prescindere, invece, nel caso di responsabilità per danni da cosa in custodia, dal profilo del comportamento del custode, che è elemento estraneo alla struttura della fattispecie normativa di cui all'art. 2051 cod. civ., nella quale il fondamento della responsabilità è costituito dal rischio, che grava sul custode, per i danni prodotti dalla cosa che non dipendano dal caso fortuito (ex plurimis: Cass. 17 gennaio 2001, n. 584).

Tanto premesso, ritiene il Collegio che il dubbio, prospettato con il primo motivo di ricorso, in ordine all'inquadramento da parte dei Giudici a quibus della fattispecie in oggetto nell'ambito dell'una o dell'altra azione sopra indicate, non ha ragione d'essere. Invero "i fatti" ritenuti rilevanti per l'affermazione del concorso di responsabilità - individuati, da un lato, nella posizione statica del minore "così pericolosamente prossima all'altalena da lambirla" (ascritta alla vittima) e, dall'altro, nell'omessa "necessaria sorveglianza dei minori intenti all'uso dell'attrezzatura" (ascritta al ristoratore) prescindono totalmente dall'esistenza di un rapporto causale tra la cosa e il danno, necessario e sufficiente ai fini della responsabilità ex art. 2051 cod. civ. (salva la prova, da parte del custode, dell'elisione del nesso eziologico, costituita dal fortuito), declinando, implicitamente, ma inequivocamente l'affermazione di limitata responsabilità dell'odierno ricorrente nell'ambito normativo dell'art. 2043 cod. civ., che presuppone il dolo o la colpa dell'autore del danno.

E' il caso di precisare che parte resistente - sia pure, talora, confusamente profilando "l'omessa custodia" da parte del V. ovvero ancora postulando "la qualità di custode" del predetto - ha mostrato di condividere siffatta qualificazione della domanda e l'inquadramento del fatto nell'ambito dell'illecito aquiliano di tipo omissivo, segnatamente affermando che "la Corte di Appello ... ha reso giustizia riconoscendo la condotta colposa del titolare del ristorante" e correlativamente evidenziando, da un lato, l'omissione da parte di costui della "necessaria sorveglianza dei minori intenti all'uso dell'attrezzatura" e, dall'altro, l'assenza, all'epoca del fatto, di un cartello "che indicasse il regolamento d'uso delle attrezzatura" sotto la sorveglianza dei genitori (v. pag. 7 del controricorso).

In altri termini - nella prospettiva dei giudici del merito, chiaramente condivisa da parte resistente - l'altalena non ha costituito la causa (o la concausa) dell'evento, ma una semplice occasione; la stessa, inoltre, siccome "costruita a perfetta regola d'arte e con materiali non scadenti", non presentava particolari elementi di pericolosità oltre quelli propri di attrezzature di tal fatta, le quali richiedono un uso conforme alla loro concreta funzionalità e la vigilanza di adulti. E tale vigilanza - secondo la Corte di appello -avrebbe dovuto essere apprestata dal titolare del ristorante.

Se, dunque, il titolo della (cor)responsabilità del V. è stato individuato nell'omessa "sorveglianza dei minori", risulta priva di pregio la deduzione svolta con il secondo motivo di ricorso in punto di omessa individuazione dei presupposti dell'azione di cui all'art. 2051 cod. civ.; mentre il problema da risolvere resta quello proposto con il terzo e ancor più gradato motivo di ricorso e, cioè, quello della verifica dell'esistenza di un nesso di causalità materiale e giuridica alla stregua dei principi operanti in tema di illecito omissivo ex art. 2043 cod. civ., tenendo presente che costituisce dato fattuale incontroverso (perchè non attinto dal ricorso incidentale) la conformità alle "regole dell'arte" dell'attrezzatura di cui trattasi.

Va da sè - alla luce degli accertamenti in fatto e della qualificazione operata dal Giudice di appello, nonchè in considerazione delle stesse deduzioni di parte resistente sopra richiamate - che è precluso a questo Giudice di legittimità di fare riferimento al criterio di collegamento causale più favorevole al danneggiato della (diversa) azione di cui all'art. 2051 cod. civ..

[...]

Ciò posto e considerato che la responsabilità civile per omissione può scaturire dalla violazione di un preciso obbligo giuridico di impedire l'evento dannoso ovvero, anche, dalla violazione di regole di comune prudenza, le quali impongano il compimento di una determinata attività a tutela di un diritto altrui, osserva il Collegio che i Giudici a quibus hanno aprioristicamente postulato a carico del ristoratore un obbligo di "necessaria sorveglianza" dei minori intenti all'uso dell'attrezzatura ludica, senza considerare che la messa a disposizione del parco-giochi da parte del titolare dell'esercizio commerciale non comporta l'assunzione di obbligazioni diverse e ulteriori rispetto a quelle assunte con il contratto di ristorazione e, in specie, non determina alcuno specifico obbligo di vigilare sull'attività di svago dei minori che si accompagnano ai clienti.

In altri termini ritiene il Collegio che la situazione di cui trattasi - in cui costituisce dato fattuale non controverso che l'attrezzatura ludica messa a disposizione della clientela era a perfetta regola d'arte - non è diversa da quella che ordinariamente si verifica in qualsiasi caso di accesso di un minore, accompagnato da coloro che ne hanno la responsabilità, in un esercizio di ristorazione che, proprio in considerazione dell'attività svolta, non prevede tra le prestazioni offerte anche quella di vigilanza dei minori (salvo l'ipotesi che sia fornito anche un apposito servizio di baby sitter).

In tale contesto il dubbio sollevato dalla Corte di appello e ribadito anche da parte resistente circa l'esistenza in loco di "un regolamento d'uso delle attrezzature del parco riservato ai minori dai 5 ai 12 anni sotto la diretta sorveglianza dei genitori" attiene a circostanza neutra sul piano della responsabilità del titolare del ristorante, atteso che l'eventuale "regolamento" nei termini sopra precisati non avrebbe fatto altro che confermare un canone di comportamento proprio dei genitori o, in genere, di chi ha la responsabilità dei minori, fermo restando l'obbligo del ristoratore di garantire il buono stato d'uso delle attrezzature (che qui non è in discussione).

In definitiva va accolto il terzo motivo di ricorso, rigettati i primi due ed assorbiti gli altri. Resta, altresì, assorbito il ricorso incidentale svolto sul punto dell'asserito difetto di prova del concorso di colpa della vittima, dovendosi affermare il principio che la messa a disposizione di un parco giochi a perfetta regola d'arte da parte di un titolare di un ristorante non determina a carico di costui alcun obbligo di sorveglianza dei minori intenti all'uso delle relative attrezzature.

La decisione impugnata va, dunque, cassata.

La causa si presta ad essere decisa nel merito, in quanto non occorrono accertamenti di fatto per ritenere che la domanda va rigettata, atteso che non può ritenersi (cor)responsabile del danno il V. in difetto dell'obbligo comportamentale, specifico o generico, a suo carico, necessario a postulare la ritenuta responsabilità omissiva.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 21-05-2013, n. 12401


Interposizione fittizia dell’acquirente: non è litisconsorte necessario il venditore

L'affermazione della sussistenza del litisconsorzio necessario a prescindere dall'accertamento dell'interesse in concreto delle parti - e segnatamente dell'alienante - alla partecipazione al giudizio, si fonda anche sul rilievo che la disposizione relativa al litisconsorzio è inderogabile, d'interesse pubblico e la sua valutazione viene logicamente prima del merito.

Siffatta argomentazione appare in contrasto con l'orientamento, elaborati da questa Corte dopo la costituzionalizzazione del principio del giusto processo (art. 111 Cost.), in tema di conseguenze delle lesioni dei diritti processuali. La progressiva affermazione della necessità che la violazione delle regole del giusto processo sia effettiva e determini un vulnus nel diritto di difesa, che deve essere dedotto ed allegato, ha infatti indotto la Corte ad un approccio non dogmatico riguardo alla applicazione dell'art. 102 c.p.c.. Si è così giunti a non ritenere necessaria la rimessione del processo davanti al giudice del secondo grado per disporre l'integrazione del contraddittorio quando la partecipazione del litisconsorte pretermesso avrebbe determinato esclusivamente una diseconomia temporale, non sussistendo in capo alla parte esclusa alcun interesse attuale a partecipare al giudizio (Cass. 18410 del 2009; Cass. n. 4342 del 2010; Cass. n. 18375 del 2010). Indirizzo, questo, che converge con l'analogo orientamento fondato sulla non utilità e conseguente non necessità del litisconsorzio necessario davanti alla Corte di Cassazione, quando vi sia una ragione di inammissibilità o di manifesta infondatezza che s'impone. (Cass. n. 2723 del 2010; Cass., S.U., n. 6826 del 2010).

La spinta delle interpretazioni costituzionalmente orientate verso l'attuazione effettiva dei principi del giusto processo contenuti nell'art. 111 Cost., è quindi stata realizzata secondo due direttrici, peraltro convergenti: l'obbligo, per la parte, di dedurre ed allegare l'impedimento e la limitazione dell'esercizio del diritto di difesa; il reciproco dovere del giudice di verificare preliminarmente ed officiosamente la sussistenza o la conservazione dell'interesse a contraddire prima di ordinare l'esecuzione di un'attività produttiva di un allungamento dei tempi del processo che l'assenza d'interesse renderebbe ingiustificabile.

In sostanza, l'interesse si coniuga con l'utilità dell'accertamento nei confronti della parte non ancora inclusa nel processo e la natura pubblicistica del litisconsorzio necessario risulta depurata, alla luce dell'esigenza costituzionale di rendere effettiva la tutela giudiziale dei diritti, da principi aprioristicamente ritenuti inderogabili senza essere calati nella realtà processuale ove sono deputati a trovare applicazione. Pertanto, posto che l'accertamento giudiziale e il giudicato hanno la funzione di produrre effetti nella sfera giuridico-patrimoniale delle parti, modificando (o confermando definitivamente) il precedente assetto, ove lo stesso non abbia questa finalità, perchè lascia invariati gli interessi di una parte (in senso formale), non vi è la necessità inderogabile di far partecipare questa parte al processo perchè così operando si finirebbe per attribuire al giudicato un'efficacia erga omnes, di natura meramente dichiarativa, diversa da quella derivante dall'intangibilità così come definita nell'art. 2909 c.c..

Ed è appunto questa la situazione che si verifica con riferimento all'alienante quando il contratto sia stato eseguito e si discuta di simulazione relativa per interposizione fittizia nella persona dell'acquirente.

In conclusione, deve affermarsi il seguente principio di diritto: "nella simulazione relativa della compravendita per interposizione fittizia dell'acquirente, l'alienante non è litisconsorte necessario, se nei suoi riguardi il negozio è stato integralmente eseguito e manca ogni suo interesse a essere parte nel giudizio".

Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 14-05-2013, n. 11523


Stranieri e le prestazioni assistenziali

Il suddetto assegno - attribuibile ai soli invalidi civili nei confronti dei quali sia riconosciuta una riduzione della capacità lavorativa di misura elevata ed erogabile in quanto il soggetto invalido non presti alcuna attività lavorativa e versi nelle disagiate condizioni reddituali stabilite dalla legge per il riconoscimento della pensione di inabilità - costituisce una provvidenza destinata non già ad integrare il minor reddito dipendente dalle condizioni soggettive, ma a fornire alla persona un minimo di sostentamento, atto ad assicurarne la sopravvivenza.

Secondo la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo, ove si versi, come nel caso di specie, in tema di provvidenza destinata a far fronte al sostentamento della persona, qualsiasi discrimine tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato, fondato su requisiti diversi dalle condizioni soggettive, finirebbe per risultare in contrasto con il principio di non discriminazione sancito dall'art. 14 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo. Pertanto, la norma de qua, che interviene direttamente e restrittivamente sui presupposti di legittimazione al conseguimento delle provvidenze assistenziali, viola il limite del rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali imposto dall'evocato parametro costituzionale, poichè discrimina irragionevolmente gli stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato nel godimento di diritti fondamentali della persona riconosciuti ai cittadini".

[...]

Questa Corte con la sentenza n. 14733 del 05/07/2011 ha affermato "Il cittadino straniero anche se titolare del solo permesso di soggiorno ha il diritto di vedersi attribuire l'indennità di accompagnamento, la pensione d'inabilità e l'assegno d'invalidità, ove ne ricorrano le condizioni previste dalla legge, essendo stata espunta, per effetto delle pronunce della Corte costituzionale n. 306 del 2008, n. 11 del 2009 e n. 187 del 2010, l'ulteriore condizione costituita dalla necessità della carta di soggiorno, in quanto, se è consentito al legislatore nazionale subordinare l'erogazione di prestazioni assistenziali alla circostanza che il titolo di legittimazione dello straniero al soggiorno nello Stato ne dimostri il carattere non episodico e di non breve durata, quando tali requisiti non siano in discussione, sono costituzionalmente illegittime, perchè ingiustificatamente discriminatorie, le norme che impongono nei soli confronti dei cittadini extra Europei particolari limitazioni al godimento di diritti fondamentali della persona, riconosciuti ai cittadini italiani".

Cass. civ. Sez. VI - Lavoro, Ord., 06-05-2013, n. 10460


Il ritiro della patente all'ubriaco in bicicletta non può essere disposto

Il Tribunale di Trento ha applicato la pena ex art. 444 c.p.p., nei confronti dell'imputato in epigrafe in ordine al reato di cui all'art. 186 C.d.S., comma 2, lett. C, e comma 2 sexies, per essersi posto alla guida di un velocipede in stato di ebbrezza alcolica.

[...]

La normativa si applica, per effetto dell'art. 219 bis C.d.S., introdotto con la L. 15 luglio 2009, n. 94, anche quando l'illecito è stato commesso da conducente di ciclomotore. In tal caso la sospensione riguarda il certificato di idoneità alla guida. Tale ultima norma è rilevante per orientare la risoluzione del caso in esame. La novella ha esteso l'applicazione della sanzione amministrativa accessoria di cui si discute al conducente di ciclomotore. La norma ha formalmente enunciato che la sospensione si applica al certificato di idoneità alla guida "posseduto" ovvero alla patente "posseduta". Risulta dunque normativamente confermata, nel suo complesso, la consolidata e condivisa giurisprudenza di questa Suprema corte, secondo cui la sospensione di cui si discute può essere disposta solo quando l'imputato sia titolare di titolo abilitativo e si sia posto alla guida di veicolo che richieda uno dei titoli abilitativi per i quali la legge prevede la sospensione medesima.

La pronunzia deve essere conseguentemente annullata limitatamente alla disposta sospensione della patente di guida.

Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 29-03-2013) 06-05-2013, n. 19413


22 settembre 2013

Quote condominiali, nulla la mora per il ritardo nei pagamenti

La Delib. all'origine dell'attuale controversia, adottata in data 27 ottobre 1991, deve considerarsi nulla, perchè non rientra nei poteri dell'assemblea, deliberando a maggioranza, stabilire interessi moratori a carico dei condomini nel ritardo dei pagamenti delle quote condominiali, potendo tale previsione essere inserita soltanto in un regolamento contrattuale, approvato all'unanimità (Cass., Sez. 2, 18 maggio 2011, n. 10929).

Tale nullità inficia e travolge le successive delibere nella parte in cui, nel ripartire gli oneri di gestione tra i consorziati in relazione ad ogni singolo anno, applicano il medesimo tasso di mora del 20%.

Anche le successive delibere, pertanto, sono affette dal medesimo vizio di nullità, la quale può essere fatta valere dal condomino interessato senza essere tenuto all'osservanza del termine di decadenza di trenta giorni ai sensi dell'art. 1137 cod. civ..

Cass. civ. Sez. II, Sent., 30-04-2013, n. 10196

21 settembre 2013

Praticante avvocato abilitato: Cassazione interviene su limiti di valore e materia

Quanto alle cause nelle quali il citato art. 7, comma 1, lett. a), ha previsto, per il praticante avvocato abilitato, la possibilità di esercitare l'attività professionale con riferimento agli "affari civili" il Collegio ritiene che tra quelle indicate al n. 1) "cause, anche se relative a beni immobili, di valore non superiore a lire cinquanta milioni" - diversamente da quanto affermato dalla Corte di merito - debbono ricomprendersi anche quelle in materia di lavoro e previdenza ed assistenza che, prima della istituzione del giudice unico di primo grado, rientravano nella competenza pretorile. Ed infatti, laddove il Legislatore ha inteso far riferimento alla materia della causa lo ha espressamente detto come ai punti 2) e 3) della lett. a), del citato art. 7 comma 1. Peraltro, la distinzione delle cause di lavoro e in materia di previdenza ed assistenza obbligatoria nell'ambito degli affari civili potrebbe derivare dalla diversità del rito ma il criterio del rito è estraneo all'art. 7, comma 1, lett. a).

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 29-04-2013, n. 10102



L'efficacia immediatamente esecutiva dei provvedimenti emessi a norma della L. 1.12.1970, n. 898, art. 9, co. 1

Si deve preliminarmente rilevare che sulla questione oggetto del presente giudizio, costituita dall'efficacia immediatamente esecutiva dei provvedimenti, emessi a norma della L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 9, comma 1 come sostituito dalla L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 13, comma 1 con i quali il tribunale provvede alla revisione delle disposizioni concernenti l'affidamento dei figli, e di quelle relative alla misura e alle modalità dei contributi da corrispondere ai sensi degli artt. 5 e 6 della stessa legge, non vi sono precedenti in termini nella giurisprudenza di legittimità. Le due contrastanti pronunce, richiamate nell'ordinanza interlocutoria, vertono, infatti, sui provvedimenti pronunciati dal tribunale a norma dell'art. 710 c.p.c., in tema di modifica delle condizioni di separazione, e non propriamente sui provvedimenti pronunciati a norma del novellato L. n. 898 del 1970, art. 9, comma 1 in tema di revisione delle condizioni di divorzio. Lo stesso apparato argomentativo svolto delle due sentenza, e in particolare in quella n. 4376 del 2012, per la definizione dell'efficacia esecutiva dei provvedimenti adottati ex art. 710 c.p.c. non sarebbe direttamente utilizzabile, nonostante la generica affinità dei due procedimenti, per la soluzione del problema riguardo ai provvedimenti assunti L. n. 898 del 1970, ex art. 9, comma 1; e ciò sebbene, come si dirà, esso offra spunti di riflessione che vanno al di là della fattispecie regolata.

[...]

Lo stretto collegamento che deve ravvisarsi tra il giudizio di scioglimento o di cessazione degli effetti del matrimonio e quello successivo, di revisione, e che impone per il problema qui esaminato, dell'efficacia esecutiva del provvedimento emesso al termine del giudizio di primo grado, una soluzione uniforme, appare dunque dettato da ragioni immanenti alla materia trattata. A ciò non varrebbe opporre il rilievo formale che nel primo giudizio si ha a che fare con una sentenza, provvisoriamente esecutiva per una regola più generale, specificamente ribadita in materia, mentre nel secondo caso si ha a che fare con un provvedimento camerale, soggetto alla disciplina dell'art. 741 c.p.c.. Non soltanto, infatti, in questo caso il procedimento camerale è applicabile non in ragione della natura propria della materia trattata - che non è di giurisdizione volontaria ma contenziosa - bensì di una scelta del legislatore, in funzione di semplificazione e accelerazione del processo, sostanzialmente contrastante con la conclusione alla quale si perverrebbe altrimenti; per l'altro, a giustificare una diversa efficacia della sentenza di primo grado pronunciata a norma dell'art. 4 e del "decreto" emesso a norma della L. n. 898 del 1970, art. 9 non varrebbe, come s'è visto, l'efficacia di giudicato del provvedimento che si tratta di modificare. La soluzione qui contrastata si porrebbe in termini di evidente e ingiustificabile irragionevolezza, risultante non già dall'intendo legis ricostruibile da un attento esame delle norme vigenti - che appare orientata in senso opposto a quella conclusione - bensì come l'effetto del tutto accidentale e indesiderato della stratificazione del tessuto normativo, conseguente a una serie diacronica di interventi frazionati e privi di coordinamento. A un tale esito interpretativo, che porrebbe questioni non manifestamente infondate di costituzionalità sotto il profilo della regola del giusto processo, ritiene la corte di dover preferire una ricostruzione sistematica della volontà del legislatore, tale da contemperare la specialità del processo, regolato in funzione della materia, con i principi della ragionevolezza. In sintesi, la soluzione deve essere ricercata all'interno della disciplina processuale, disegnata dalla L. n. 898 del 1970, artt. 4 e 9 con speciale riguardo alla natura della controversia che ne costituisce l'oggetto, rimanendo l'implicito rimando alle regole del processo camerale confinato a un ruolo meramente residuale, per quei casi nei quali la specialità del procedimento non offra indicazioni pertinenti.

In conclusione deve affermarsi il principio di diritto che, in materia di revisione delle disposizioni concernenti l'affidamento dei figli e di quelle relative alla misura e alle modalità dei contributi da corrispondere a seguito dello scioglimento e della cessazione degli effetti del matrimonio, a norma della L. n. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 9 e successive modificazioni, il decreto pronunciato dal tribunale è immediatamente esecutivo, in conformità di una regola più generale, desumibile dall'art. 4 della citata legge regolativa della materia e incompatibile con l'art. 741 c.p.c., che subordina l'efficacia esecutiva al decorso del termine utile per la proposizione del reclamo.

Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 26-04-2013, n. 10064


La notifica alla sede legale é valida anche in caso di trasferimento della sede effettiva

Ciò posto e atteso che, nel caso di società di capitali, il mutamento della sede effettiva, quando la sede legale sia rimasta immodificata, non è opponibile ai terzi, salvo che non si provi che questi siano stati messi a conoscenza di tale circostanza, correttamente il giudice del gravame ha ritenuto valida la notifica del ricorso e del decreto ingiuntivo, effettuata mediante il servizio postale, nelle forme previste dalla L. n. 890 del 1982, art. 8, presso l'indicata sede legale di via (OMISSIS).

Cass. civ. Sez. II, Sent., 23-04-2013, n. 9798



Liquidazione unitaria del danno, ma non una considerazione atomistica dei suoi effetti

Nessun vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione è, pertanto, ravvisabile nell'iter argomentativo adottato dalla Corte di Appello di Catanzaro, tanto più che la pronuncia si pone in linea con l'orientamento di questa Corte in materia, secondo cui il danno biologico (cioè la lesione della salute), quello morale (cioè la sofferenza interiore) e quello dinamico-relazionale (altrimenti definibile "esistenziale", e consistente nel peggioramento delle condizioni di vita quotidiane, risarcibile nel caso in cui l'illecito abbia violato diritti fondamentali della persona) costituiscono pregiudizi non patrimoniali ontologicamente diversi e tutti risarcibili; nè tale conclusione contrasta col principio di unitarietà del danno non patrimoniale, sancito dalla sentenza n. 26972 del 2008 delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, giacchè quel principio impone una liquidazione unitaria del danno, ma non una considerazione atomistica dei suoi effetti (Cass. n. 20292/2012).

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 23-04-2013, n. 9770



Illecito disciplinare per l’avvocato che chiede compensi al cliente, nella fase stragiudiziale, in preparazione di una causa in gratuito patrocinio

La censura è infondata.

In realtà il C.N.F., nel ricostruire l'ambito e la portata dell'istituto del patrocinio a spese dello Stato, dopo aver affermato che l'attività professionale di natura stragiudiziale che l'avvocato si trova a svolgere nell'interesse del proprio assistito non è ammessa al patrocinio, in quanto esplicantesi fuori del processo, con la conseguenza che il relativo compenso si pone a carico del cliente, ha precisato che, ove si tratti di attività professionale svolta in vista della successiva azione giudiziaria - così qualificata anche l'attività espletata dall'avv. C.L. -, essa deve essere ricompresa nell'azione stessa ai fini della liquidazione a carico dello Stato: sicchè in relazione ad essa il professionista non può chiedere il compenso al cliente ammesso al patrocinio a spese dello Stato.

Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 19-04-2013, n. 9529


La configurazione del reato di guida in stato di ebbrezza

Il ricorso è fondato.

La sentenza d'appello ha ritenuto di ascrivere all'imputato la commissione della più grave delle ipotesi di reato disciplinate dall'art. 186 C.d.S. muovendo dalla preliminare circostanza costituita dal risultato della prima misurazione strumentale del tasso alcolemico riscontrato a carico dell'imputato: risultato superiore ai limiti previsti in relazione a tale più grave ipotesi criminosa, seppur non accertata in conformità alle prescrizioni legali dello stesso art. 186.

Al riguardo, secondo l'insegnamento di questa corte di legittimità, per la configurazione del reato di guida in stato di ebbrezza, pur potendo accertarsi lo stato di alterazione con qualsiasi mezzo, e quindi anche su base sintomatica, è tuttavia necessario ravvisare l'ipotesi più lieve, priva di rilievo penale, quando, pur risultando accertato il superamento della soglia minima, non sia possibile affermare, oltre ogni ragionevole dubbio, che la condotta dell'agente rientri nell'ambito di una delle altre due ipotesi che conservano rilievo penale (Cass., Sez. 4, n. 28787/2011, Rv. 250714; Cass., Sez. 4, n. 6889/2011, Rv. 252728).

Nel caso di specie, il generico richiamo operato nella sentenza impugnata agli indici sintomatici riportati nel verbale di accertamento redatto dalla polizia giudiziaria (sia pure valutati in connessione all'entità del risultato scaturito dalla prima misurazione del tasso alcolemico dell'odierno imputato), appare tale da non fornire una dimostrazione sufficientemente adeguata al fine di ritenere, oltre ogni ragionevole dubbio, che la condotta dell'agente si prestasse a un inquadramento nell'ambito di una delle due ipotesi di cui all'art. 186 C.d.S. ancora configurate come penalmente rilevanti.

L'indole eminentemente apodittica della motivazione così come redatta nel provvedimento qui impugnato impone di riscontrarne il carattere sostanzialmente illogico, da tanto derivando il necessario annullamento della ridetta sentenza, con rinvio alla corte d'appello milanese per un nuovo esame sul punto indicato.

Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 19-04-2013) 23-04-2013, n. 18375


Potenzialità economiche derivanti dal poter svolgere l’attività di avvocato

Con ordinanza deliberata in data 23 aprile 2012, il Magistrato di Sorveglianza di Roma rigettava l'istanza avanzata nell'interesse di F.S. volta a ottenere la remissione del debito ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, relativamente all'importo di Euro 300.468,57 dovute per spese di giustizia.

Il giudice argomentava la propria decisione rilevando che non solo non emergevano prove di una totale indigenza del richiedente, ma al contrario si potevano cogliere indici di una certa agiatezza per il fatto che il F. disponeva di un'attività lavorativa idonea a garantirgli una certa agiatezza (avvocato) e che il medesimo è intestatario di beni immobili come attestato dalla visura della Guardia di Finanza.

[...]

Ciò rilevato occorre osservare che il Magistrato di Sorveglianza è stato ossequioso di questi principi posto che, pur valutando l'entità dell'importo dovuto, ha approfonditamente valutato l'impatto del soddisfacimento del debito sulle effettive (e non meramente presuntive) capacità patrimoniali del F. valutando la mancanza del requisito delle disagiate condizioni economiche in dipendenza della constatazione che il condannato ha una capacità reddituale che giustifica la sostenibilità del debito anche in considerazione delle potenzialità economiche derivanti dal fatto che egli potrebbe svolgere l'attività di avvocato.

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 20-03-2013) 17-04-2013, n. 17633



Morte del coniuge, liquidazione differenziata per moglie e figli

Perciò da un lato va ribadito che, in caso di fatto illecito plurioffensivo, ciascuno danneggiato è titolare di un autonomo diritto al risarcimento di tutto il danno, morale (cioè la sofferenza interiore soggettiva sul piano strettamente emotivo, nell'immediatezza dell'illecito, ma anche duratura nel tempo nelle sue ricadute, pur se non per tutta la vita), e dinamico-relazionale (altrimenti definibile "esistenziale"), consistente nel peggioramento delle condizioni e abitudini, interne ed esterne, di vita quotidiana (Cass. 20972 del 2012). Quindi, se l'illecito abbia gravemente compromesso il valore persona, come nel caso della definitiva perdita del rapporto matrimoniale e parentale, ciascuno dei familiari superstiti ha diritto, in proporzione alla durata e alla intensità del vissuto, alla composizione del restante nucleo che può prestare assistenza morale e materiale, avuto riguardo sia all'età della vittima primaria che a quella dei familiari danneggiati, alla personalità individuale di costoro, alla loro capacità di reazione e sopportazione del trauma, ed ad ogni altra circostanza del caso concreto - che deve esser allegata e provata, ancorchè presuntivamente, secondo nozioni di comune esperienza, essendo danni - conseguenza, spettando alla controparte la prova contraria di situazioni che compromettono l'unità, la continuità e l'intensità del rapporto familiare - ad una liquidazione comprensiva di tutto il pregiudizio non patrimoniale subito (Cass. 1410, 24015 del 2011).

Conseguentemente, poichè la liquidazione, necessariamente equitativa, deve esser circostanziata, se per ragioni di uniformità nazionale il giudice di merito adotti le tabelle del Tribunale di Milano - i cui parametri devono esser attualizzati al momento della decisione (Cass. 7272 del 2012) - per l'individuazione della concreta somma attribuibile nel range tra il minimo ed il massimo, ovvero anche oltre tale limite se il vulnus familiare è di particolare gravità per alcuni dei superstiti (Cass. 28423 del 2008), egli deve esplicitare se e come ha considerato tutte le concrete circostanze per risarcire integralmente il danno non patrimoniale subito da ciascuno (Cass. 14402 del 2011), e perciò va esclusa ogni liquidazione di tale pregiudizio in misura pari ad una frazione dell'importo liquidabile a titolo di danno biologico del defunto, perchè tale criterio non rende evidente e controllabile l'iter logico attraverso cui il giudice di merito sia pervenuto alla relativa quantificazione, nè permette di stabilire se e come abbia tenuto conto di tutte le circostanze suindicate (Cass. 2228 del 2012), così come è erronea una liquidazione uguale per tutti gli aventi diritto o globale con successiva ripartizione interna tra costoro (Cass. 1203 del 2007). I giudici di merito non hanno osservato detti principi avendo quantificato una somma uguale per tutti i componenti del nucleo familiare - moglie e quattro figli, di cui uno appena diciottenne e tre in tenera età - e senza rappresentare come hanno considerato l'incidenza dell'improvvisa e definitiva interruzione del rapporto familiare sul coniuge superstite, sia sotto l'aspetto dell'intensità del dolore emotivo, sia sotto quello della definitiva perdita dell'apporto dell'altro genitore nella cura e nella formazione morale e sociale dei figli, nè dell'incidenza di tali aspetti su questi ultimi, per tutta la vita che sarebbe rimasta al padre, secondo l'aspettativa media di essa se non fosse stata tragicamente stroncata. Perciò le censure vanno accolte.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 17-04-2013, n. 9231



COMUNIONE E CONDOMINIO - INGIUNZIONE

Con il primo motivo i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione degli artt. 1130, 1322, 1175 e 1375 c.c. e il vizio di motivazione sostenendo che il GdP ha errato nell'interpretare la disposizione del regolamento condominiale che obbliga l'amministratore all'osservanza del regolamento condominiale; in particolare l'art. 34 del regolamento, interpretato secondo buona fede, precluderebbe il ricorso alla procedura monitoria, senza previa messa in mora.

Il motivo è manifestamente infondato in quanto nella norma del regolamento non è fatto divieto all'amministratore di agire in via monitoria senza previa messa in mora.

La norma regolamentare si limita a fissare una regola di condotta dalla cui violazione potrebbe, in ipotesi, discendere una responsabilità da inesatto adempimento del mandato, ma non la preclusione processuale invocata.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 16-04-2013, n. 9181


Se c’è occupazione sine titulo di un immobile altrui, c’è danno in re ipsa per il proprietario

Il motivo, in relazione alle denunciate violazioni di legge, è infondato. Le stesse difese della ricorrente depongono per la sussistenza dell'illecito, fondando la medesima le sue richieste sul suo inadempimento.

Inoltre, secondo l'orientamento tradizionale della giurisprudenza di legittimità, in caso di occupazione senza titolo di un immobile altrui (sia essa usurpativa o non), il danno per il proprietario del cespite è in re ipsa, ricollegandosi al semplice fatto della perdita della disponibilità del bene da parte del proprietario usurpato ed all'impossibilità per costui di conseguire l'utilità normalmente ricavabile dal bene medesimo in relazione alla natura normalmente fruttifera di esso (v. ex plurimis Cass. 10 febbraio 2011, n. 3223; Cass. 18 gennaio 2006, n. 827; Cass. 5 novembre 2001, n. 13630; v.
pure, da ultimo, Cass. 7 agosto 2012, n. 14222, secondo cui l'esistenza di un tale danno in re ipsa costituisce oggetto di una presunzione iuris tantum, che poggia sul presupposto dell'utilità normalmente conseguibile nell'esercizio delle facoltà di godimento e di disponibilità del bene insite nel diritto dominicale, presunzione che nella specie non risulta, del resto, essere stata superata).

Secondo il ricordato orientamento la determinazione del risarcimento del danno ben può essere, in tal caso, operata dal giudice sulla base di elementi presuntivi semplici, con riferimento anche al c.d. danno figurativo e, quindi, con riguardo anche al valore locativo del bene usurpato. A tali principi la Corte di merito si è correttamente conformata.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 09-04-2013, n. 8571


Il nesso causale è provato anche in assenza di testimoni

Il terzo motivo è fondato.

Accertate in fatto l'esistenza di "materiale di risulta precipitato dal soffitto e dalle pareti del vano scala condominiale" e la caduta della S., la Corte d'appello ha tuttavia conferito determinante valenza in punto di difetto di prova di nesso causale tra presenza di materiali di risulta e caduta alla circostanza che "nessun testimone è stato in grado di precisare le modalità della caduta".

A parte il rilievo che non è immaginabile come un teste potesse con certezza attribuire la caduta alla presenza di materiale di risulta quand'anche avesse materialmente assistito all'evento (in ipotesi, conseguito ad una "scivolata"), è ovvio che in casi quale quello di specie la causa è sempre individuata presuntivamente in relazione al contesto.

Così, ad esempio, se un'autovettura slitta in un punto della strada dov'è presente del brecciolino, la causa dello slittamento ben potrà essere attribuita alla presenza di quel materiale anche se non vi siano stati testi che abbiano assistito alle modalità del fatto.

Lo stesso vale per le cadute su pavimento bagnato, o lungo scale con gradini sconnessi e così via.

Il vizio della motivazione sta allora nell'aver escluso la sussistenza di nesso causale solo perchè non v'erano testi che avessero assistito alle modalità della caduta (il che dipende esclusivamente dal caso), senza scrutinare se a diverse conclusioni potesse in ipotesi pervenirsi sulla scorta dell'apprezzamento di fatti idonei ad ingenerare presunzioni, così consentendo di inferire la ricorrenza del fatto ignoto (causa della caduta) da quello noto (presenza di materiali di risulta) alla luce delle nozioni di fatto comune esperienza, che integrano com'è noto una regola di giudizio.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 16-04-2013, n. 9140


Danno da inattività pari ad 1/5 della retribuzione se la reintegra non è tempestiva

Discorso analogo si deve fare in ordine al danno non patrimoniale. La Corte territoriale ha richiamato una serie di elementi che nel loro complesso hanno determinato - in conseguenza della mancata reintegrazione del posto di lavoro - una lesione "di interessi inerenti la persona, non connotati a rilevanza economica, ma meritevoli di tutela anche per la loro rilevanza costituzionale" che è stata complessivamente valutata alla luce della giurisprudenza di questa Corte onde evitare una duplicazione risarcitoria. Ora la Corte territoriale ha ricordato che il B. è stato licenziato all'età di 58 anni e quindi in una fascia di età nella quale è notoriamente difficile reimpostare la propria carriera, che è stato privato nonostante l'ordine di reintegra (non eseguita per ben sei anni dal momento del recesso del 2002 a quello del pensionamento nel 2008, nonostante il B. si fosse presentato più volte in Ospedale chiedendo di lavorare) della possibilità di operare nella struttura medica nella quella si era stabilmente inserito, che la notizia del licenziamento certamente aveva fatto il giro degli ambienti medici ed ospedalieri, che secondo le norme di ordinaria esperienza il recesso lo aveva sicuramente pregiudicato impedendogli di proseguire in modo lineare nel processo di aggiornamento e nell'attività chirurgica, che lo stato di forzata inattività aveva procurato un'indubbia situazione di stress e di perdita di fiducia come attestato dalla documentazione medica e della relazioni dei medici curanti. Questo complesso di ripercussioni negative su vari fronti e profili, facilmente evitabili dal datore di lavoro ove avesse tempestivamente provveduto alla pronta reintegrazione del dipendente dopo il primo accertamento giudiziario del 2003, ha - per la Corte territoriale - determinato un danno non patrimoniale (valutato come detto nel suo complesso) rapportabile a quello subito dal lavoratore che subisce una totale e forzosa inattività per colpa del datore di lavoro e che è stato liquidato - tenuto conto anche della giurisprudenza formatasi in ordine a quest'ultima situazione - nella misura del 20% della retribuzione base. Ora sul punto la motivazione appare congrua, logicamente coerente, strettamente riferita a dati provenienti dalla comune esperienza o ad emergenze documentali di ordine medico-legali, ed appare coerente con la giurisprudenza di questa Corte in ordine alla prova equitativa del danno non patrimoniale ed alla determinazione unitaria dell'entità dello stesso; per contro le censure appaiono assolutamente generiche o di merito, inammissibili in questa sede. L'ipotesi che il B., licenziato a 58 anni, potesse agilmente ritrovare altre occasioni di lavoro, nonostante la sua forzata espulsione dal luogo di lavoro e la reiterata decisione di mantenerlo inattivo nonostante l'ordine di reintegrazione emesso da più Giudici, è rimasta priva di riscontri di sorta.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 15-04-2013, n. 9073



Niente IRAP per l’avvocato che spende fino a € 4.000 per spese organizzative

E' stata depositata la seguente relazione:

1. L'Avv. D.G.S. ricorre per cassazione avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia 60/01/10 del 9 aprile 2010 che accoglieva parzialmente l'appello dell'Ufficio affermando la non spettanza del rimborso IRAP relativamente all'anno 2007.

2. L'Amministrazione si è costituita in giudizio con controricorso.

3. Il ricorso appare meritevole di accoglimento.

Il giudice di merito ha ritenuto sufficiente per la sottoposizione ad imposta l'esistenza spese per corrispettivi a terzi, beni mobili e beni immobili per Euro 4.088,00, cifra che non appare sufficiente a determinare l'esistenza di una struttura organizzata che possa cagionare un significativo maggior reddito del contribuente.

Cass. civ. Sez. VI - 5, Ord., 10-04-2013, n. 8809


"SEI UN BOIA!"... se lo dici a chi lo è, non diffami.

Il ricorso è palesemente infondato.

Nessuno dei tre motivi di doglianza (con i quali si lamentano, rispettivamente, falsa applicazione di legge ex art. 21 Cost. - Contraddittoria motivazione su un punto rilevante della controversia - Erronea motivazione: il sostantivo "boia") risultano minimamente idonei a scalfire la stringata quanto lapidaria ed incensurabile motivazione adottata dalla corte di appello che, con il semplice quanto efficace richiamo al significato lessicale del termine così come rinvenuto in un noto vocabolario della lingua italiana, ha condivisibilmente escluso ogni valenza ed ogni contenuto diffamatorio nell'espressione oggi censurata.

Il ricorso va pertanto rigettato.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 09-04-2013, n. 8566


Buona fede, anche nel processo esecutivo

La giurisprudenza di questa Corte ha rilevato la costituzionalizzazione del canone generale di buona fede oggettiva e di correttezza, quale estrinsecazione del dovere inderogabile di solidarietà di cui all'art. 2 Cost., siccome tendente a comprendere nella funzione del rapporto obbligatorio pure la tutela della controparte, nel perseguimento di un giusto equilibrio tra gli opposti interessi. E dall'operatività del principio di buona fede sul piano negoziale, ove ad esso sono riconosciuti effetti modificativi od integrativi dell'autoregolamentazione delle parti, si è fatta derivare la sua estensione o proiezione anche nel campo processuale, nel quale i diritti stessi devono trovare tutela nella patologica evenienza della loro contestazione o mancata spontanea applicazione.

Così, l'esigenza di un tale originario equilibrio nel rapporto obbligatorio va mantenuta ferma in ogni successiva fase, sicchè quell'equilibrio non può essere alterato in danno del debitore ad iniziativa unilaterale del creditore, se non a prezzo di un autentico abuso del processo; nozione che presuppone l'esercizio del potere da parte di chi ne è pur sempre titolare legittimo, ma per scopi diversi da quelli per i quali quel potere è riconosciuto dalla legge: scopi ulteriori e deviati, in genere extraprocessuali, rispetto a quelli tipici ed usuali, tanto che l'abuso si caratterizza nel "fine esterno" dell'iniziativa processuale, cioè nella non corrispondenza tra il mezzo processuale ed il suo fine.

Fine del processo esecutivo è certo il soddisfacimento del credito consacrato nei titolo esecutivo in favore del creditore ed in danno del debitore, ma evidenti esigenze sistematiche di equità, economicità e proficuità del processo, impongono che tanto avvenga con il minor possibile sacrificio delle contrapposte ragioni di entrambi i soggetti vale a dire, il creditore ha diritto ad ottenere nè più nè meno di quanto gli compete in forza del titolo (sia pure, se necessario, avendo la facoltà di azionarlo più volte o con più procedure, comunque non oltre l'integrale soddisfacimento del credito e con il limite del divieto del cumulo...ai sensi dell'art. 483 c.p.c.), ma va correlativamente tutelata anche l'aspettativa del debitore a non vedere diminuito il suo patrimonio in misura eccedente quanto sia strettamente necessario per la realizzazione del diritto del creditore.

Una condotta tendente a far conseguire al creditore più di quanto gli compete, come l'ingiustificato azionamento frazionato del credito in origine unitario recato dal titolo implica un'indebita prevaricazione del creditore sulla controparte, sia per l'assoggettamento del debitore ai dispendi originati dall'ingiustificata moltiplicazione dei processi esecutivi, sia per la carenza di causa dell'eventuale locupletazione conseguibile dal creditore, ad esempio per maggiori rimborsi di spese o compensi.

Tale condotta del creditore, che può quindi qualificarsi abusiva, giustifica conclusivamente la compensazione delle spese del giudizio di legittimità.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 09-04-2013, n. 8576


Nuovo contratto, con stipulazione anche verbale - si può presumere

Come detto, la Corte d'Appello non si è limitata a prefigurare la stipulazione di un patto aggiunto e contrario al contenuto del documento contrattuale, ma ha ritenuto che, nel caso di specie, vi potesse essere stato, in alternativa, un contratto verbale autonomo ed ulteriore rispetto a quello stipulato per iscritto, vale a dire "un accordo del tutto analogo a quello contenuto nel documento contrattuale", ma raggiunto dalle parti dopo la scadenza dell'originario contratto. In tale secondo caso, si sarebbe trattato, secondo la Corte, di "una reviviscenza dello stesso contratto concordata tra le parti in forma puramente verbale ma del tutto legittima e con riconoscimento reciproco delle prestazioni avvenute nell'eventuale periodo di carenza, non vertendosi in materia per cui è richiesta la prova scritta".

Al fine di giustificare tale conclusione, la Corte richiama il disposto dell'art. 2729 cod. civ., non più quello dell'art. 2723 c.c..

Pertanto, la censura del ricorrente volta a contestare il passaggio motivazionale relativo alla "reviviscenza" del contratto è erroneamente fondata sull'asserita violazione di tale ultima norma.

La Corte d'Appello non ha affatto sostenuto che con un patto aggiunto e contrario al contenuto del documento contrattuale le parti abbiano attribuito "reviviscenza" ad un accordo contrattuale oramai privo di efficacia. Piuttosto, ha affermato che, alla stregua degli elementi di prova in atti, si sarebbe potuta presumere, ai sensi dell'art. 2729 c.c., la successiva stipulazione di un nuovo contratto alle stesse condizioni del precedente: non essendo previsti oneri di forma, nè ad substantiam nè ad probationem, sarebbe stata legittima la stipulazione verbale ed ammissibile la prova per presunzioni di tale contratto.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 03-04-2013, n. 8118


Art.16 preleggi: da regola ad eccezione - Il cittadino straniero, regolare in Italia, ha tutti i diritti di acquistare l’immobile dove vive

I tre motivi - i quali possono essere esaminati congiuntamente in considerazione della loro stretta connessione - sono infondati.

La tesi da cui muove la complessiva censura è che l'art. 16 preleggi, attenendo al regime della capacità giuridica generale, determini un'ipotesi di incapacità giuridica, nell'ambito dell'ordinamento italiano, per soggetti di ordinamenti che escludano i cittadini italiani dalla titolarità del diritto di cui si discute.

E poichè l'incapacità giuridica si risolve nella impossibilità di realizzare la situazione finale cui tende l'atto di autonomia privata, la conseguenza che ne deriva, in caso di preliminare compiuto tra cittadino italiano e cittadino straniero in assenza della condizione di reciprocità, sarebbe la nullità del contratto, sottoposta al regime di cui agli artt. 1421 e ss. cod. civ., con conseguente legittimazione in re ipsa. di ciascun contraente, essendo la norma dell'art. 1421 cod. civ., sulla legittimazione a far valere la nullità "da chiunque vi ha interesse", coniata per l'attribuzione del potere di impugnativa a chi, in quanto terzo rispetto al contratto, ne sarebbe invece escluso.

[...]

Ad avviso del Collegio, la questione può essere risolta prescindendo dall'affrontare la questione se la mancanza della condizione di reciprocità dia luogo ad una nullità assoluta o relativa.

Occorre, piuttosto, indagare se la vicenda negoziale in esame rientri nel campo di applicazione del principio di reciprocità.

Il principio di reciprocità non riguarda qualsiasi diritto rivendicato dallo straniero.

Sono esclusi dal suo ambito applicativo, in primo luogo, i diritti che la Costituzione repubblicana e le Carte internazionali attribuiscono ad ogni individuo per la sua stessa qualità di persona umana. I diritti inviolabili e le libertà fondamentali, infatti, hanno il predicato dell'indivisibilità, e spettano ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto essere umani (Corte cost., sentenza n. 105 del 2001): pertanto, proprio nella prospettiva dell'universalità della persona umana, chiunque, senza distinzione tra cittadino e straniero, e senza distinzione tra straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato e straniero privo di un titolo o di un permesso di soggiorno, ne è titolare.

[...]

Le forme di esercizio dell'autonomia negoziale dirette ad acquistare la proprietà di beni immobili non possono, di per sè, inquadrarsi tra i diritti fondamentali della persona; sicchè, in quest'ambito, la condizione di reciprocità mantiene, accanto alla sua vigenza, la sua funzione di stimolo e di invito alle altre comunità statuali, diverse da quelle facenti dell'Unione Europea, a modificare la propria legislazione nel senso più liberale possibile, a favore dei cittadini italiani che si trovano all'estero.

Ma anche là dove non vengano in gioco i diritti fondamentali e si versi nel campo dei meri rapporti economici e della ammissione alla titolarità dei beni, il legislatore ha ampiamente ridotto l'area di operatività dell'art. 16 preleggi, escludendo, di regola, la necessità del meccanismo di verifica della condizione del cittadino italiano nell'ordinamento di appartenenza dello straniero là dove quest'ultimo sia titolare, in Italia, dello status di soggiorno regolare.

L'art. 2, comma 2, del testo unico sull'immigrazione prevede infatti che "Lo straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato gode dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano, salvo che le convenzioni internazionali in vigore per l'Italia ed il... testo unico dispongano diversamente". A sua volta, il D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394, art. 1 (Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione giuridica dello straniero), nel testo sostituito il D.P.R. 18 ottobre 2004, n. 334, art. 1, comma 1, stabilisce che l'accertamento della condizione di reciprocità "non è richiesto per i cittadini titolari della carta di soggiorno di cui all'art. 9 del testo unico, nonchè per i cittadini stranieri titolari di un permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato o di lavoro autonomo, per l'esercizio di un'impresa individuale, per motivi di famiglia, per motivi umanitari e per motivi di studio, e per i relativi familiari in regola con il soggiorno".

Nel godimento dei diritti civili in genere, dunque, i cittadini stranieri regolarmente soggiornanti non sottostanno ad alcuna condizione di reciprocità, salvo che la stessa sia richiesta dal testo unico o da convenzioni internazionali. Anche in quest'ambito, pertanto, l'accertamento della sussistenza del principio di reciprocità, da regola che era, diventa eccezione; di talchè l'art. 16 preleggi è destinato ad avere uno spazio di applicazione non inciso dalla deroga soltanto in relazione all'attività giuridica negoziale posta in essere dalle persone giuridiche o dagli enti collettivi stranieri ovvero dai cittadini stranieri che non siano in possesso dello status di soggiorno regolare previsto dalla disciplina sull'immigrazione.

[...]

Va pertanto corretta la motivazione della sentenza impugnata e la causa va risolta sulla base della enunciazione del seguente principio di diritto: "Anche nella disciplina anteriore al D.Lgs. n. 286 del 1998, lo straniero, se titolare del permesso di soggiorno, era capace, in deroga al principio di reciprocità di cui all'art. 16 preleggi, di rendersi acquirente di un immobile da adibire ad abitazione o a sede della propria attività lavorativa; pertanto il contratto preliminare diretto a quell'acquisto non era nullo, a prescindere dalla verifica del trattamento di fatto riservato al cittadino italiano nell'ordinamento di appartenenza dello straniero stesso".

Cass. civ. Sez. II, Sent., 21-03-2013, n. 7210


P.A. custode dei beni demaniali - responsabilità art. 2051 c.c.

Ciò in quanto, sebbene la questione dell'applicabilità dell'art. 2051 cod. civ., alla P.A. custode dei beni demaniali (quali, per l'appunto, le strade aperte al pubblico transito) sia indirizzata, secondo il più recente e consistente orientamento di questa Corte (tra le altre: Cass., 3 aprile 2009, n. 8157; Cass., 20 novembre 2009, n. 24529; Cass., 18 luglio 2011, n. 15720; Cass., 18 ottobre 2011, n. 21508; in senso contrario: Cass., 22 aprile 2010, n. 9546), a risolversi nel senso della irrilevanza dell'estensione del bene oggetto di controllo e vigilanza, nondimeno si è affermato che la disciplina di cui al citato art. 2051, applicabile agli enti pubblici proprietari o manutentori di strade aperte al pubblico transito in riferimento a situazioni di pericolo derivanti da una non prevedibile alterazione dello stato della cosa, "non dispensa il danneggiato dall'onere di provare il nesso causale tra cosa in custodia e danno, ossia di dimostrare che l'evento si è prodotto come conseguenza normale della particolare condizione, potenzialmente lesiva, posseduta dalla cosa, mentre resta a carico del custode, offrire la prova contraria alla presunzione iuris tantum della sua responsabilità, mediante la dimostrazione positiva del caso fortuito, cioè del fatto estraneo alla sua sfera di custodia, avente impulso causale autonomo e carattere di imprevedibilità e di assoluta eccezionaiità" (tra le altre, Cass., 13 luglio 2011, n. 15389).

Cass. civ. Sez. III, Sent., 21-03-2013, n. 7112


Inquinamento - proprietà e confini

Il motivo è fondato.

La Corte di Trento, richiamandosi alla CTU, ha chiarito che i fumi emessi dal camino in oggetto, al servizio di una stufa, che viene alimentata a legna non erano idonei per la parte in cui invadevano per la presenza di vento la proprietà della sig.ra P. ad arrecare danno alla salubrità e alla sicurezza. Tuttavia, la Corte trentina non ha tenuto conto che in primis avrebbe dovuto accertare la denunciata intollerabilità delle immissioni rapportate al diritto alla salute nonchè al diritto ad un ambiente salubre della persona che subiva le immissione di cui si dice. Come insegna questa Suprema Corte cui fa eco la dottrina più avvertita, l'art. 844 c.c., comma 2, alla luce di un'interpretazione costituzionalmente orientata, ponendo alle immissioni il limite della normale tollerabilità ha inteso tutelare il diritto alla salute ed il diritto ad un ambiente salubre. La Corte di merito, avrebbe dovuto, pertanto, effettuare una valutazione concreta e media tra i contrastanti diritti dei proprietari dei fondi oggetto di controversia, tenendo conto delle condizioni dei luoghi, della natura, dell'entità e della causa delle immissioni, delle necessità generali ed assolute, quotidiane e civili, della umana coesistenza e, sussidiariamente, anche della priorità dell'uso. Nè esaustive sono le affermazioni contenute nella sentenza impugnate secondo cui il Tribunale aveva dichiarato che le immissioni di fumo di cui si dice erano inevitabili, ma anche tollerabili o l'espressione secondo cui "orbene l'art. 844 c.c., prevede che nella valutazione della normale tollerabilità si tenga conto delle condizioni dei luoghi e del c.d. preuso" perchè sono (affermazioni) generiche non rapportate alla situazione concreta posta all'attenzione del Giudice.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 09-01-2013, n. 309


10 settembre 2013

Dare del "mantenuto" al coniuge è reato: valida la testimonianza della persona offesa

L' I. e la G. contrassero matrimonio nel 2000 e, fin dall'inizio, la loro unione è stata funestata dalla continue vessazioni cui, secondo la deposizione della p.o., l'odierno imputato la sottoponeva. Quest'ultimo, infatti, era solito apostrofare la moglie con epiteti offensivi facendole pesare il fatto di non contribuire al menage famigliare e di essere a suo completo carico in quanto ancora impegnata negli studi universitari. La situazione con il tempo era peggiorata al punto da indurre i coniugi, nel 2002, a separarsi, decisione rientrata per l'inaspettata gravidanza della G.. Tuttavia, neppure dopo la nascita della figlia il comportamento dell' I. nei confronti della moglie era migliorato: continuavano le vessazioni, le aggressioni verbali accompagnate dalla minaccia rivolta alla moglie di toglierle la bambina.

[...]

Sul punto la sentenza di appello pone in rilievo due aspetti: secondo un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato anche in materia di deposizione della parte civile sentita come testimone vige il principio della scindibilità delle dichiarazioni in virtù del quale il giudice può ritenere veritiera una parte della dichiarazione ed al contempo giudicare non attendibili altre parti. Fermo restando, chiaramente, l'obbligo di fornire un'adeguata motivazione della sua scelta (Cass. n. 10625/1992; Cass. n. 7900/1998; Cass. n. 401070/2006).

[...]

Infondato è anche il terzo motivo con i quale si censura la sentenza in punto di sussistenza del reato ex art. 572 c.p., mancando l'abitualità tipica del reato di maltrattamenti. Richiamati anche con riguardo a questo motivo i principi in materia dei limiti del sindacato di legittimità sulla motivazione, esposti con rifermento al primo motivo, e ribadito in proposito che questa Corte di legittimità deve limitarsi a verificare l'esistenza di un congruo apparato argomentativo della sentenza, senza poter sovrapporre una propria valutazione delle risultanze processuali a quella compita dai giudici di merito, va rilevato che la sentenza impugnata, come integrata dalla sentenza di primo grado richiamata, contiene un ampia disamina della condotta di maltrattamenti, soffermandosi proprio sui quei caratteri di ripetitività degli episodi di violenza morale e fisica integranti il reato in questione; si è evidenziato come l' I., fin dall'inizio della vita coniugale, era solito offendere la moglie rivolgendosi a lei con epiteti infamanti ed umilianti, facendole pesare di essere a suo carico non percependo un proprio reddito, sì da instaurare un regime di vita logorante, volto al continuo discredito della moglie annientandone la personalità.

Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 14-06-2012) 17-10-2012, n. 40845

09 settembre 2013

Scioglimento del contratto - risoluzione del contratto - inadempimento - clausola risolutiva espressa - mero accertamento della relativa azione - differenze con l'azione ordinaria di risoluzione per inadempimento

L'azione di risoluzione del contratto ex art. 1456 cod. civ. tende ad una pronuncia di mero accertamento dell'avvenuta risoluzione di diritto a seguito dell'inadempimento di una delle parti previsto come determinante per la sorte del rapporto, in conseguenza dell'esplicita dichiarazione dell'altra parte di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa, differendo tale azione da quella ordinaria di risoluzione per inadempimento per colpa ex art. 1453 cod. civ., che ha natura costitutiva. Ne consegue che, in caso di fallimento del locatario, l'effetto risolutivo del contratto (nella specie, di locazione finanziaria) deve ritenersi già verificato ove la volontà di avvalersi della clausola risolutiva espressa sia stata comunicata anteriormente alla data della sentenza di fallimento, spettando il relativo accertamento al giudice delegato in sede di verifica dello stato passivo. (Rigetta, Trib. Lecco, 04/03/2011).

Cass. civ. Sez. I, 18-04-2013, n. 9488 (rv. 626131)

FONTI
CED Cassazione, 2013

Natura sussidiaria dell'azione di arricchimento senza causa - eccezione in senso lato - conseguenze e rilevabilità d'ufficio

La natura sussidiaria dell'azione di arricchimento senza causa costituisce un presupposto della domanda, richiesto dalla legge, pertanto, tale condizione, non integrando un'eccezione in senso stretto, può essere rilevata d'ufficio dal giudice, nei limiti in cui la circostanza risulti da elementi di fatto già acquisiti nel giudizio, ed è proponibile per la prima volta anche nel giudizio di appello, non operando il divieto di "ius novorum" posto dall'art. 345 cod. proc. civ., inapplicabile per le eccezioni rilevabili d'ufficio (Cassa e decide nel merito, App. Venezia, 15/03/2006).

Cass. civ. Sez. I, 18-04-2013, n. 9486 (rv. 626152)

FONTI
CED Cassazione, 2013


Lavoro subordinato - In genere (nozione, differenze dall'appalto e dal rapporto di lavoro autonomo, distinzioni) - Prestazioni di volontariato - C.G.I.L.

Alla stregua di quanto disposto dall'art. 2 della legge 11 agosto 1991, n. 266 (secondo cui "l'attività del volontario non può essere retribuita in alcun modo nemmeno dal beneficiario", ed inoltre "la qualità di volontario è incompatibile con qualsiasi forma di rapporto di lavoro subordinato o autonomo e con ogni altro rapporto di contenuto patrimoniale con l'organizzazione di cui fa parte") non ricorrono gli estremi della prestazione di volontariato nel caso in cui, per l'attività espletata, siano state corrisposte somme di danaro, essendo onere della parte convenuta in giudizio per il riconoscimento dell'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato dimostrare che la loro corresponsione sia avvenuta, invece, a titolo di rimborso spese, non superando l'ammontare di queste. (Nel caso di specie, la S.C. ha ritenuto correttamente motivata la decisione con cui il giudice di merito ha ritenuto che non costituisse attività di volontariato in favore dell'associazione Federconsumatori, bensì prestazione di lavoro subordinato alle dipendenze della C.G.I.L., l'attività espletata presso uno sportello da questa istituito per la tutela dei consumatori, dando rilievo altresì alla circostanza non solo che la predetta associazione è risultata sostanzialmente inesistente, ma soprattutto che la C.G.I.L., oltre a retribuire direttamente la sportellista, aveva interesse per i propri iscritti e simpatizzanti ad attivare un servizio a tutela del consumatore). (Rigetta, App. Genova, 10/01/2008)

Cass. civ. Sez. lavoro, 18-04-2013, n. 9468 (rv. 626552)

FONTI
CED Cassazione, 2013


Capacità di agire - amministrazione di sostegno - competenza territoriale

In tema di amministrazione di sostegno, la competenza territoriale si radica con riferimento alla dimora abituale del beneficiario e non alla sua residenza, in considerazione della necessità che egli interloquisca con il giudice tutelare, il quale deve tener conto, nella maniera più efficace e diretta, dei suoi bisogni e richieste, anche successivamente alla nomina dell'amministratore; né opera, in tal caso, il principio della "perpetuatio iurisdictionis", trattandosi di giurisdizione volontaria non contenziosa, onde rileva la competenza del giudice nel momento in cui debbono essere adottati determinati provvedimenti sulla base di una serie di sopravvenienze.

Cass. civ. Sez. VI - 1 Ordinanza, 17-04-2013, n. 9389 (rv. 626074)

FONTI
CED Cassazione, 2013


Scioglimento di comunioni - preclusioni del processo civile

Il giudizio di scioglimento di comunioni non è del tutto compatibile con le scansioni e le preclusioni che disciplinano il processo in generale, intraprendendo i singoli condividenti le loro strategie difensive anche all'esito delle richieste e dei comportamenti assunti dalle altre parti con riferimento al progetto di divisione ed acquisendo rilievo gli eventuali sopravvenuti atti negoziali traslativi, che modifichino il numero e l'entità delle quote; ne deriva il diritto delle parti del giudizio divisorio di mutare, anche in sede di appello, le proprie conclusioni e richiedere per la prima volta l'attribuzione, per intero o congiunta, del compendio immobiliare, integrando tale istanza una mera modalità di attuazione della divisione. (Rigetta, App. Bolzano, 14/09/2006)

Cass. civ. Sez. II, 17-04-2013, n. 9367 (rv. 625724)

FONTI
CED Cassazione, 2013


AGENZIA (CONTRATTO DI) - Scioglimento del contratto - indennità di cessazione del rapporto - art. 1751, V comma, cod. civ.

In tema di agenzia, l'art. 1751 cod. civ., la cui attuale formulazione deriva dall'art. 4 del d.lgs. 10 settembre 1991, n. 303 (attuativo della direttiva 86/653/CEE del 18 dicembre 1986), e quindi dall'art. 5 del d.lgs. 15 febbraio 1999, n. 65, prevede, al quinto comma, l'ipotesi della decadenza dell'agente dal diritto all'indennità di cessazione del rapporto: tale disciplina prevale su quella di cui all'accordo economico collettivo del 20 giugno 1956, recepito dal d.P.R. 16 gennaio 1961, n. 145, che tale decadenza non contempla, prevalendo la disciplina legale successiva sulla pregressa disciplina contrattuale, pur resa efficace "erga omnes". (Rigetta, App. Firenze, 29/04/2008)

Cass. civ. Sez. lavoro, 17-04-2013, n. 9348 (rv. 626806)

FONTI
CED Cassazione, 2013


Concessione edilizia - In genere - rilascio della concessione

La convenzione, stipulata tra comune e privato costruttore, con la quale questi, al fine di conseguire il rilascio di una concessione o di una licenza edilizia, si obblighi ad un "facere" o a determinati adempimenti nei confronti dell'ente pubblico non costituisce un atto di diritto privato, né ha specifica autonomia e natura di fonte negoziale del regolamento di contrapposti interessi delle parti stipulanti, avendo invece connotazione pubblicistica e configurandosi come accordo endoprocedimentale dal contenuto vincolante quale mezzo rivolto al fine di conseguire l'autorizzazione edilizia. (Nella specie, il rilascio di una licenza edilizia per la costruzione di altro fabbricato ad uso abitativo del privato era condizionato al fatto che si provvedesse ad una cessione gratuita di un altro contesto immobiliare). (Rigetta, App. Palermo, 02/10/2006)

Cass. civ. Sez. I, 17-04-2013, n. 9314 (rv. 626114)

FONTI
CED Cassazione, 2013


SANZIONI AMMINISTRATIVE - Principi comuni - Sanzione amministrativa - Entità: limite massimo e minimo

In tema di sanzioni amministrative pecuniarie, ove la norma indichi un minimo e un massimo della sanzione, spetta al potere discrezionale del giudice determinarne l'entità entro tali limiti, allo scopo di commisurarla alla gravità del fatto concreto, globalmente desunta dai suoi elementi oggettivi e soggettivi. Peraltro, il giudice non è tenuto a specificare nella sentenza i criteri adottati nel procedere a detta determinazione, né la Corte di cassazione può censurare la statuizione adottata ove tali limiti siano stati rispettati e dal complesso della motivazione risulti che quella valutazione è stata compiuta. (Rigetta, Comm. Trib. Reg. Bari, 11/11/2009)

Cass. civ. Sez. V, 17-04-2013, n. 9255 (rv. 626333)

FONTI
CED Cassazione, 2013


Giurisdizione ordinaria e amministrativa - Impiego pubblico - In genere - Domanda di risarcimento danni per lesione dell'integrità psico-fisica proposta da pubblico dipendente

Ove il pubblico dipendente proponga, nei confronti dell'amministrazione datrice di lavoro, domanda di risarcimento danni per lesione dell'integrità psico-fisica, non rileva, ai fini dell'accertamento della natura giuridica dell'azione di responsabilità proposta, la qualificazione formale data dal danneggiato in termini di responsabilità contrattuale o extracontrattuale, ovvero mediante il richiamo di norme di legge (artt. 2043 e ss., 2087 cod. civ.), in quanto invece è necessario considerare i tratti propri dell'elemento materiale dell'illecito posto a base della pretesa risarcitoria, onde stabilire se sia stata denunciata una condotta dell'amministrazione la cui idoneità lesiva possa esplicarsi, indifferentemente, nei confronti della generalità dei cittadini e nei confronti dei propri dipendenti, costituendo, in tal caso, il rapporto di lavoro mera occasione dell'evento dannoso; oppure se la condotta lesiva dell'amministrazione presenti caratteri tali da escluderne qualsiasi incidenza nella sfera giuridica di soggetti ad essa non legati da rapporto d'impiego e le sia imputata la violazione di specifici obblighi di protezione dei lavoratori (art. 2087 cod. civ.), nel qual caso la responsabilità ha natura contrattuale. (Rigetta, App. Napoli, 15/05/2006)

Cass. civ. Sez. III, 17-04-2013, n. 9240 (rv. 626040)

FONTI
CED Cassazione, 2013


RESPONSABILITÀ CIVILE - Stato di necessità

Non costituisce domanda nuova, ai fini di cui all'art. 345 cod. proc. civ., la proposizione per la prima volta in appello della domanda di corresponsione dell'indennizzo ex art. 2045 cod. civ., quando l'appellante abbia proposto in primo grado domanda di risarcimento del danno, dovendo la prima ritenersi implicita nella seconda, tanto che il giudice può provvedere su di essa persino "ex officio". (Cassa con rinvio, Trib. Ravenna, 08/11/2006)

Cass. civ. Sez. III, 17-04-2013, n. 9239 (rv. 626001)

FONTI
CED Cassazione, 2013



Conservazione della garanzia patrimoniale - Surrogatoria - Condizioni e presupposti

L'azione surrogatoria di cui all'art. 2900 cod. civ. non può essere esercitata, per la prima volta, attraverso la proposizione del ricorso per cassazione "omisso medio" (senza, cioè, avere esercitato la medesima azione nella precedente sede di appello, ovvero avendola ivi erroneamente esercitata), non presentando essa caratteri morfologici meramente "rappresentativi" - tali, cioè, da consentire al soggetto in surroga di inserirsi nel processo in forza di un sottostante rapporto, del tutto indifferente per il terzo cui la domanda è rivolta - bensì connotandosi come attuazione di un potere, il cui accertamento processuale è compito del giudice e presuppone una indagine di fatto non compresa nei limiti del giudizio di legittimità (non mutati, "in parte qua", per effetto della modifica dell'art. 384 cod. proc. civ., impugnativa di tipo "straordinario" ad effetto devolutivo limitato, che non dà luogo ad una nuova valutazione del merito della causa, ma alla sola revisione della conformità alla legge (sostanziale o processuale) dell'attività giurisdizionale esercitata e dell'esattezza della pronuncia in diritto resa con la sentenza. (Rigetta, App. Napoli, 18/12/2008)

Cass. civ. Sez. III, 17-04-2013, n. 9233 (rv. 626118)

FONTI
CED Cassazione, 2013