12 agosto 2013

La democratizzazione dell’esercizio della funzione giudiziaria: l'esempio di Dante Troisi

Dante Troisi, giudice a Cassino e scrittore di talento, [fu] autore di un racconto lungo, "diario di un giudice", pubblicato nel 1955 da Einaudi e considerato unanimemente dalla critica un "avvenimento" letterario. Il libro, di trasparente ispirazione autobiografica, descriveva con dolente e accorata rudezza giustizia e giudici e suscitò l’ammirazione di Piero Calamandrei che dedicò al suo autore il commento: «se il conformismo l’avesse già vinto, se l’attesa della promozione avesse già fatto tacere nel suo cuore le invocazioni e le invettive degli umili sacrificati, queste pagine non sarebbero state scritte». Ma l’istituzione reagì con un procedimento disciplinare conclusosi, inutile dirlo, con l’applicazione a Troisi della sanzione della censura essendo «impossibile negare -così la sentenza 22 novembre 1957 della Corte disciplinare di Roma- che la rappresentazione dei giudici come avidi di carriera, privi di responsabilità, infastiditi di dover giudicare per uno stipendio non soddisfacente produca nel lettore un senso di sfiducia nell’ordine giudiziario» (La vicenda disciplinare di Dante Troisi è ricostruita con ampiezza di documenti in "Un Caso esemplare: Dante Troisi" , in Qualegiustizia, 1977, n. 38-39, pp. 216 ss.) [cfr. "Appunti per una storia di magistratura democratica", di Livio Pepino, pag. 12, nota 50]

Della distinzione fra norme costituzionali programmatiche (meri programmi per il legislatore ordinario insuscettibili di applicazione diretta) e norme precettive

«Con tale operazione giurisprudenziale la Cassazione [nell'immediato dopoguerra] ha anzitutto realizzato una manipolazione ideologica: rimandando l’operatività delle cosiddette norme programmatiche (vale a dire dei più alti princìpi in tema di libertà) al futuro intervento di specificazione da parte del legislatore ordinario, si accreditava l’idea che esse rappresentassero, di per sé sole, una sorta di ‘libro dei sogni’, e che la legge ordinaria fosse la vera fonte di regolamentazione dei rapporti giuridici, il che equivaleva ad infrangere il primato della Costituzione che è l’essenza stessa del nostro ordinamento» (così G. Borrè, cfr. cit. in "Appunti per una storia di magistratura democratica, di Livio Pepino, pag. 7, nota 25).

Il vecchio conformismo dei giudici

Un esempio del rapporto tra magistrati togati delle Corti di merito e i giudici della Suprema Corte di Cassazione, può "trovarsi nella vicenda dell’aggiunto giudiziario De Fina. Il 28 novembre 1950 il Tribunale di Trento decise una complessa questione di diritto tavolare con una sentenza (estensore l’aggiunto giudiziario Silvio De Fina) difforme dall’ indirizzo della Cassazione. La sentenza, ampiamente motivata, venne pubblicata sul "Foro Italiano" e non sfuggì a un autorevole presidente di sezione della Corte, Giovanni Brunelli, che inviò alla stessa rivista un lungo articolo in cui ribadiva l’orientamento del giudice di legittimità e non risparmiava rimbrotti e offese all’incauto De Fina. Il giovane aggiunto replicò -sempre sul "Foro Italiano"- sviluppando la tesi esposta in sentenza e respingendo, con fermezza e ironia, i rimbrotti presidenziali. A questo punto il Brunelli sbottò: «Un magistrato inferiore, adunque, perde il controllo e l’equilibrio ed allontana i consigli che vari superiori danno sin dall’inizio a lui, collega giovane ed inesperto; sfida imperterrito un magistrato anziano della Cassazione a rispondergli, dopo averlo offeso» (sic!). Il seguito fu la condanna disciplinare del De Fina, la cui tesi in diritto -sia detto per inciso- era espressamente condivisa da studiosi come V. Andrioli e A. Scialoia!" (cfr. "Appunti per una storia di magistratura democratica, di Livio Pepino, pag. 6, nota n. 20).