11 marzo 2013

Condanna della parte soccombente al pagamento delle spese processuali in favore di terzi convenuti in giudizio pur in assenza di alcuna domanda formulata nei confronti degli stessi chiamati


Il motivo si conclude con il seguente quesito di diritto: La condanna della parte soccombente al pagamento delle spese processuali in favore di terzi convenuti in giudizio pur in assenza di alcuna domanda formulata nei confronti degli stessi chiamati comporta la violazione dell'art. 91 c.p.c., e segg., in combinato disposto con l'art. 112 c.p.c..

La censura è infondata, avendo la corte territoriale fatto buongoverno dei principi dettati, sul tema della chiamata in garanzia, in materia di spese processuali, applicando alla fattispecie i principi di diritto di cui all'orientamento espresso da Cass. 12235/2003 (a mente della quale il rimborso delle spese processuali sostenute da chi sia stato chiamato in garanzia dal convenuto, legittimamente viene posto a carico dell'attore, ove questi risulti soccombente nei confronti del convenuto in ordine a quella pretesa che ha provocato e giustificato la chiamata in garanzia), cui il collegio intende dare continuità - non condividendosi, in argomento, il diverso principio espresso da Cass. n. 10023 del 2004, peraltro predicativa di un principio parzialmente diverso.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 08-01-2013, n. 192


Effetto devolutivo dell'appello e il giudicato interno formatosi su capi autonomi della sentenza


E' orientamento stabile di questa Corte quello per cui "l'effetto devolutivo dell'appello entro i limiti dei motivi d'impugnazione preclude al giudice del gravame esclusivamente di estendere le sue statuizioni a punti che non siano compresi, neanche implicitamente, nel tema del dibattito esposto nei motivi d'impugnazione, mentre non viola il principio del tantum devolutimi quantum appellatum il giudice di appello che fondi la decisione su ragioni che, pur non specificamente fatte valere dall'appellante, tuttavia appaiano, nell'ambito della censura proposta, in rapporto di diretta connessione con quelle espressamente dedotte nei motivi stessi, costituendone necessario antecedente logico e giuridico. Nel giudizio d'appello, infatti, il giudice può riesaminare l'intera vicenda nel complesso dei suoi aspetti, purchè tale indagine non travalichi i margini della richiesta, coinvolgendo punti decisivi della statuizione impugnata suscettibili di acquisire forza di giudicato interno in assenza di contestazione, e decidere, con pronunzia che ha natura ed effetto sostitutivo di quella gravata, anche sulla base di ragioni diverse da quelle svolte nei motivi d'impugnazione" (Cass., 10 febbraio 2006, n. 2973).

A tal riguardo, occorre rammentare che il giudicato interno si forma solo su capi autonomi della sentenza, che risolvano questioni aventi una propria individualità e autonomia, tali da integrare una decisione del tutto indipendente (Cass., 23 agosto 2007, n. 17935).

Più in particolare, la statuizione minima suscettibile di rimanere coperta dal giudicato interno è "quella avente ad oggetto congiuntamente le decisioni sull'esistenza di un fatto, l'esistenza di una norma, e l'esistenza degli effetti da questa associati al fatto.... Le questioni il cui esame può essere precluso dal giudicato interno non sono, cioè, costituite dai singoli quesiti su fatto, norma ed effetto che ogni domanda ed ogni eccezione pongono al giudice, ma dalla loro congiunzione" (Cass., 29 ottobre 1998, n. 10832, in motivazione).

In altri termini, è il rapporto giuridico o la fattispecie sui quali si controverte che sono suscettibili di passare in cosa giudicata e non già elementi frazionati di essi.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 10-01-2013, n. 484

10 marzo 2013

La responsabilità precontrattuale della P.A.


La giurisprudenza più recente di questa Corte (v., in particolare, Cass. n. 6526 del 2012; Cass. 5 agosto 2004, n. 15040 e, più recentemente, Cass. 8 ottobre 2008, n. 24795, sulla scorta dell'impostazione riconducibile a Cass., S.U., 19 dicembre 2007, n. 26725) ha ulteriormente precisato che la regola posta dall'art. 1337 cod. civ. non si riferisce alla sola ipotesi della rottura ingiustificata delle trattative ma ha valore di clausola generale, il cui contenuto non può essere predeterminato in modo preciso ed implica il dovere, per le parti, di trattare in modo leale, astenendosi da comportamenti maliziosi o reticenti e fornendo alla controparte ogni dato rilevante, conosciuto o conoscibile con l'ordinaria diligenza, ai fini della stipulazione del contratto. La violazione di questa aggiuntiva regola di condotta alla quale devono conformarsi le parti di una trattativa negoziale è, quindi, idonea a determinare (se accertata adeguatamente in fatto in virtù di un congruo e logico percorso argomentativo spettante al giudice del merito) la configurazione di una responsabilità precontrattuale indipendente rispetto a quella riconducibile ai canoni fissati dalla pregressa giurisprudenza di legittimità in materia di recesso dalle trattative, avuto riguardo al loro stadio evolutivo.

Con particolare riferimento all'attività negoziale della P.A., si è poi chiarito che "la responsabilità precontrattuale della P.A. è configurabile in tutti i casi in cui l'ente pubblico, nelle trattative con i terzi, abbia compiuto azioni o sia incorso in omissioni contrastanti con i principi della correttezza e della buona fede, alla cui puntuale osservanza anch'esso è tenuto, nell'ambito del rispetto dei doveri primari garantiti dall'art. 2043 cod. civ.; in particolare, se non è configurabile una responsabilità precontrattuale, per violazione del dovere di correttezza di cui all'art. 1337 cod. civ. rispetto al procedimento amministrativo strumentale alla scelta del contraente, essa è configurabile con riguardo alla fase successiva alla scelta, in cui il recesso dalle trattative dell'ente è sindacabile sotto il profilo della violazione del dovere del neminem laedere, ove sia venuto meno ai doveri di buona fede, correttezza, lealtà e diligenza, in rapporto anche all'affidamento ingenerato nel privato circa il perfezionamento del contratto. Spetta al giudice di merito accertare se il comportamento della P.A. abbia ingenerato nei terzi, anche per mera colpa, un ragionevole affidamento in ordine alla conclusione del contratto (Cass. n. 12313 del 2005).

Cass. civ. Sez. II, Sent., 10-01-2013, n. 477


Responsabilità civile per la circolazione dei veicoli


Non sussistono i lamentati vizi e la sentenza resiste alle censure mosse: la decisione impugnata è in armonia con il consolidato principio, secondo cui, in tema di assicurazione della responsabilità civile per la circolazione dei veicoli, la clausola di polizza che condizioni la garanzia assicurativa alla circostanza che il conducente sia munito di valida patente implica la non operatività della garanzia stessa tutte le volte che non ricorra detta circostanza (v. Cass. n. 23741/2009; 12270/2009; 15174/2003; 7035/1999; 8824/1995; v. anche Cass. n. 19657/2005).

Cass. civ. Sez. VI - 3, Ord., 09-01-2013, n. 373


Comunicazione eseguita a mezzo telefax e presunzione di regolare invio


Il primo motivo è inammissibile nella parte in cui formula censure in fatto in contrasto con l'accertamento del giudice di merito secondo il quale è risultato documentalmente provato che l'attore avesse inviato alla ricorrente, in data 24.10.2008, un fax "contenente la richiesta di accesso ai propri dati personali". Nel resto la censura è infondata. Invero, sebbene in relazione ad altra materia, questa Sezione ha affermato il principio per il quale "in presenza di una comunicazione di cancelleria eseguita a mezzo telefax, ai sensi dell'art. 136 c.p.c., comma 3, l'attestato del cancelliere, da cui risulti che il messaggio è stato trasmesso con successo al numero di fax corrispondente a quello del destinatario, è sufficiente a far considerare la comunicazione avvenuta, salvo che il destinatario fornisca elementi idonei a fornire la prova del mancato o incompleto ricevimento" (Sez. 1, Sentenza n. 5168 del 30/03/2012). Con la pronuncia ora richiamata la S.C. ha chiarito, quanto "al dubbio che detto sistema di trasmissione non garantisca a sufficienza l'effettivo ricevimento dell'atto comunicato", che, "una volta dimostrato l'avvenuto inoltro del documento a mezzo telefax al numero corrispondente a quello del destinatario, è perfettamente logico presumere che detta trasmissione sia effettivamente avvenuta e che il destinatario abbia perciò avuto modo di acquisire piena conoscenza di quanto comunicatogli. Sarà suo onere, allora, dedurre e dimostrare l'esistenza di elementi idonei a confutare l'avvenuta ricezione, non bastando certo a tal fine che egli si limiti a negarla" (Sez. 1, Sentenza n. 5168 del 30/03/2012).

Cass. civ. Sez. I, Sent., 09-01-2013, n. 349


Restituzione della merce per vizi e obblighi del venditore


La ricorrente sostiene la singolare tesi per la quale, ricevuta in restituzione la merce dal compratore che lamenta vizi, esclusa la sussistenza di vizi e la risoluzione del contratto, legittimamente avrebbe trattenuto sia la merce che il prezzo, non essendo neppure tenuta nei limiti dell'arricchimento. Il motivo di ricorso è sotto ogni profilo infondato. La traditio, che costituisce il presupposto dell'obbligo di restituzione di cui all'art. 2037 c.c. sussiste in quanto S. ha ricevuto una cosa altrui (la proprietà della cosa, nella vendita da piazza a piazza si trasferisce al compratore con la consegna al vettore) ricevendola dal compratore.

Accettando volontariamente la riconsegna della merce (alla quale ben poteva sottrarsi, così come poteva sottrarsi alle connesse responsabilità con il deposito ex art. 1210 c.c.), l'odierna ricorrente accettava anche la responsabilità derivante dal ricevere cose che, come accertato con la sentenza che ha negato la risoluzione del contratto, non doveva ricevere in quanto erano di proprietà del compratore. Pertanto al quesito occorre rispondere:

che il comportamento dell'acquirente che ha nel restituito e nel rifiutato la riconsegna della merce non è ostativo ostativo alla tutela ex art. 2033 c.c. (rectius art. 2037 c.c.);

che sulla parte venditrice ancorchè si sia adoperata per la riconsegnata alla parte acquirente e questa la deneghi, grava un obbligo di consegna e/o custodia nel caso in cui riceva in restituzione la merce e non si liberi dell'obbligo di consegna mediante il deposito di cui all'art. 1210 c.c. o attraverso la procedura di vendita di cui all'art. 1211 c.c.

[...]

La buona fede o la mala fede nell'ambito della domanda ex art. 2037 c.c., incidono esclusivamente sul limite della responsabilità (che viene contenuta nel limite dell'arricchimento) dell'accipiens in caso di perimento o deterioramento della cosa, così che, chiesta l'affermazione della piena responsabilità per mala fede, ben può il giudice escludere la mala fede e non è precluso al giudice, che escluda la mala fede, riconoscere la minore responsabilità di cui al terzo comma dello stesso art. 2037 c.c..

Cass. civ. Sez. II, Sent., 08-01-2013, n. 267


Stato di adottabilità di un minore e le relazioni degli assistenti sociali e degli psicologi


...nel procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità di un minore, le relazioni degli assistenti sociali e degli psicologi, ancorchè non asseverata da giuramento, costituiscono, nel quadro dei rapporti informativi, degli accertamenti e delle indagini da compiere in via sommaria secondo il rito camerale, indizi sui quali il giudice può fondare il suo convincimento e la cui valutazione non comporta violazione dei diritti di difesa dei genitori, atteso che questi ultimi, nel successivo giudizio di opposizione alla dichiarazione di adottabilità, hanno il diritto di prendere cognizione di dette relazioni, nonchè di controdedurre e di offrire prova contraria (Cass. 26 giugno 1990, n. 6494)

Cass. civ. Sez. VI - 1, Ord., 08-01-2013, n. 232


Interessi di mora e corrispettivi, divieto di cumulo


Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta violazione dell'art. 1283 c.c., nonchè vizio di motivazione, in ordine agli interessi moratori, in particolare sulla loro decorrenza a far data dall'11/1/1991.

Va richiamato l'orientamento consolidato di questa Corte in ordine al divieto di cumulare gli interessi di mora e corrispettivi, in quanto, ai sensi dell'art. 1283 c.c., gli interessi possono produrre interessi soltanto dalla domanda giudiziale o in base a convenzione posteriore alla loro scadenza (tra le altre, Cass. n. 9695/2011).

E' vero che correttamente il Giudice a quo ha rilevato come tali interessi di mora non siano dovuti sull'intero importo delle rate scadute e non pagate, comprensive di capitale ed interessi corrispettivi, onde evitare l'anatocismo, ma contraddittoriamente condanna l'odierno ricorrente al pagamento degli interessi moratori, ancorchè sulla sola somma capitale, relativa alle rate scadute, con decorrenza dall'11-11-1991, senza dare giustificazione alcuna dì tale data.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 08-01-2013, n. 222


Accessorietà del negozio fideiussorio e competenza per territorio


L'obbligazione del fideiussore deriva la propria validità ed efficacia dall'obbligazione principale (art. 1939 cod. civ.) e non può eccedere ciò che è dovuto dal debitore, nè può essere prestata a condizioni più onerose di quelle del contratto che ha ad oggetto il rapporto principale, estendendosi tuttavia a tutti gli accessori del debito garantito. Uno degli elementi di tipicità del contratto di fideiussione consiste, di conseguenza, nella mancanza di autonomia dell'obbligazione di garanzia assunta mediante questo modello legale e nell'inscindibilità del legame con l'obbligazione principale, sotto i profili, già evidenziati, della vigenza e validità del vincolo, dell'omogeneità del regime negoziale e legale (le eccezioni opponibili dal debitore principale al creditore garantito, sono estese al fideiussore ai sensi dell'art. 1945 cod. civ.), della coincidenza dell'oggetto, anche se ai sensi del novellato art. 1938 cod. civ., con l'indicazione dell'importo massimo garantito. La mancanza di autonomia costituisce, infatti, l'elemento che distingue il negozio fideiussorio, assoggettato al regime legale tipico, previsto dalle norme codicistiche, dal contratto autonomo di garanzia che invece rientra nell'ambito di applicazione dell'art. 1322 c.c., comma 2, (S.U. n. 3947 del 2010) e che si caratterizza per la legittimità dell'escussione della garanzia, senza la preventiva valutazione della validità e vigenza del rapporto principale. Ne consegue che l'accessorietà costituisce non solo uno degli elementi tipici del contratto fideiussorio ma anche il carattere distintivo di questo negozio rispetto a nuove forme contrattuali, fondate sull'autonomia e la tendenziale impermeabilità del rapporto di garanzia con quello principale.

Tale carattere tipico dell'accessorietà, trasferito sul piano processuale, costituisce uno dei criteri derogativi delle regole generali in tema di competenza per territorio nei rapporti obbligatori, favorendo il legislatore in tale ipotesi la soluzione del simultaneus processus. (art. 31 cod. proc. civ.). La regola, generalmente applicabile per ogni obbligazione di natura accessoria (interessi, maggior danno ex art. 1224 cod. civ. etc;) ha una peculiare ragion d'essere nell'obbligazione fideiussoria che deriva la propria vincolatività ed efficacia dal rapporto principale. La giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto espressamente il rilievo dell'accessorietà nell'obbligazione fideiussoria proprio al fine di riconoscere la connessione tra la causa relativa al rapporto principale e quella riguardante il contratto di garanzia, allo specifico fine di individuare un unico foro per entrambe.

L'orientamento sopraindicato si è affermato prevalentemente in controversie caratterizzate dal quesito relativo all'applicabilità della tutela consumeristica al contratto di fideiussione a partire dalla previsione cogente del foro inderogabile del consumatore (Cass. 10127 del 2001; 10107 del 2005; 13643 del 2006; e con riferimento in generale all'applicabilità della tutela consumeristica, Cass. 25212 del 2011). La Corte ha costantemente stabilito che la prevalenza del foro del consumatore nel rapporto di garanzia rispetto a quello convenzionalmente stabilito nel contratto di fideiussione, dipende dalla qualità soggettiva del contraente garantito nel rapporto principale, proprio in virtù del nesso inscindibile tra i due rapporti e a causa della accessorietà e mancanza di autonomia dell'obbligazione fideiussoria, così superando una delle ragioni d'inapplicabilità sostenute nel provvedimento impugnato, ovvero quella relativa alla non operatività dei criteri derogativi della competenza previsti agli artt. 31 e 33 cod. proc. civ., nell'ipotesi del foro convenzionalmente stabilito. Attraverso il rilievo primario dell'accessorietà è facilmente superabile, quanto meno nell'ambito del rapporto fideiussorio, il risalente orientamento di legittimità che richiedeva per l'applicazione delle norme derogative degli ordinari criteri della competenza, ai sensi dell'art. 31 e 33 cod. proc. civ., l'identità dei soggetti processuali, (Cass. 2614 del 1962; 3496 del 1983; 9158 del 1987, le ultime due, però, riguardanti il rapporto tra sezione specializzata e tribunale ordinario e non la deroga dei criteri ordinari di determinazione della competenza territoriale). Peraltro, deve essere sottolineato che nella specie, la norma derogativa della competenza applicabile è l'art. 31 cod. proc. civ. e non l'art. 33 cod. proc. civ., in quanto il vincolo di accessorietà si pone in relazione di specialità rispetto al genus della connessione per oggetto e titolo regolata dall'art. 33 cod. proc. civ.. Infine, gli effetti dell'accessorietà, sull'adozione di un unico foro che garantisca il simultaneus processus per il rapporto principale e quello fideiussorio, sono stati evidenziati nella giurisprudenza di legittimità anche in ordine a controversie non caratterizzate dalla richiesta di applicazione del foro del consumatore. Nell'ordinanza n. 4757 del 2005, in una fattispecie del tutto omologa a quella dedotta nel presente giudizio, la Corte ha stabilito che in tema di competenza per territorio il foro convenzionalmente stabilito dalle parti nel contratto principale (di leasing) si applica anche al contratto di fideiussione, "atteso che lo stretto legame esistente con l'obbligazione principale ed il rischio che, in caso di separazione dei giudizi, si formino due diversi giudicati in relazione ad un giudizio sostanzialmente unico". - Deve, pertanto, concludersi dichiarando la competenza del Tribunale di Ravenna anche per l'obbligazione fideiussoria, non rilevando la mancata espressa sottoscrizione della clausola di determinazione convenzionale della competenza contenuta nel contratto principale da parte del fideiussore, essendo risolutivo il nesso inscindibile tra i due contratti dovuto alla natura accessoria e non autonoma dell'obbligazione fideiussoria.

Cass. civ. Sez. VI - 1, Ord., 07-01-2013, n. 180


Detenzione qualificata e detenzione non qualificata


In tal modo, essa si è uniformata alla giurisprudenza di questa Corte, che distingue tra detenzione nell'interesse proprio del detentore (detenzione qualificata), in forza di un rapporto contrattuale anche atipico, e detenzione nell'interesse del possessore (detenzione non qualificata, quale quella del mandatario o del gestore), riconoscendo al detentore qualificato la legittimazione alla proposizione dell'azione di reintegra verso i terzi ed anche verso il possessore (v. Cass. 20-5-2008 n. 12751; Cass. 22-7-2002 n. 10676; Cass. 29-5-1998 n. 5314), ed al detentore non qualificato la legittimazione all'azione di reintegra verso i terzi, ma non verso il possessore (Cass. 22-7-2002 n. 10676; Cass. 29-10-1974 n. 3276).

Cass. civ. Sez. II, Sent., 04-01-2013, n. 99


Onere della prova in materia di risoluzione dei contratti a prestazioni corrispettive


Correttamente sono stati dai Giudici applicati alla specie i principi elaborati dalla Suprema Corte sulla ripartizione dell'onere della prova in materia di risoluzione dei contratti a prestazioni corrispettive, secondo cui in tema di prova dell'inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l'adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall'avvenuto adempimento, ed eguale criterio di riparto dell'onere della prova deve ritenersi applicabile al caso in cui il debitore convenuto per l'adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno si avvalga dell'eccezione di inadempimento ai sensi dell'art. 1460 cod. civ. (risultando, in tal caso, invertiti i ruoli delle parti in lite, poichè il debitore eccipiente si limiterà ad allegare l'altrui inadempimento, ed il creditore agente dovrà dimostrare il proprio adempimento, ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell'obbligazione). Ed invero non vi è alcuna ragione per non applicare il principio in materia di appalto (cfr. Cass. 936/2010) mentre il regine dell'onere della prova, che è informato al principio della vicinanza della prova, non può subire eccezioni con riferimento all'oggetto e alla complessità delle prestazioni poste a carico dell'appaltatore tanto più che questi dovrebbe essere in possesso della documentazione relativa alla contabilità dei lavori eseguiti.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 04-01-2013, n. 98


Spoglio e azione del detentore: feci, sed iure feci


La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione dei principi in tema di reintegra posto che in sede di azione di reintegrazione è tutelabile anche solo la situazione di fatto, indipendentemente dalla prova che spetti un diritto, da parte di chi è privato violentemente od occultamente della disponibilità del bene.

La relativa legittimazione attiva spetta non solo al possessore uti dominus ma anche al detentore nei confronti dello spoliator che sia titolare del diritto e tenti di difendersi opponendo che "feci sed iure feci".

Nella specie, le stesse ammissioni del ricorrente e gli elementi di riscontro soggettivi ed oggettivi emergenti dagli atti, quali i cartelli affissi dal P. espressivi della intenzione di regolamentare il passaggio della sua proprietà e di consentirlo solo sotto apposita sorveglianza, lungi dal giustificare la sua azione, erano lesivi della situazione possessoria dell' A..

A chi invoca la tutela è sufficiente provare una situazione di fatto, protrattasi per un periodo di tempo apprezzabile, un possesso qualsiasi, anche se illegittimo ed abusivo, purchè abbia i caratteri esteriori di un diritto reale (Cass. 1 agosto 2007 n. 16974, 7 ottobre 1991 n. 10470).

Cass. civ. Sez. II, Sent., 04-01-2013, n. 89


La risoluzione del contratto per l'avveramento della condizione risolutiva


Ne consegue che la risoluzione del contratto per l'avveramento della condizione risolutiva non può essere pronunciata d'ufficio, qualora - come nel caso all'esame - nessuna delle parti dichiari di volersene avvalere e, anzi, risulta che le predette abbiano rinunciato ad avvalersene (v., sia pure in tema di clausola risolutiva espressa, Cass. 1 agosto 2007, 16993).

Cass. civ. Sez. II, Sent., 04-01-2013, n. 86


Le spese sostenute per la consulenza tecnica di parte


...le spese sostenute per la consulenza tecnica di parte, la quale ha natura di allegazione difensiva tecnica, rientrano tra quelle che la parte vittoriosa ha diritto di vedersi rimborsate, a meno che il giudice non si avvalga, ai sensi dell'art. 92 c.p.c., comma 1, della facoltà di escluderle dalla ripetizione ritenendole eccessive o superflue (Cass., Sez. Lav., 25 novembre 1975, n. 3946; Cass., Sez. 3, 16 giugno 1990, n. 6956).

Cass. civ. Sez. II, Sent., 03-01-2013, n. 84

Integrità del contraddittorio e opponibilità della sentenza


La disposizione dettata dall'art. 111 cod. proc. civ. non si pone affatto in contrasto con la norma di cui all'art. 13 c.c., comma 3, dal momento che essa stabilisce che, tranne nel caso in cui il trasferimento avvenga a causa di morte, il processo prosegue tra le pari originarie, che il successore può (non deve) intervenire o essere chiamato in giudizio e che la sentenza pronunciata nei confronti del suo dante causa ha effetto anche nei suoi confronti, salve, per quanto qui interessa, le norme sulla trascrizione. Quest'ultima precisazione pone tuttavia una regola che attiene non tanto all'integrità del contraddittorio, quanto alla opponibilità della sentenza. La disposizione di cui all'art. 1113 c.c., comma 3, dettata per il giudizio divisionale avente ad oggetto beni immobili, da parte sua, individua, anche al fine di garantire la continuità delle trascrizioni nei registri immobiliari, nella trascrizione dell'atto di acquisto il momento determinante al fine di stabilire quali soggetti debbano partecipare al giudizio. Le due disposizioni si pongono pertanto, per quanto qui interessa, su due piani diversi, il che impedisce di ravvisare tra esse alcun contrasto. Non si vede, del resto, nè il motivo si spinge ad illustrarne le ragioni, perchè l'applicazione della disposizione invocata dalla ricorrente avrebbe dovuto portare il giudicante a qualificare i nuovi acquirenti come litisconsorzi necessari, dovendo semmai dirsi che essa autorizza proprio la conclusione opposta.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 03-01-2013, n. 78



Delitto di interferenze illecite nella vita privata (art. 615 bis c.p.) nel caso di riprese dell'area condominiale


A quanto precede deva aggiungersi che, secondo il costante orientamento di questa Corte, non sussistono gli estremi atti ad integrare il delitto di interferenze illecite nella vita privata (art. 615 bis c.p.) nel caso in cui un soggetto effettui riprese dell'area condominiale destinata a parcheggio e del relativo ingresso, trattandosi di luoghi destinati all'uso di un numero indeterminato di persone e, pertanto, esclusi dalla tutela di cui all'art. 615 bis c.p., la quale concerne, sia che si tratti di "domicilio", di "privata dimora" o "appartenenze di essi", una particolare relazione del soggetto con l'ambiente in cui egli vive la sua vita privata, in modo da sottrarla ad ingerenze esterne indipendentemente dalla sua presenza (v. Cass., pen., 29 ottobre 2008, n. 44701).

Cass. civ. Sez. II, Sent., 03-01-2013, n. 71


Giudizio petitorio e litisconsorzio dei comproprietari


Questa Corte Suprema ha statuito che, al di fuori dei casi in cui la legge espressamente impone la partecipazione di più soggetti al giudizio instaurato nei confronti di uno di essi, vi è litisconsorzio necessario solo allorquando l'azione tenda alla costituzione o alla modifica di un rapporto plurisoggettivo unico, ovvero all'adempimento di una prestazione inscindibile comune a più soggetti; pertanto non ricorre litisconsorzio necessario allorchè il giudice proceda, in via meramente incidentale, ad accertare una situazione giuridica che riguardi anche un terzo, dal momento che gli effetti di tale accertamento non si estendono a quest'ultimo ma restano limitati alle parti in causa (Cass. 12.4.2011 n. 8379).

In senso conforme circa la necessità di un rapporto unico e di una situazione giuridica inscindibilmente comune a più soggetti (Cass. 13.1.2011 n. 712). Sono state ritenute cause inscindibili quelle nelle quali dopo la morte della parte, nel corso del processo, il giudizio prosegue nei confronti degli eredi (Cass. 25.3.2005 n. 6469, Cass. 14.5.1999 n. 4762 ex multis).

Ciò premesso , vero è che questa Corte (Cass. n. 203/1988) ha escluso il litisconsorzio nei confronti di tutti i soggetti destinatari del provvedimento di reintegra nel successivo giudizio petitorio, ma quando si tratti della demolizione di un'opera appartenente a più comproprietari (Cass. 12.8.1995 n. 8835, Cass. 12.6.1975 n. 2348) ha ritenuto esistere un litisconsorzio necessario.

Più specificamente ha ritenuto sussistere tale ipotesi nel caso dell'abbattimento di una recinzione con paletti in ferro e rete metallica (Cass. 18.2.2010 n. 3933, 11.11.2005 n. 22833).

Cass. civ. Sez. II, Sent., 03-01-2013, n. 66

Il termine di decorrenza dell'efficacia del provvedimento di revoca del gratuito patrocinio


A conclusione del motivo viene formulato il seguente quesito: "Dica la Suprema Corte di Cassazione se, come eccepito dai ricorrenti con il presente ricorso, gli effetti giuridici coevi all'accertamento delle modificazioni reddituali, cui inerisce il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 136 al fine di individuare il termine di decorrenza dell'efficacia del provvedimento di revoca del gratuito patrocinio, decorrono dalla scadenza del termine per provvedere all'adempimento della dichiarazione dell'I.R.P.E.F. nell'anno successivo a quello di imposta in cui il reddito è maturato ovvero, come rileva il Tribunale remittente, nell'anno di imposta medesimo, precisando il preciso momento temporale da cui essi si producono".

Premessa la idoneità del quesito di diritto a rappresentare una alternativa alla opzione interpretativa recepita dalla sentenza impugnata consistente nel ritenere un differente termine di decorrenza dell'efficacia del provvedimento di revoca del gratuito patrocinio, i ricorso è tuttavia infondato perché la lettura che il ricorrente propone del D.P.R. n. 115 del 2002 non trova riscontro testuale nella norma contenuta nel D.P.R. n. 115 del 2002, art. 136, comma 3, secondo cui la revoca del decreto di ammissione ha effetto dal momento dell'accertamento delle modificazioni reddituali indicato nel provvedimento di revoca e in tutti gli altri casi ha efficacia retroattiva. A sua volta il D.P.R. n. 115 del 2002, sempre nell'art. 36, nel prevedere che lo Stato ha, in ogni caso, diritto di recuperare in danno dell'interessato le somme eventualmente pagate successivamente alla revoca del provvedimento di ammissione, non pone alcuna distinzione di regime fra patrocinato e patrocinatore. Deve pertanto ritenersi che la revoca ha come effetto quello di ripristinare retroattivamente l'obbligo della parte assistita in giudizio di sopportare personalmente le spese della sua difesa (restando immutato il rapporto di rappresentanza e difesa nel processo che si fonda sulla designazione del difensore da parte del soggetto precedentemente ammesso al patrocinio a spese dello Stato: così Cass. 5 marzo 2010 n. 5364) (v. nel senso di cui sopra, Cass. 11 novembre 2011 n. 23635).

Cass. civ. Sez. II, Sent., 03-01-2013, n. 65


Condominio - destinazione funzionale di parti comuni


La ratio decidendi della sentenza impugnata va quindi ravvisata nella accertata destinazione dei tratti di fogna ubicati nei giardini di proprietà degli intimati a servizio dell'intero edificio condominiale; i detti tratti di fognatura, quindi, al pari dell'intero reticolo di tubazioni e fognature a servizio dell'edificio condominiale, rientrano tra le cose comuni, in relazione alle quali vigono le regole generali di ripartizione delle spese di manutenzione. Significativamente, la Corte d'appello ha affermato che i tratti di tubazione in questione non possono essere modificati o alterati dai proprietari, atteso che è il complesso della rete posta a servizio dell'edificio ad assicurare la sua funzione. E tale affermazione scaturisce dall'indagine tecnica svolta nel corso del giudizio di primo grado, la quale ha consentito di rilevare che "il regime delle pendenze, la portata delle tubazioni, la dislocazione delle caditoie nonchè dei pozzetti di ispezione e raccolta, la geometria delle diramazioni interrate convergono e concorrono nell'assicurare la funzione di drenaggio protettivo delle strutture fondali del fabbricato, evitando una indiscriminata spinta del terrapieno, conseguente ad una incontrollata imbibizione del terreno, verso il muraglione di contenimento che sostenendo l'intero terrazzamento, vale a garantire la staticità dell'edificio tutto".

Orbene, alla luce di tale accertamento di fatto, deve rilevarsi, da un lato, che entrambi i quesiti di diritto formulati dal Condominio ricorrente non appaiono correttamente impostati, atteso che essi postulano la proprietà esclusiva delle tubazioni collocate nei giardini degli intimati, laddove la Corte d'appello ha invece accertato la natura comune, per la destinazione funzionale, anche di quei tratti di tubazione; dall'altro, che la Corte d'appello ha fatto corretta applicazione del principio di diritto per cui "in tema di condominio negli edifici le parti dell'edificio - muri e tetti (art. 1117 c.c., n. 1) - ovvero le opere ed i manufatti - fognature, canali di scarico e simili (art. 1117 c.c., n. 3) - deputati a preservare l'edificio condominiale dagli agenti atmosferici e dalle infiltrazioni d'acqua, piovana o sotterranea, rientrano, per la loro funzione, fra le cose comuni, le spese per la cui conservazione sono assoggettate alla ripartizione in misura proporzionale al valore delle singole proprietà esclusive ai sensi della prima parte dell'art. 1123 cod. civ., e non rientrano, per contro, fra quelle parti suscettibili di destinazione al servizio dei condomini in misura diversa ovvero al godimento di alcuni condomini e non di altri (art. 1123 c.c., commi 1 e 2)" (Cass. n. 11423 del 1990; Cass. n. 4403 del 1999).

Cass. civ. Sez. II, Sent., 03-01-2013, n. 64



Divorzio


La Corte Costituzionale ha infatti avuto modo di precisare che il diritto all'indissolubilità del vincolo matrimoniale non rientra nel novero di quelli costituzionalmente garantiti (Corte Cost. 73/176, 71/169, C. 96/7990, C. 93/11860), così come il giudice di legittimità ha avuto modo reiteratamente di affermare che nel processo di divorzio non trovano applicazione gli artt. 183, 190 c.p.c., venendo in rilievo la disciplina speciale di cui alla L. n. 898 del 1970, art. 4, e successive modifiche, volta ad accelerare l'accertamento dei presupposti dello scioglimento degli effetti civili del matrimonio (C. 07/20745, C. 07/17965, C. 06/9882, C. 05/16092).

Cass. civ. Sez. I, Sent., 03-01-2013, n. 40