29 settembre 2013

Diffamazione per l’avvocato che accusa di falsità il C.T.U.

Con sentenza in data 17.05.2006 n.3254, il Tribunale di Torino accoglieva la domanda di risarcimento danni proposta dall'arch. O.M. nei confronti dell'avv. B.G. per affermazioni ritenute diffamatorie, contenute nell'istanza di sostituzione di c.t.u., depositata dal suddetto legale in una causa civile in cui l'attore era stato nominato consulente; condannava, quindi, il convenuto al pagamento della somma di Euro 5.000,00 a titolo di danno non patrimoniale, nonchè al rimborso delle spese di lite.

La decisione, gravata da impugnazione dell'avv. B., era confermata dalla Corte di appello di Torino, la quale con sentenza in data 15.01.2009 rigettava l'appello, condannando l'appellante al pagamento delle ulteriori spese.

[...]

Nessuna delle censure formulate con il suddetto motivo merita accoglimento.

Innanzitutto - contrariamente a quanto affermato da parte ricorrente - la motivazione impugnata non è svolta per relationem, avendo la Corte di appello, punto per punto, preso in esame le censure dell'appellante, esprimendo le ragioni della propria motivata condivisione delle valutazioni del primo Giudice, sia in ordine al significato diffamatorio delle espressioni in contestazione, sia con riguardo all'insussistenza delle condizioni di applicabilità dell'esimente di cui all'art. 598 c.p., invocata dall'avv. B., segnatamente evidenziando che:

l'avere qualificato "falsa" la risposta fornita dall'arch. O., nella sua qualità di c.t.u., al giudice della causa in cui l'odierno ricorrente patrocinava le ragioni di un Condominio (laddove il B. affermava: "sta di fatto che, come al solito il c.t.u. non risponde e la risposta è palesemente priva di ogni pregio e falsa") significava attribuire al consulente di aver dolosamente fornito al giudice una risposta che sapeva non corrispondente al vero e, quindi, di avere dato intenzionalmente una risposta non corretta, volendo alterare i dati della realtà, laddove, se del caso, il difensore avrebbe dovuto indirizzare le sue doglianze in altra sede (art. 373 c.p.);

anche l'espressione "sedicente", adoperata dall'avv. B. ("Ritiene il sedicente tecnico che le opere...") travalicava i limiti della difesa e continenza, siccome stava a indicare che il c.t.u. si qualificava tecnico, nella consapevolezza di non esserlo, laddove al contrario lo stesso era iscritto nell'albo dei consulenti, oltre ad essere un architetto;

l'ultima frase in contestazione ("Chi non è in grado di fare il perito, soprattutto per le perizie giudiziali che sono assai delicate per i risvolti che esse necessariamente comportano, dovrebbe lasciare il compito a chi è preparato in merito...."), seppure di più sfumata portata diffamatoria, investiva la professionalità e la capacità dell'arch. O., del tutto gratuitamente, non solo nella singola vertenza, ma in generale; e ciò era particolarmente grave, dal momento che l'avv. B. sosteneva di non avere mai avuto contatti professionali con l'arch. O. e ciononostante ne affermava tout court l'incapacità professionale.

Le valutazioni espresse sono di stretto merito e, come tali, soggiacciono in questa sede a un sindacato che è limitato alla verifica della correttezza giuridica e della coerenza logico - formale delle argomentazioni svolte a sostegno, non essendo consentito al Giudice di legittimità, di procedere ad una nuova valutazione attraverso la disamina autonoma delle emergenze procedimentali.

In punto di diritto si rammenta - in conformità a principi acquisiti nella giurisprudenza di questa Corte - che la speciale esimente contemplata dall'art. 598 c.p., "per offese in scritti o discorsi pronunciati dinanzi alla autorità giudiziaria", con la quale il legislatore ha inteso garantire alle parti del processo la massima libertà nell'esercizio del diritto di difesa, trova applicazione sempre che le offese riguardino in modo diretto ed immediato l'oggetto della controversia e abbiano rilevanza funzionale per le argomentazioni svolte a sostegno della tesi prospettata o per l'accoglimento della domanda proposta (tra le varie cfr. nella giurisprudenza civile Cass. 28 agosto 2007, n. 18207; Cass. 18 maggio 2005, n. 10423 e in quella penale: Cass. 7 febbraio 2008, n. 9071).

In particolare si ritiene che l'esimente non è condizionata dalla necessità delle offese, mentre è necessario il rispetto del criterio della pertinenza, dal momento che la norma ne delimita chiaramente l'estensione, richiedendo che "le offese concernono l'oggetto della causa...". Ne consegue che, per quanto l'esimente si applichi anche alle offese che non concernano momenti decisivi dell'argomentazione, queste devono comunque essere direttamente connesse al tema della causa, con la conseguenza che tali presupposti non ricorrono ove le offese non siano pertinenti e si risolvano in giudizi apodittici sulla persona offesa, senza che sia possibile rilevare inferenze argomentative nella controversia in discussione presso l'Autorità giudiziaria (Cass. pen., 8 gennaio 2005, n. 6495).

Cass. civ. Sez. III, Sent., 21-05-2013, n. 12402



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