30 ottobre 2012

Regolamento di competenza del G.E.: inammissibile.


Deve viceversa condividersi il rilievo di inammissibilità fondato sull'intrinseca improponibilità del regolamento di competenza avverso il provvedimento pronunciato dal giudice dell'esecuzione nell'esercizio dei suoi poteri di gestione dello svolgimento del processo esecutivo.

Deve in proposito ribadirsi l'orientamento ormai consolidato di questa Corte, che il Collegio condivide ed al quale intende dare continuità, secondo cui tale provvedimento, sia esso affermativo o negativo della competenza, deve ricevere il normale trattamento dei provvedimenti del giudice dell'esecuzione ed è, quindi, suscettibile di essere impugnato attraverso il mezzo con cui la parte del processo esecutivo può provocare l'intervento della giurisdizione cognitiva sull'operare del giudice dell'esecuzione, cioè l'opposizione agli atti esecutivi (Cass., 30 agosto 2004, n. 17444; Cass. 23 luglio 2010, n. 17452; Cass., 26 luglio 2011, n. 16292).

A tale conclusione la Corte è pervenuta considerando che "la competenza ai sensi dell'art. 26, non è nient'altro che un requisito che concerne il quomodo dell'esecuzione e che, quindi, il provvedimento che la neghi o l'affermi è provvedimento certamente riconducibile all'ambito dell'art. 617 c.p.c., comma 2. In presenza di un rimedio generale contro i provvedimenti del giudice dell'esecuzione inerenti il quomodo della pretesa esecutiva, una diversa soluzione, che prescinda dal meccanismo dell'attivazione di un controllo tramite un procedimento cognitivo, qual'è l'opposizione agli atti, dovrebbe rinvenire non solo una qualche giustificazione sul piano logico in generale, ma trovarla, inoltre, sul piano dei principi ed all'uopo il ricorso alla categoria generale della c.d. sentenza in senso sostanziale per qualificare come tale il provvedimento adottato dal giudice dell'esecuzione, ai sensi dell'art. 487 c.p.c., quindi, nell'esercizio della giurisdizione esecutiva, si palesa non soltanto privo di alcun appiglio normativo anche indiretto, ma anche del tutto eccentrico rispetto alla regola seguita dal legislatore di ammettere che il controllo sull'esercizio della giurisdizione esecutiva in punto di modalità di svolgimento avvenga tramite l'introduzione di un giudizio cognitivo, quale l'opposizione agli atti".

Cass. civ. VI - 1, Ord., 11-10-2012, n. 17385

La competenza in caso di separazione personale


Deve invero trovare applicazione il principio, già affermato da questa Corte, e recentemente ribadito (Cass., 4 agosto 2011, n. 16957), secondo cui, ai fini dell'individuazione del tribunale competente per territorio sulla domanda di separazione personale dei coniugi, tale luogo deve essere identificato con l'ultima residenza comune dei coniugi, non potendosi ricorrere al foro subordinato della residenza o del domicilio della parte convenuta, sulla base di una applicazione estensiva della sentenza 23 maggio 2008, n. 169 della Corte costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della L. 1 dicembre 1970, n. 898 , art. 4, comma 1 - nel testo sostituito dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, art. 2, comma 3 bis, convertito con emendamenti, in L. 14 maggio 2005, n. 80 - limitatamente alle parole "del luogo dell'ultima residenza comune dei coniugi ovvero in mancanza", per manifesta irragionevolezza, data la normale cessazione della convivenza, secondo "l'id quod plerumque accidit".

Tanto premesso, deve osservarsi che l'esplicito riferimento, nel ricorso in esame, all'abbandono del "tetto coniugale" da parte della moglie induce a ritenere che sia incontestabile nel caso la sussistenza di una casa comune - ubicata nel circondario del Tribunale di Forlì - dei coniugi, ragion per cui non può trovare applicazione il criterio del luogo di residenza o domicilio della parte convenuta, in quanto il riferimento letterale alla mancanza "dell'ultima residenza comune dei coniugi", contenuto nell'art. 706 c.p.c., non lascia dubbi sulla correttezza dell'interpretazione di tale norma recepita nel provvedimento impugnato.

Cass. civ. VI - 1, Ord., 11-10-2012, n. 17382

Provvedimenti diversi dalla sentenze impugnabili in cassazione: presupposti


Benvero, prescindendo dai recenti approdi in materia di overruling (Cass., sez. un., n. 15144 del 2011), deve richiamarsi il principio secondo cui i provvedimenti giurisdizionali emessi in forma diversa dalla sentenza sono impugnabili con il ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell'art. 111 Cost., soltanto quando presentino, per la loro disciplina ed il loro contenuto, i caratteri della definitività e della decisorietà, ossia quando costituiscano, per quanto attiene al primo profilo, provvedimenti rispetto ai quali non sia previsto alcun altro rimedio, e siano diretti, con riferimento al secondo requisito, alla risoluzione di una controversia su diritti soggettivi o "status", con piena attitudine a produrre, con efficacia di giudicato, effetti di diritto sostanziale e processuale, così che la loro eventuale ingiustizia comporterebbe per le parti un pregiudizio definitivo ed irreparabile ove non fosse loro consentito quel controllo di legittimità garantito dalla norma costituzionale richiamata.

Tanto premesso, deve porsi in evidenza come l'ordinanza in esame, in quanto provvedimento di natura istruttoria, di per sè revocabile e privo del carattere della decisorietà, non è impugnabile con ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost. (Cass., 28 giugno 2011, n, 14331; Cass., 8 giugno 2001, n. 7772).

Cass. civ. VI - 1, Ord., 11-10-2012, n. 17379

Assegno di divorzio.


E' vero che giurisprudenza consolidata (per tutte Cass. N. 17017 del 2008) precisa che vi è totale autonomia tra i regimi economici di separazione e divorzio, e il giudice del divorzio non è vincolato dalle statuizione di separazione. Ma il giudice a quo ha tenuto conto dei presupposti propri dell'assegno di divorzio e del reddito periodico della moglie (per quanto attiene a vicende successive, indicate dalla L., collegate ad invalidità lavorativa, potrà essa eventualmente chiedere in prosieguo una modifica delle condizioni di divorzio) per cui il contributo del marito sarà soltanto parziale.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 11-10-2012, n. 17370

Privilegio generale sui mobili alle provvigioni ed indennità derivanti dal rapporto di agenzia


Con il primo motivo di ricorso, la compagnia di assicurazioni in LCA, denunciando violazione dell'art. 2751 bis c.c., n. 3, nonchè vizio di motivazione, lamenta che la Corte territoriale abbia riconosciuto collocazione privilegiata al credito vantato da di Di Bella Ass.ni s.r.l. e richiama, a conforto de proprio assunto, la sentenza interpretativa di rigetto della Corte Costituzionale n. 1 del 2000, la quale, rilevando che l'art. 2751 bis c.c., è stato introdotto dal legislatore allo scopo di attribuire anche ai crediti dei lavoratori autonomi una tutela di grado pari a quello già riconosciuta ai lavoratori subordinati, assegnando loro il primo posto nell'ordine di prelazione di cui all'art. 2788 c.c., ha escluso che nell'ambito applicativo di cui al n. 3, art. 2751 bis c.c. potessero essere inclusi i crediti per provvigioni delle società di capitali.

Sulla questione, tuttavia, anche dopo la sentenza del Giudice delle leggi, si registra un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte.

Secondo un primo, prevalente orientamento, l'art. 2751 bis c.c., n. 3, nell'accordare privilegio generale sui mobili alle provvigioni ed indennità derivanti dal rapporto di agenzia, trova applicazione indipendentemente dal fatto che l'agente/creditore sia una persona fisica ovvero una società (tanto di persone, quanto di capitali), tenuto conto che la norma, a differenza delle altre disposizioni contenute nello stesso articolo, non contiene alcuna specificazione sui soggetti titolari del credito che possa comportare una limitazione alla sua causa, ma fa esclusivo riferimento al rapporto cui esso consegue (Cassazione civile, sez. 1^, 15.6.2000 n. 8171; Cassazione civile, sez. 2^, 17.3.2009, n. 6481; Cassazione civile sez. 1^, 14.5.2012 n. 7433).

Secondo un diverso orientamento (a quanto consta espresso soltanto da Cassazione civile, sez. 1^, 14/06/2000, n. 8114) l'art. 2751 bis c.c., nell'accordare privilegio generale sui mobili alle provvigioni ed indennità derivanti dal rapporto di agenzia, intende riferirsi ai soli creditori che siano persone fisiche, con esclusione dei casi in cui l'attività di agente sia svolta da società di capitali, attesa la "ratio" dell'intero articolo, che è quella di favorire i prestatori d'opera che, al pari dei lavoratori subordinati, traggono dalla loro attività i mezzi per soddisfare i bisogni propri e della propria famiglia.

Nell'occasione, il collegio decidente non ha mancato di rilevare che l'interpretazione contraria (come si è detto, esclusa dalla Corte Cost. nella sentenza n. 1 del 2000) non si sottrarrebbe a censure di illegittimità costituzionale in riferimento all'art. 3 Cost., in quanto attribuirebbe alle società di capitali un privilegio uguale a quello dei lavoratori intellettuali autonomi e poziore rispetto a quello dei coltivatori diretti e degli artigiani - i cui crediti sono posposti, nell'ordine dei privilegi, ex art. 2751 bis c.c. citato, a quelli dei professionisti e degli agenti - con un'ingiustificata equiparazione di situazioni diverse.

Si ritiene perciò necessaria la trasmissione del ricorso al Primo Presidente, perchè valuti l'opportunità di assegnarlo alle Sezioni Unite, ai fini della soluzione del contrasto.

Cass. civ. Sez. I, Ord., 11-10-2012, n. 17366

In tema di protezione internazionale dello straniero


Il Collegio che il relatore designato nella relazione depositata ex art. 380 bis c.p.c. ha formulato considerazioni nel senso:

CHE il MAE ha proposto reclamo innanzi alla Corte di Bologna avverso il provvedimento del Tribunale che ordinava il rilascio del visto di ingresso della A.K. destinataria di istanza di ricongiungimento proposta dalla figlia H.H. (cittadina del (OMISSIS) regolarmente soggiornante in Italia), visto che il consolato di Casablanca aveva rifiutato per il difetto dei requisiti richiesti dal sopravvenuto nuovo testo del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 29 introdotto dal D.Lgs. n. 160 del 1998; CHE la Corte di Bologna alla fissata udienza del 25.2.2011 preso atto della mancata comparizione dell'istante Avvocatura ha disposto Non Luogo a Provvedere; CHE per la cassazione di tale decreto ricorre il MAE il 16.8.2011 censurandone la illegittimità, avendo la Corte obbligo di provvedere sulla istanza; nessuna difesa dell'intimato; CHE il ricorso è pienamente fondato alla stregua della giurisprudenza di questa Corte, secondo il principio così massimato:

In tema di protezione internazionale dello straniero, in caso di difetto di comparizione della parte interessata all'udienza di trattazione, il giudice del reclamo (nella specie, in grado di appello avverso il decreto del tribunale che aveva rigettato il ricorso contro il diniego di protezione internazionale adottato dalla competente commissione territoriale), verificata la regolarità della notificazione del ricorso e del decreto, deve decidere nel merito il reclamo, restando esclusa la possibilità di una decisione di rinvio della trattazione o di improcedibilità per disinteresse alla definizione o (come nella specie) di non luogo a provvedere. (Cass. 18043 del 2010 - vd in termini 24168 del 2010);

CHE, ove si condivida il testè formulato rilievo, il ricorso può essere trattato in camera di consiglio ed accolto per manifesta fondatezza.

Cass. civ. VI - 1, Ord., 11-10-2012, n. 17354

Il "valore" delle CTP e obbligo di rinnovo della CTU in appello


Peraltro, come pure è stato più volte affermato, "le consulenze di parte costituiscono semplici allegazioni difensive, onde il giudice di merito non è tenuto a motivare il proprio dissenso in ordine alle osservazioni in esse contenute, quando ponga a base del proprio convincimento considerazioni incompatibili con le stesse e conformi al parere del proprio consulente, nè è tenuto, anche a fronte di esplicita richiesta di parte, a disporre nuova consulenza di ufficio, atteso che il rinnovo dell'indagine tecnica rientra tra i poteri del giudice di merito, sicchè non è neppure necessaria espressa pronunzia sul punto, quando risulti dal complesso della motivazione, che lo stesso giudice ha ritenuto esaurienti i risultati conseguiti con gli accertamenti svolti" (v. Cass. 6-5-2002 n. 6432, Cass. 14-6- 2003 n. 9540, Cass. 23-1-2006 n. 1230).

Con riferimento, poi, in particolare al giudizio di gravame è stato altresì precisato che "il giudice d'appello non ha l'obbligo di rinnovare la consulenza tecnica, tuttavia, ove siano dedotte nuove malattie o aggravamenti di quelle già denunciate, oppure se il giudice ritenga di dover dissentire dalle conclusioni espresse dal consulente nominato in primo grado, ha il dovere di motivare in ordine alla decisione di non disporre una nuova consulenza; quando, invece, non siano in discussione nuove malattie o aggravamenti nelle infermità denunciate e il giudice di appello ritenga di condividere le conclusioni del c.t.u. nominato in primo grado, non è neppure necessaria una esplicita motivazione in ordine alle ragioni del mancato rinnovo della consulenza, potendo quest'ultima essere ritenuta superflua anche per implicito" (v. Cass. 13-4-2004 n., 7013).

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 11-10-2012, n. 17350

L'attualità della riduzione della capacità lavorativa


Come è stato più volte affermato da questa Corte e va qui ribadito, "il diritto alla rendita per infortunio sul lavoro o malattia professionale ha la sua causa nella riduzione della capacità di lavoro. Questo legame causale condiziona non solo la nascita del diritto ma anche il suo successivo sviluppo: l'incremento o il decremento della riduzione della capacità lavorativa determinano (salvi i limiti temporali nei quali è prevista la revisione D.P.R. n. 1124 del 1965, ex artt. 83 e 137) l'incremento o il decremento della rendita. Ne consegue che al fine di accertare la permanenza del diritto in oggetto assume rilievo esclusivamente la verifica dell'attualità della riduzione della capacità lavorativa, mentre è irrilevante il raffronto tra la situazione esistente al momento della suddetta verifica e la pregressa situazione di riduzione della suddetta capacità" (v. Cass. 14-10-2000 n. 13735, Cass. 23-2-2004 n. 3550). Del resto è consolidato il principio secondo cui "il sistema dell'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali è ispirato all'esigenza di adeguare, per quanto possibile, la prestazione all'effettiva misura della riduzione dell'attitudine al lavoro", con la conseguenza che "in sede giudiziale, sia che si tratti di prima liquidazione, sia che si tratti di revisione, l'oggetto del giudizio verte sull'accertamento dell'effettivo grado di riduzione dell'idoneità lavorativa" (v. Cass. 27-12-2011 n. 28954, Cass. 30-7-2002 n. 11297).

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 11-10-2012, n. 17348

L'incollocamento al lavoro e l'assegno d'invalidità.


Il primo motivo non è meritevole di accoglimento.

Come questa Corte ha avuto modo di ribadire in più occasioni (v., in particolare, Cass. 28852/2008), le Sezioni Unite della Corte, con la sentenza 203/1992, seguita da numerose decisioni conformi, hanno stabilito il principio secondo cui ai fini del diritto all'assegno d'invalidità previsto dalla L. 30 marzo 1971, n. 118, art. 13, l'invalido è da ritenersi "incollocato al lavoro" non per effetto del mero stato di disoccupazione o non occupazione ma solo quando, essendo iscritto (o avendo presentato domanda d'iscrizione) nelle speciali liste degli aventi diritto al collocamento obbligatorio, non abbia conseguito un'occupazione in mansioni compatibili.

La giurisprudenza della Corte ha altresì chiarito che ai fini dell'attribuzione dell'assegno mensile di invalidità l'"incollocazione al lavoro" - che è uno degli elementi costitutivi del diritto alla prestazione - assume due diversi significati rispettivamente per gli invalidi infracinquantacinquenni e per gli invalidi che abbiano, invece, superato i cinquantacinque anni di età (ma non ancora i sessantacinque, questo essendo il limite preclusivo per beneficiare della prestazione in argomento).

Con riguardo ai primi, fra i quali deve annoverarsi il C., per incollocato al lavoro deve intendersi colui che, essendo iscritto nelle liste del collocamento obbligatorio, non abbia trovato un'occupazione compatibile con le sue condizioni psico-fisiche, a nulla rilevando il fatto che non abbia ancora ottenuto il riconoscimento della percentuale di riduzione della sua capacità di lavoro da parte delle competenti commissioni sanitarie, ma essendo comunque necessaria, in questo caso, la presentazione della domanda di iscrizione nelle predette liste, non potendosi supplire alla mancanza di tale elemento con la prova dello stato di disoccupazione.

Con riferimento, invece, agli invalidi ultracinquantacinquenni (ma infrasessantacinquenni) - che non hanno diritto all'iscrizione nelle suddette liste - l'"incollocazione al lavoro" deve essere intesa come stato di effettiva disoccupa/ione o non occupazione ricollegato ad una riduzione di capacità di lavoro che di detto stato è causa e che non consente il reperimento di un'occupazione adatta alla ridotta capacità lavorativa dell'invalido (la cui prova può essere fornita in giudizio anche mediante presunzioni), senza che sia necessaria alcuna iscrizione o la domanda di iscrizione nelle liste del collocamento ordinario.

I problemi interpretativi e applicativi posti dalla previsione del D.L. n. 5 del 1971, art. 13 convertito dalla L. n. 118 del 1971, applicabile ratione temporis (la domanda amministrativa è stata presentata il 7 marzo 1996), che subordina il diritto all'assegno di invalidità civile alla condizione che l'interessato sia "incollocato al lavoro", prima delle modifiche introdotte con L. 24 dicembre 2007, n. 247, art. 1, comma 35, che ha sostituito il testo dell'art. 13 cit. introducendo, in luogo del requisito dell'incollocazione, quello più generico del mancato svolgimento di attività lavorativa, sono già stati esaminati e risolti da questa Corte di legittimità che ha ritenuto che l'interessato, al fine di dimostrare tale condizione, dovesse richiedere l'iscrizione, in relazione alla sua condizione di invalidità, nelle liste del collocamento cd. obbligatorio, ed ha anche precisato che tale adempimento dovesse essere eseguito anche in attesa della conclusione del procedimento per il riconoscimento da parte delle autorità competenti del possesso di quel grado di invalidità che abilitava a fruire del collocamento obbligatorio, tenuto anche presente il tenore della L. n. 482 del 1968, art. 19 circa la documentazione da presentare a corredo della domanda (cfr. Cass. 13279/2003, 17329/2003, 23762/2009; e Cass. un. 9502 e 5085 del 2012 con riferimento alla nuova L. n. 68 del 1999 sul collocamento dei disabili).

Tanto premesso, anche nella vicenda in esame va riaffermato (con Cass. 6297/2012 ed altri numerosi precedenti conformi), che ai fini del diritto all'assegno di invalidità civile, l'integrazione del requisito dello stato di incollocazione al lavoro presuppone che l'interessato si sia iscritto nelle liste speciali del collocamento obbligatorio o, quanto meno, abbia presentato la relativa domanda all'ufficio competente, senza che possa attribuirsi valenza esonerativa al mancato riconoscimento, da parte delle commissioni sanitarie di cui alla L. n. 118 del 1971, di un grado di invalidità sufficiente ai fini del collocamento agevolato, poichè, in realtà, è possibile presentare la domanda di iscrizione all'ufficio di collocamento anche in difetto del preventivo accertamento del requisito sanitario da parte delle commissioni sanitarie, allegando documentazione apprestata dall'interessato, com'è confermato dal tenore della L. n. 482 del 1968, art. 19 e dal fatto che la L. n. 118 del 1971, art. 11, nel disciplinare la presentazione delle domande alle commissioni sanitarie istituite con la stessa legge, fa riferimento solo a quelle finalizzate al conseguimento delle provvidenze ex artt. 12, 13, 23 e 24.

Il requisito dell'incollocazione al lavoro può prescindere dall'iscrizione nelle predette liste del collocamento obbligatorio solo nel caso d'impossibilità di iscrizione dovuta al superamento del limite d'età di cinquantacinque anni (peraltro, eliminato dalla nuova disciplina delle assunzioni obbligatorie, di cui alla L. n. 68 del 1999, nell'ottica della massima valorizzazione di un collocamento mirato dei lavoratori più deboli).

Tale condizione ostativa non ricorre nella specie ove le parti hanno allegato soltanto la mancata convocazione a visita, prima del decesso dell'assistito, per il riconoscimento della provvidenza economica e non la presentazione della domanda, da parte di C. S., per l'iscrizione all'ufficio di collocamento anche in difetto del preventivo accertamento del requisito sanitario da parte delle commissioni sanitarie e, pertanto, correttamente la Corte d'Appello ha ritenuto insussistente il requisito dell'incollocazione al lavoro in applicazione della predetta normativa e in consonanza con l'interpretazione data da questa Corte, senza peraltro affatto onerare gli eredi dell'invalido, come pure i ricorrenti sembrano adombrare nello svolgimento delle censure, di alcun impossibile adempimento in ordine alla presentazione della domanda d'iscrizione.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 11-10-2012, n. 17339

Concorso del lavoratore nel danno da illegittimo lecenziamento


La consolidata giurisprudenza di questa Corte ritiene che nell'ipotesi di disoccupazione del lavoratore illegittimamente licenziato, il giudice di merito, a fronte di contestazione da parte del datore di lavoro di una piena responsabilità nella causazione del danno, deve effettuare d'ufficio, in applicazione dell'art. 1227 c.c., comma 2, l'indagine sull'eventuale concorso del lavoratore che, non avendo ricercato con l'ordinaria diligenza altra occupazione, abbia posto in essere un comportamento colposo idoneo a determinare almeno in parte l'entità del danno (v. per tutte, da ultimo, Cass. 31.01.11 n. 2139). L'accertamento dei presupposti per l'applicabilità della disciplina prevista da detto art. 1227, comma 2, integra un'indagine di fatto, riservata al giudice di merito, che rimane sottratta al sindacato di legittimità se assistita da congrua motivazione (S.u. 28.05.07 n, 12348).

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 11-10-2012, n. 17337

Notifica ex art. 140 c.p.c.


La controversia ha ad oggetto la contestazione delle modalità di ricevimento dell'avviso inviato a mezzo posta, ai sensi dell'art. 140 c.p.c., dall'ufficiale giudiziario al destinatario del ricorso introduttivo dopo il deposito dell'atto presso la casa comunale a seguito della mancanza di soggetti idonei a riceverlo ai sensi dell'art. 139 c.p.c..

Con la sentenza 14.01.10 n. 3 la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di detto art. 140 c.p.c. nella parte in cui prevede che la notifica si perfezioni, per il destinatario, con la spedizione della raccomandata informativa, anzichè con il suo ricevimento o, comunque, decorsi dieci giorni dalla relativa spedizione. A seguito di tale pronunzia, dunque, la notifica può ritenersi effettuata correttamente con detta modalità solo ove sia provato il ricevimento o l'avvenuto compimento del deposito del plico contenente l'avviso informativo (Cass. 31.03.10 n. 7809), oppure risulti la consegna dell'avviso stesso con modalità tali da consentire al destinatario la conoscibilità dell'avviso (Cass. 27.02.12 n. 2959).

Dalla descrizione dell'avviso di ricevimento fatta dal giudice di appello, emerge che l'ufficiale postale consegnò il plico contenente l'avviso informativo a persona avente la qualità di portiere dello stabile, il quale appose sullo stesso avviso di ricevimento la sua sottoscrizione, di contenuto peraltro indecifrabile. Tali modalità di notifica debbono ritenersi sufficienti a ritenere che l'avviso informativo fosse stato portato nella concreta sfera di conoscibilità del destinatario. Non osta, infatti, la circostanza che l'indecifrabilità della sottoscrizione non consenta la ricostruzione delle generalità del soggetto che svolgeva il servizio di portierato, atteso che la contestazione del contenuto ideologico delle operazioni compiute dall'agente postale e della sottoscrizione apposta in sua presenza avrebbe potuto essere effettuata solo mediante proposizione della querela di falso, ai sensi dell'art. 2700 c.c. (v. da ultimo Cass., S.u., 27.04.10 n. 9962).

In conclusione, il ricorso è fondato e deve essere accolto con cassazione della sentenza impugnata. Essendo la notifica dell'atto introduttivo avvenuta nel rispetto delle condizioni previste dall'art. 140 c.p.c., la controversia deve essere rinviata al giudice indicato in dispositivo per l'esame degli ulteriori motivi di appello.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 11-10-2012, n. 17336

La pensione sociale dopo i 65 anni.


Coerentemente, mutilati ed invalidi civili - titolari di pensione di inabilità o di assegno di invalidità (di cui alla L. 30 marzo 1971, n. 118, artt. 12 e 13 cit.) - sono ammessi alla pensione sociale oppure all'assegno sociale (ai sensi della L. 30 marzo 1971, n. 118, art. 19, comma 1, cit.) - del pari automaticamente - a seconda che "il primo giorno del mese successivo al compimento dell'età di 65 anni" cada (o meno) prima della data (1 gennaio 1996) dell'istituzione dell'assegno sociale (di cui alla L. 8 agosto 1995, n. 335, art. 3, comma 6, cit.), in luogo della pensione sociale (sul punto, vedi Cass. n. 18713, 17083/2004).

In altri termini, mutilati ed invalidi civili - titolari di pensione di inabilità o di assegno di invalidità - continuano a percepire la pensione sociale - conseguita, al compimento del sessantacinquesimo anno di età entro il novembre 1995 mentre hanno diritto, invece, all'assegno sociale, ove la stessa età (di sessantacinque anni, appunto) sia stata raggiunta in data successiva (cioè dal dicembre 1995 in avanti).

Nella specie l'assistito aveva raggiunto la predetta età negli ultimi giorni del dicembre 1995, onde deve riconoscersi il suo diritto all'assegno sociale fino alla data del decesso avvenuta il 2 luglio 2006.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 11-10-2012, n. 17335

Le cause che rientrano nell'alveo dell'art. 409 c.p.c.


Come è stato più volte affermato da questa Corte e va qui nuovamente enunciato, "per controversie relative a rapporti di lavoro subordinato ai sensi dell'art. 409 c.p.c., n. 1, debbono intendersi non solo quelle relative alle obbligazioni propriamente caratteristiche del rapporto di lavoro, ma tutte le controversie in cui la pretesa fatta valere in giudizio si ricolleghi direttamente al detto rapporto, nel senso che questo, pur non costituendo la "causa petendi" di tale pretesa, si presenti come antecedente e presupposto necessario, e non già meramente occasionale, della situazione di fatto in ordine alla quale viene invocata la tutela giurisdizionale, essendo irrilevante l'eventuale non coincidenza delle parti in causa con quelle del rapporto di lavoro" (v. Cass. 22-3-2002 n. 4129).

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 11-10-2012, n. 17334

Contratti a termine illegittimi


Il Collegio, ritenuto, in definitiva, per le ragioni sopra enunciate, che non sussistano ostacoli all'esame del ricorso incidentale de quo, ritiene che lo stesso sia pienamente fondato alla luce del principio, affermato da Cass. 12 marzo 2010 n. 6081, e che in questa sede deve essere espressamente ribadito, secondo cui, in presenza di contratti a termine illegittimi, la successiva stipulazione di un contratto legittimo non estingue il rapporto di lavoro a tempo determinato venutosi a creare a seguito dell'illegittimità dei precedenti contratti a termine, non potendosi sostenere fondatamente, in senso contrario, la tesi che le parti avrebbero posto in essere una novazione contrattuale, istituto che appare richiamato del tutto impropriamente in assenza degli elementi che lo connotano, quali una modifica dei soggetti, una modifica dell'oggetto o del titolo o l'animus novandi. E' stato in proposito precisato (Cass. 9 marzo 2010 n. 5665) che la novazione oggettiva del rapporto obbligatorio postula il mutamento dell'oggetto o del titolo della prestazione, ai sensi dell'art. 1230 cod. civ., e deve essere connotata non solo dall'aliquid novi, ma anche dall'animus novandi (inteso come manifestazione inequivoca dell'intento novativo) e dalla causa novandi (intesa come interesse comune delle parti all'effetto novativo); Nel caso di specie la Corte territoriale, nel ritenere la sussistenza di una novazione fra le parti, non ha fatto corretta applicazione del suddetto principio atteso che, prescindere dal fatto di non aver dato conto dell'esistenza di una eccezione in tal senso, ha omesso di verificare in modo adeguato la sussistenza degli elementi necessari per integrare la fattispecie della novazione.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 11-10-2012, n. 17328

Ipotesi di uso arbitrario dell'immobile locato


Il terzo è infondato sulla scorta del pacifico principio secondo il quale la L. n. 392 del 1978, art. 80 ha riguardo ad un mutamento d'uso che comporti un mutamento del regime giuridico del rapporto.

Questa Corte ha in particolare escluso l'applicabilità della disciplina di cui al citato art. 80 alla trasformazione di un esercizio commerciale da "negozio di casalinghi" a "sala giochi", sul presupposto che esso opera nell'ambito della tipologia prevista dall'art. 27 della stessa legge e non comporta alcun mutamento di regime giuridico (Cass., n. 2962/1996). Ad ogni altra ipotesi di uso arbitrario dell'immobile resta, invece, applicabile l'ordinaria disciplina prevista dal codice civile in tema di risoluzione del contratto per inadempimento di una delle obbligazioni principali del conduttore - il servirsi, cioè, della cosa per l'uso convenuto - da valutarsi alla stregua dell'ordinaria disciplina del codice civile, secondo la quale, in difetto di clausola risolutiva espressa, è configurabile solo un inadempimento contrattuale legittimante il ricorso all'ordinaria azione di risoluzione prevista dall'art. 1453 cod. civ. (Cass. 25141/2008 e 5767/2010).

Di tale azione la Corte d'appello ha ritenuto che difettassero nella specie i presupposti, per non essere stato provato il "grave inadempimento" del conduttore, a detta dell'attore costituito dalla rumorosità della nuova attività.

Il nucleo della decisione non sta allora, come erroneamente presupposto dal ricorrente, nell'avere la Corte di merito qualificato come "negozio" una "sala giochi", ma nell'essere mancata la prova che l'aver trasformato un negozio in una sala giochi costituisse un grave inadempimento del conduttore (come richiesto dall'art. 1455 c.c., secondo la corrente interpretazione).

Quella prova si sarebbe dovuta offrire dall'attore, che non l'ha data, erroneamente assumendo che fosse sufficiente ai fini risolutivi sostenere che altro è un negozio ed altro una sala giochi. Il che è vero, ma in se stesso irrilevante, come s'è spiegato.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 11-10-2012, n. 17326

La prestazione complessiva dell'assicuratore


A riguardo, appare opportuno prendere le mosse dal rilievo che l'assicurazione della responsabilità civile è disciplinata, nella previsione codicistica, dall'art. 1917 cod. civ. i cui commi 1 e 3 regolano la prestazione complessiva dell'assicuratore, che forma oggetto di due distinte obbligazioni, di cui una principale e l'altra accessoria. Come ha già avuto modo di statuire questa Corte, l'obbligazione principale (che può definirsi tale in quanto corrispondente all'essenza del contratto) è prevista dal comma primo e concerne la rifusione, da parte dell'assicuratore, di tutto quanto l'assicurato debba pagare al terzo danneggiato e, quindi, comprende anche le spese per l'accertamento e la liquidazione giudiziale del danno, che, essendo stati sostenuti, dal danneggiato vittorioso, debbano essergli rimborsate dal danneggiante - assicurato.

L'obbligazione accessoria, prevista dal comma terzo, trova il suo necessario presupposto, nella obbligazione principale, ma ha un oggetto diverso perchè riguarda il rimborso, da parte dell'assicuratore (ed entro limiti prestabiliti), delle spese sostenute dall'assicurato per resistere all'azione del danneggiato.

Ora, la ratio di quest'ultima disposizione va individuata nel perseguimento di un risultato utile ad entrambe le parti, assicuratore ed assicurato, mirando a tutelarne la sfera giuridico - patrimoniale dalla domanda risarcitoria del terzo ed esaurendo la sua funzione nei limiti in cui si tratta di tenere indenne l'assicurato delle spese sostenute per resistere all'azione civile del danneggiato.

Conseguentemente l'assicuratore non è obbligato al rimborso delle spese del procedimento penale, svoltosi nei confronti dello assicurato, senza costituzione di parte civile del danneggiato (cfr Cass., 15 gennaio 1985, n. 59).

Cass. civ. Sez. III, Sent., 11-10-2012, n. 17315

La periodicità della prestazione del canone di locazione



Con il primo motivo la ricorrente deduce: "Violazione e falsa applicazione della L. n. 359 del 1992, art. 11, L. n. 392 del 1978, artt. 24 e 79 in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3" poichè erroneamente la Corte di merito ha ritenuto mancante di base normativa il principio di invariabilità del canone, che invece è contenuto nella L. n. 392 del 1978, artt. 24 e 30 e nell'art. 79, comma 1, stessa legge, non abrogato dalla L. n. 431 del 1998, che vietano aumenti del canone al di fuori dell'indicizzazione in assenza di significativi mutamenti del sinallagma contrattuale. La giurisprudenza considerata dalla Corte di merito per affermare l'unitarietà dell'obbligazione di pagare il canone, frazionato soltanto come modalità di pagamento, concerne l'unitarietà della mora ed è risalente agli anni '50, allorchè la locazione era disciplinata dalla L. n. 253 del 1950 ed i contratti, indipendentemente dalla destinazione d' uso, operavano in regime di proroga legale ed avevano la durata di un anno. Quindi erroneamente la Corte di merito richiama l'art. 12 c.p.c., comma 2, previgente che stabiliva la competenza per valore in base ai canoni per un anno ovvero per il periodo controverso. La periodicità della prestazione del canone è desumibile anche dalla prescrizione in cinque anni della loro esigibilità a norma dell'art. 2948 c.c., nn. 3 e 4 dagli interessi di cui all'art. 1224 c.c. che decorrono dalla mora e cioè, a norma dell'art. 1219 c.c., n. 3, dalla scadenza del pagamento del canone. Il conduttore dell'immobile ad uso abitativo è più tutelato del conduttore - imprenditore, ad uso diverso, ed infatti per l'aggiornamento del canone abitativo ogni anno occorre l'espressa richiesta con racc. a.r. (L. n. 392 del 1978, art. 24, richiamato dalla L. n. 351 del 1992, art. 11 e dalla L. n. 431 del 1998, art. 13), mentre per l'uso diverso le parti possono convenire l'aggiornamento anticipatamente (L. n. 392 del 1978, art. 32, comma 2).

Il motivo è fondato.

La disciplina applicabile ratione temporis è la L. n. 392 del 1978, art. 24, secondo il quale "Per gli immobili adibiti ad uso di abitazione il canone di locazione... è aggiornato ogni anno in misura pari al 75%. L'aggiornamento del canone decorrerà dal mese successivo a quello in cui ne viene fatta richiesta con lettera raccomandata". Questa norma è stata espressamente richiamata dalla L. n. 359 del 1992, art. 11, comma 2, u.p., che disciplina i contratti di locazione in deroga stipulati successivamente alla sua entrata in vigore. Pertanto, ribadita l'esclusione del diritto del locatore a percepire l'aggiornamento del canone in mancanza di richiesta, anno per anno, al conduttore dell'applicazione dell'aumento Istat e la nullità, a norma della L. n. 392 del 1978, art. 79, di qualsiasi pattuizione volta ad aggirare l'imperatività delle precitate norme - come nel caso in cui, nel corso di svolgimento del rapporto, sia pattuito un canone più elevato rispetto a quello risultante dal contratto originario - essendo consentita dal precitato art. 11 soltanto la deroga all'ammontare del canone stabilito dalla L. 27 luglio 1978, n. 392, e non alla garanzia del contenimento dell'obbligazione del conduttore nel corso del rapporto nella misura dell'intervenuta variazione dell'indice Istat - G.C. ha diritto alla restituzione delle somme indebitamente versate, operata la compensazione con l'incremento del canone - 20% - dovuto a norma dell'art. 1591 cod. civ., esclusa dalla Corte di merito la prescrizione e, - dunque nessun giudicato essendosi formato sul periodo da considerare.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 11-10-2012, n. 17313

Appello avverso la sentenza emessa in materia di adottabilità del minore

La L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 17, comma 4, dispone che avverso la sentenza emessa in materia di adottabilità del minore, le parti legittimate "possono con ricorso proporre impugnazione, entro trenta giorni dalla notifica dinanzi alla sezione per i minorenni della Corte d'Appello",. e al comma 5 che "avverso la sentenza della Corte d'Appello è ammesso ricorso per Cassazione per violazione di legge entro trenta giorni dalla notificazione".

Questo chiaro dettato normativo è stato interpretato da questa Corte nel senso che "ai fini del ricorso per Cassazione la sentenza emessa dalla Corte d'Appello - Sezione minorile - in tema di opposizione alla dichiarazione di adottabilità, la notifica d'ufficio di detta sentenza effettuata alla stregua del disposto della L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 17, comma 3, è idonea a far decorrere il termine dimidiato di trenta giorni di cui all'ultimo comma di detta norma, senza che tale limitazione temporale al giudizio di legittimità, quali che siano i motivi del ricorso, arrechi alcun apprezzabile vulnus al diritto di difesa delle parti interessate, che sono perciò comunque tenute al suo rispetto (Cfr. Cass. Sez. Un., 5 aprile 2005, n. 6985).

Cass. civ. VI - 1, Ord., 10-10-2012, n. 17304

Deposito del ricorso e sua successiva notifica col decreto di fissazione di udienza: il termine ordinatorio può essere prorogato se non scaduto.


Il ricorso è infondato poichè, come questa Corte ha già avuto modo di rilevare (Cass., n. 27086 del 2011; Cass., nn. 11992 e 11600 del 2010; Cass. 1721 del 2009; Cass., Sez. un., n. 20604 del 2008), con il rito camerale la proposizione dell' appello si perfeziona con il deposito del ricorso in cancelleria e la violazione del termine per i successivi incombenti, pur se ordinatorio ex art. 154 c.p.c., determina la decadenza dall'attività processuale cui è correlato, se (come nella specie) non prorogato prima della sua scadenza.

Tale principio è stato per vero affermato dalle sezioni unite di questa Corte nell'ambito del rito del lavoro, ma tuttavia è da ritenere che lo stesso sia dotato di forza espansiva nei confronti delle diverse controversie trattate con il rito camerale, caratterizzato in via generale dalla "vocatio in ius" tramite deposito del ricorso e sua successiva notifica unitamente al decreto di fissazione di udienza (Cass., 17 maggio 2010, n. 11992).

Cass. civ. VI - 1, Ord., 10-10-2012, n. 17303

L'accertamento del diritto all'assegno di divorzio


Com'è noto, l'accertamento del diritto all'assegno di divorzio si articola in due fasi, nella prima delle quali il giudice è chiamato a verificare l'esistenza del diritto in astratto, in relazione all'inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, o all'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, raffrontate ad un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, o che potava legittimamente fondarsi su aspettative maturate nel corso dal matrimonio, fissate al momento del divorzio, e quindi procedere ad una determinazione quantitativa delle somme sufficienti a superare l'inadeguatezza di detti mezzi, che costituiscono il tetto massimo della misura dell'assegno. Nella seconda fase, il giudice deve procedere alla determinazione in concreto dell'assegno in base alla valutazione ponderata e bilaterale dei criteri indicati nello stesso art. 5, comma 6, (nel testo modificato dalla L. n. 14 del 1987) - e cioè delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ognuno e di quello comune, del reddito di entrambi, valutando tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio - i quali criteri, quindi, agiscono come fattori di moderazione e diminuzione della somma considerata in astratto e possono, in ipotesi estreme, valere anche ad azzerarla, quando la conservazione del tenore di vita assicurato dal matrimonio finisca per risultare incompatibile con detti elementi di quantificazione (Cass., 14 gennaio 2008, n. 593; Cass. 16 maggio 2005 n. 10210, 19 marzo 2003 n. 4040).

Cass. civ. VI - 1, Ord., 10-10-2012, n. 17301

Sospensione necessaria del processo.


Quanto al primo profilo, deve richiamarsi il costante orientamento di questa Corte secondo cui l'istituto della sospensione necessaria non può trovare applicazione in presenza di giudizi pendenti, come nel caso in esame, fra soggetti diversi: in tale ipotesi non è configurabile un rapporto di pregiudizialità necessaria, in quanto la parte rimasta estranea ad uno di tali giudizi può sempre eccepire l'inopponibilità, nei propri confronti, della relativa decisione (Cass., 27 gennaio 2011, n. 1948; Cass., 18 marzo 2009, n. 2554; Cass., 11 aprile 2007, n. 8701; Cass., 25 luglio 2006, n. 16960).

Cass. civ. VI - 1, Ord., 10-10-2012, n. 17300

Tribunale ordinario e dei minorenni: competenze


Che, introdotta domanda di separazione personale con richiesta di affidamento dei figli, la competenza del tribunale ordinario in ordine a tale domanda resta ferma qualsiasi siano le circostanze dedotte a fondamento di tale richiesta, mentre la competenza del tribunale per i minorenni sussiste, ai sensi dell'art. 38 disp. att. c.p.c., solo nel caso in cui siano richiesti in via autonoma, e cioè indipendentemente dalla domanda di separazione personale, provvedimenti limitativi della potestà genitoriale, ai sensi dell'art. 330 o 333 c.c., ovvero nel caso in cui dopo la pronuncia di separazione sia richiesta una modificazione dei provvedimenti di affidamento basata non sul semplice mutamento delle circostanze, ma specificamente sulla ricorrenza di ipotesi che possono giustificare un provvedimento ex art. 330 o 333 c.p.c. (Cass. 5137/85; 1562/87; 2652/89; 5431/94; 1401/95; 2797/97; 3222/98; 4631/99; 1213/00).

Cass. civ. VI - 1, Ord., 10-10-2012, n. 17289

La previsione di un foro esclusivo: clausola derogativa della competenza territoriale


Che, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, in mancanza di specificazione; il termine "sede" usato nella clausola in questione non può che intendersi riferito alla sede legale (chiaramente indicata in (OMISSIS), nella parte iniziale del contratto di apertura di credito in conto corrente stipulato con il D.C., quale titolare della ditta individuale [...]);

che la previsione di un foro esclusivo è una clausola derogativa della competenza territoriale individuabile secondo le ordinarie regole del codice di rito (tant'è che se ne è richiesta al D. C. separata approvazione per iscritto), non si riesce davvero a comprendere come con essa si sia inteso fare riferimento alla città ove ha sede la filiale in quanto ciò, risultando insediata in (OMISSIS) anche la ditta individuale affidata, avrebbe consentito comunque di radicare la competenza territoriale, sotto tutti i fori legali alternativamente concorrenti in materia di obbligazioni, proprio presso il locale ufficio giudiziario (donde l'inconcludenza della previsione medesima);

che, non riferendola clausola alla sede legale, che è una e una sola, si arriverebbe all'assurdo di considerare comprese nella previsione del "foro esclusivo" tutte le filiali o succursali della banca e che ove la volontà fosse stata quella di eleggere a foro esclusivo gli uffici giudiziari di Milazzo, la clausola si sarebbe dovuta formulare in termini che esplicitamente, o comunque inequivocamente, indicassero la sede della filiale.

Cass. civ. VI - 1, Ord., 10-10-2012, n. 17288

26 ottobre 2012

Mailing list gratuita per scambio di sentenze.

Parte da questa settimana un'iniziativa utile per i Colleghi (e non solo): la possibilità di scambiare,gratuitamente, le sentenze della Cassazione, delle Corti e dei Tribunali di merito, mediante il semplice invio/ricezione delle mail in una apposita mailing list creata per l'occasione.

Per aderire, inviate la vostra mail (quella in cui desiderate ricevere le sentenze) all'indirizzo blawg@mauriziostorti.com;  dopo l'inserimento nella lista, potrete ricevere, in tempo reale, le sentenze inviate da tutti gli iscritti e consentire agli stessi di poter visionare le pronunce da voi inviate.

Il Blawg invierà settimanalmente, per esteso, una o più sentenze della Cassazione, tra quelle ritenute più interessanti e già postate per estratto.

L'indirizzo dove poter inviare le sentenze verrà comunicato nella mail di conferma all'iscrizione alla mailing liste "sentenze".

Buona navigazione.

Regolamento di competenza e clausole compromissorie.


"Il regolamento di competenza è ammissibile alla stregua del principio affermato dalle sezioni unite con l'ordinanza 19047 del 2010 secondo cui, mentre nell'ipotesi in cui sia iniziato un procedimento arbitrale, il momento rilevante ai fini dell'applicazione dell'art. 819 ter c.p.c., introdotto con il D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 22, ai sensi dell'art. 27, comma 4 dello stesso testo di legge, è quello in cui è proposta la domanda di arbitrato, nel caso in cui nessun procedimento arbitrale sia ancora iniziato, ai fini dell'applicazione della nuova disciplina debbono trovare applicazione i principi generali della perpetuatio jiurisdictionis e del tempus regit actum, con la conseguenza, non espressamente affermata dalle sezioni unite, ma logicamente conseguente alle affermazioni contenute nella decisione citata, che in tal caso deve trovare applicazione l'orientamento secondo cui il nuovo testo dell'art. 819 ter c.p.c. si applica ai procedimenti giurisdizionali iniziati con domanda proposta dopo il 2 marzo 2006 (Cass. n. 13128/2007, 21926/2009, 587/2009, 238/2011. 29261/2011);

che il regolamento di competenza è infondato e che pertanto deve essere dichiarata la competenza del tribunale di Cassino, dovendo ritenersi nulle la clausole compromissorie contenute negli statuti societari che, come quella di cui si discute, non adeguandosi alla prescrizione del D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 34, prevedano che la nomina degli arbitri non debba necessariamente essere effettuata da un soggetto estraneo alla società, in conformità con l'orientamento formatosi nella giurisprudenza di questa corte in materia di responsabilità professionale dei notai (Cass. 9 dicembre 2010, n. 24867, 20 luglio 2011, n. 15892, 13 ottobre 2011, n. 21202);"

Cass. civ. VI - 1, Ord., 10-10-2012, n. 17287

Predisposizione morbosa ed evento infortunistico.

"Infine, è costante l'insegnamento di questa Corte (cfr., per tutte, Cass. 24 luglio 2004 n. 13928), secondo il quale la predisposizione morbosa non esclude il nesso causale tra sforzo e ed evento infortunistico, in relazione anche al principio di equivalenza causale di cui all'art. 41 cod. pen., che trova applicazione nella materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, con la conseguenza che un ruolo di concausa va attribuito anche ad una minima accelerazione di una pregressa malattia - salvo che questa sia sopravvenuta in modo del tutto indipendente dallo sforzo compiuto o dallo stress subito nella esecuzione della prestazione lavorativa."

Cass. civ. VI - Lavoro, Ord., 10-10-2012, n. 17286

Nullità e inesistenza giuridica della notifica: presunzioni iuris tantum.


"Va preliminarmente rilevato, con riferimento al secondo motivo, che, per costante giurisprudenza di questa Corte, la querela di falso è proponibile nel giudizio di Cassazione solo quando concerna documenti attinenti al suddetto giudizio di legittimità, che possano essere prodotti ai sensi dell'art. 372 c.p.c. e non anche con riguardo a documenti che il giudice di merito abbia posto a fondamento della decisine impugnata, o comunque siano stati prodotti nel giudizio di merito senza essere stati impugnati per la loro asserita falsità. Ne consegue che detta querela può riguardare l'ammissibilità del ricorso e del controricorso o la nullità della sentenza impugnata, con riferimento, in tal caso, ai soli vizi della sentenza stessa per mancanza dei requisiti essenziali, di sostanza o di forma, e non anche ove essa sia originata, in via medita e riflessa, da vizi del procedimento, quale l'irregolare costituzione del rapporto processuale (Cass. 5.3.2004,n. 4603; 29.3.2006, n. 7265; Cass. S.U., 31.5.2011, n. 11964).

Detto motivo è, quindi, inammissibile.

Il primo motivo è infondato, poichè l'eventuale "inesistenza giuridica" della notifica dell'atto introduttivo del giudizio di primo grado deve pur sempre essere fatta valere con l'impugnazione della sentenza emessa, deducendone la nullità. Unica differenza è che, con riferimento all'art. 327 c.p.c., u.c., per stabilire se sia ammissibile una impugnazione tardivamente proposta, sul presupposto che l'impugnante non abbia avuto conoscenza del processo a causa di un vizio della notificazione dell'atto introduttivo, occorre distinguere due ipotesi: se la notificazione è inesistente, la mancata conoscenza della pendenza della lite da parte del destinatario si presume "iuris tantum" ed è onere dell'altra parte dimostrare che l'impugnante ha avuto comunque contezza del processo;

se invece la notificazione è nulla, si presume "iuris tantum" la conoscenza della pendenza del processo da parte dell'impugnante, e dovrà essere quest'ultimo a provare che la nullità gli ha impedito la materiale conoscenza dell'atto (Cass. 3 luglio 2008,n. 18243; 5 febbraio 2009, n. 2817).

Correttamente, quindi, il giudice di appello ha evidenziato che la notifica della sentenza di primo grado eseguita a mezzo del servizio postale (l'avviso di ricevimento della raccomandata contenente l'atto recava la sottoscrizione " G.P." e la data di consegna 24.9.2002) comportava che da quest'ultima data decorreva il termine breve, ai sensi dell'art. 325 c.p.c., per impugnare la sentenza stessa, termine la cui inosservanza, (per essere stato l'appello proposto con atto notificato il 26.11.2002), aveva determinato l'inammissibilità dell'appello rendendo irrilevante il decorso del termine di cui all'art. 327 c.p.c., comma 2, di un anno dalla pubblicazione della sentenza.

Tale statuizione è aderente alla giurisprudenza di questa Corte, citata nella sentenza impugnata, secondo cui decorre dalla data di notifica della sentenza impugnata il termine breve per farne valere la nullità conseguente al vizio di notifica della citazione, essendo irrilevante il decorso di un anno dalla pubblicazione della sentenza stessa (Cass. n. 12754/97; SS.UU. 22.6.2007, n. 14570)."

Cass. civ. Sez. II, Sent., 10-10-2012, n. 17278

I termini al sabato si prorogano al lunedì successivo - azione penale e civile.


"Va osservato che il ricorso risulta spedito il 29 maggio tramite l'ufficio postale dall'avvocato del ricorrente ai sensi della L. n. 53 del 1994, con ricezione il 30 maggio e che il ricorrente indica la data di notifica della sentenza il 29.3.2006 (mentre quella risultante dall'atto in lingua tedesca è il 28.3.2006, come data di spedizione).

Anche il controricorrente concorda nella notifica il 29.3.2006.

Considerando la data indicata, termine ultimo per la notifica del ricorso è il 28 maggio 2006 che, tuttavia , è domenica.

Ma anche il sabato, ai sensi dell'art. 155 c.p.c., novellato nel 2005, applicabile ai processi pendenti al 1.3.2006, è festivo per cui il termine si proroga al lunedì, principio definitivamente e più ampiamente sancito in virtù della L. 18 luglio 2009, n. 69 e confermato da S.U. 1418/2012.

In definitiva la spedizione del ricorso il 29.5.2006 è nei termini, anche a considerare data di notifica della sentenza il 28.3.2006.

Le censure, come proposte, non meritano accoglimento.

A prescindere dalla genericità delle doglianze e dalla assenza di specificità di tutti i motivi, si rivolge critica in gran parte alla sentenza di primo grado, anzicchè a quella di appello, senza impugnare espressamente la statuizione in ordina alla dedotta qualificazione della natura personale dell'azione proposta.

Se in astratto l'assoluzione perchè il fatto non costituisce reato, non preclude un'azione civile, nella specie, la costituzione di parte civile, successiva alla proposizione della citazione e non limitata al risarcimento del danno da reato, comporta il trasferimento dell'azione in sede penale, con la conseguenza che la decisione fa stato tra le parti ed i ricorrenti ben ricordano che, a seguito della mancata impugnazione della Procura della repubblica, la stessa è definitiva e tardivamente contestata in questa sede, in mancanza della indicazione di una impugnazione anche ai soli fini civili."

Cass. civ. Sez. II, Sent., 10-10-2012, n. 17276

Eccezione di prescrizione presuntiva.


"Risulta corretta, infatti, l'individuazione dell'ambito applicativo della norma di cui all'art. 2959 cod. civ., operata dal Giudice del merito, posto che l'eccezione di prescrizione presuntiva è incompatibile con qualsiasi comportamento del debitore che importi, sia pure implicitamente, l'ammissione in giudizio che l'obbligazione non è stata estinta (Cass. 5 aprile 2006, n. 7883). Nella specie il Tribunale, in sede di appello, ha esaminato gli scritti difensivi in primo grado dell'attuale ricorrente e, evidenziando che S. G., nel contestare la pretesa di pagamento nel merito, aveva dedotto l'inadempimento dell'attore, per essere la contabilità tenuta dalla controparte non priva di lacune, e, proprio in ragione di tali premesse, aveva chiesto il rigetto della domanda, ha ritenuto le argomentazioni del convenuto, attuale ricorrente, incompatibili con l'avvenuto integrale pagamento del debito; inoltre, il Giudice del merito ha esaminato la specifica regolamentazione con cui le parti del contratto hanno regolamentato il rapporto e, in ragione di tale scrutinio, ha ritenuto che il pagamento del corrispettivo, previsto a scadenza bimestrale, doveva seguire e non precedere la prestazione della controparte, sicchè l'aver invocato la risoluzione del contratto per inadempimento, non postulava - come invece sostiene il ricorrente - che il committente avesse già corrisposto gli importi di cui il professionista aveva chiesto il pagamento."

Cass. civ. Sez. II, Sent., 10-10-2012, n. 17275

Penale e interessi.


"La Corte genovese, ha, invece, mancato di considerare che la penale (stabilità in L. 50.000 per ogni giorno di ritardo nella consegna dell'appartamento oggetto della controversia) in ragione della normativa di cui all'art. 1382 cod. civ. costituisce debito di valuta e non di valore e pertanto sulla somma dovuta non potevano essere concessi anche gli interessi legali a partire dal 1 gennaio 1994, cioè da una data in cui ancora la penale non era stata identificata nel suo ammantare. Piuttosto, ove la prestazione oggetto della penale, il che presuppone la sua identificazione nel suo ammontare, non fosse eseguita o fosse eseguita in ritardo, per essa sarebbero dovuti, ricorrendone le rispettive condizioni, gli interessi moratori e l'eventuale maggior danno di cui all'art. 1224 cod. civ., non ostando l'effetto, proprio della clausola penale, di limitare il risarcimento alla prestazione promessa, se non è stata convenuta la risarcibilità del danno ulteriore, perchè la penale, pur essendo obbligazione accessoria, Ha una sua autonoma ed identità quale obbligazione pecuniaria."

Cass. civ. Sez. II, Sent., 10-10-2012, n. 17273

L'integrità del contraddittorio.


"La finalità dell'integrazione del contraddittorio è quella di tutelare chi ha proposto la domanda e non potrebbe conseguire quanto richiesto e non già di tutelare il litisconsorte pretermesso, già protetto dall'efficacia di una pronuncia resa in un giudizio cui è rimasto estraneo (Cass. 2004 n. 4714).

La parte che eccepisce la non integrità del contraddittorio deve darne la prova (Cass. 2003 n. 3430) non solo indicando le persone che devono partecipare al giudizio quale litisconsorti necessari (Cass. 2003 n. 11415), ma anche provandone l'esistenza (Cass. 2008 n. 25305), dimostrando i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che giustificano la necessità dell'integrazione stessa (Cass. 1995 n. 2353, 1997 n. 3975; 1999 n. 4762), se questi non risultino già dagli atti.

Il difetto di integrità del contraddittorio non costituisce eccezione in senso proprio e può essere sollevato per la prima volta anche nel giudizio di legittimità. Tuttavia, in quest'ultimo caso tale eccezione può essere formulata soltanto alla condizione che gli elementi di fatto, posti a fondamento dell'eccezione, emergano con ogni evidenza dagli atti già ritualmente acquisiti nel giudizio di merito, senza quindi la necessità di nuove prove e dello svolgimento di ulteriori attività vietate in sede di legittimità. Al riguardo, Cass. 2008 n. 25305 ha affermato il condiviso principio secondo cui, se l'eccezione è proposta per la prima volta in cassazione, la parte ha l'onere di indicare gli atti del processo di merito dai quali può trarsi la prova dei presupposti di fatto che giustificano tale eccezione. Tale principio è stato ribadito da Cass. n. 3024 del 28/02/2012 (Rv. 621484), secondo la quale "Il vizio processuale derivante dall'omessa citazione di alcuni litisconsorti necessari può essere dedotto per la prima volta anche in sede di legittimità, alla duplice condizione che gli elementi che rivelano la necessità del contraddittorio emergano, con ogni evidenza, dagli atti già ritualmente acquisiti nel giudizio di merito (senza la necessità di svolgimento di ulteriori attività istruttorie)", che ulteriormente afferma che occorre, altresì che "sulla questione non si sia formato il giudicato; ciò in quanto le ipotesi di nullità della sentenza che consentono, ai sensi dell'art. 372 cod. proc. civ., di acquisire mezzi di prova precostituiti in sede di legittimità sono limitate a quelle derivanti da vizi propri dell'atto per mancanza dei suoi requisiti essenziali di sostanza e di forma, con esclusione delle nullità originate da vizi del processo". Anche tale principio è condiviso dal Collegio."

Cass. civ. Sez. II, Sent., 10-10-2012, n. 17272

L'appello è proposto dal legale rappresentante della società.


"Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, in applicazione del principio per il quale è legittimato a ricorrere in appello soltanto colui che sia stato parte del giudizio di primo grado, nel caso di sentenza resa nei confronti di una società di persone è inammissibile il ricorso in appello proposto da una persona fisica in proprio e non quale legale rappresentante della società; in tale ipotesi l'inammissibilità è rilevabile in ogni stato e grado del giudizio, e, ove pronunciata in sede di legittimità, configurando una ipotesi in cui il giudizio non poteva essere proseguito, comporta la cassazione senza rinvio della sentenza impugnata, ex art. 382 c.p.c. (Cass. nn. 10208/02 e 12692/03)."

Cass. civ. Sez. II, Sent., 10-10-2012, n. 17271

Responsabilità, in via autonoma ex art. 2051 c.c., del Condominio.


"Del resto la corte di merito si è correttamente attenuta al consolidato principio affermato da questa corte secondo cui qualora il fenomeno dannoso lamentato dal singolo condomino sui beni di proprietà esclusiva sia originato da difettosa realizzazione delle parti comuni dell'edificio (nella specie precaria situazione della muratura perimetrale adiacente il giardino condominiale e dei pozzetti), nei confronti di questi è responsabile, in via autonoma ex art. 2051 c.c., il Condominio, che è tenuto, quale custode, ad eliminare le caratteristiche lesive insite nella cosa propria (cfr. Cass. 12 luglio 2011 n. 15291; Cass. 15 aprile 1999 n. 3753; Cass. 21 giugno 1993 n. 6856; Cass. 25 marzo 1991 n. 3209; Cass. 9 maggio 1988 n. 3405).

Non si tratta di una responsabilità a titolo derivativo (il Condominio, pur successore a titolo particolare del costruttore venditore, non subentra nella sua personale responsabilità, legata alla sua specifica attività e fondata sull'art. 1669 c.c.), bensì di autonoma fonte di responsabilità ex art. 2051 c.c. (cfr. Cass. 6856/93, cit.). La doglianza è, dunque, infondata."

Cass. civ. Sez. II, Sent., 10-10-2012, n. 17268

Erede e legatario.


"Secondo l'orientamento di questa Corte, in materia di distinzione tra erede e legatario, l'assegnazione di beni determinati deve interpretarsi, ai sensi dell'art. 588 cod. civ., come disposizione ereditaria (institutio ex re certa), qualora il testatore abbia inteso chiamare l'istituito nell'universalità dei beni o in una parte indeterminata di essi, considerata in funzione di quota del patrimonio relitto, mentre deve interpretarsi come legato, se abbia voluto attribuirgli singoli individuati beni. L'indagine diretta ad accertare se ricorra l'una o l'altra ipotesi, si risolve in un apprezzamento di fatto, riservato ai giudici del merito, ed è, quindi, incensurabile in sede di legittimità se conseguentemente motivato (v., sul punto, Cass., sent. n. 3016 del 2002).

L'indagine diretta ad accertare se il testatore, nell'attribuire beni determinati, abbia posto in essere una institutio in re certa, conferendo così al beneficiario il titolo di erede, oppure un legato, integra un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito, non censurabile in sede di legittimità se non sotto il profilo della motivazione (Cass., sentt. n. 13835 del 2007, n. 3016 del 2002, cit.).

Nella specie, la Corte di merito ha fornito articolata ed esaustiva motivazione del proprio convincimento in ordine alla qualità di C.L. di erede del nonno. Al riguardo, essa ha fatto anzitutto riferimento al tenore letterale delle due schede testamentarie, la prima delle quali lo istituiva erede expressis verbis, mentre la seconda, che non smentiva la prima, si soffermava sulle ragioni della scelta di assegnare a L. la casa di (OMISSIS) - che indubbiamente rappresentava la parte più ingente del patrimonio del de cuius -, da ricondurre al desiderio che essa rimanesse in proprietà del maschio della famiglia C.."

Cass. civ. Sez. II, Sent., 10-10-2012, n. 17266

La materia delle opposizioni esecutive.


"Osserva, preliminarmente il Collegio che la normativa riguardante il regime delle impugnazioni dei provvedimenti in materia di opposizioni esecutive ha subito diverse modifiche negli ultimi anni.

Con riferimento all'opposizione all'esecuzione, per effetto di tale evoluzione normativa, come più volte precisato da questa Corte, alle sentenze che hanno deciso opposizioni all'esecuzione pubblicate prima del 1 marzo 2006 il regime d'impugnazione applicabile è quello dell'appello; alle sentenze pubblicate successivamente, si applica la diversa regola della non impugnabilità, ai sensi del nuovo testo dell'art. 616 c.p.c., introdotto dalla L. 24 febbraio 2006, n. 52, art. 14, con la conseguenza dell'esclusiva ricorribilità per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost., comma 7; per le ipotesi, invece, in cui il giudizio di primo grado sia pendente alla data di entrata in vigore della L. 18 giugno 2009, n. 69 (4 luglio 2009), deve trovare applicazione, ai sensi dell'art. 49 di tale legge, la nuova disposizione dell'art. 616 c.p.c. che ha eliminato la previsione della non impugnabilità e ripristinato l'appellabilità delle pronunce di primo grado (v., ex multis, Cass. 1402/2011; Cass. 20324/2010; Cass. 19605/2010).

La sentenza impugnata è stata depositata in epoca successiva al 1 marzo 2006 (ed antecedente al 4 luglio 2009), data in cui è entrato in vigore il nuovo testo dell'art. 616 c.p.c., introdotto dalla citata L. n. 52 del 2006, onde trova applicazione, nella specie, il regime intermedio d'impugnazione che prevede l'immediata ricorribilità per cassazione (v., ex multis, Cass. 16781/2011) ai sensi dell'art. 111 Cost., comma 7, tanto se si tratta di giudizi introdotti prima dell'inizio dell'esecuzione, e quindi sotto forma di opposizione a precetto, quanto se si tratta di opposizione introdotte dopo (v. ex multis, Cass. 9591/2011 ed alle successive conformi).

Ne consegue che con il rimedio impugnatorio straordinario sono deducibili soltanto i vizi di violazione di legge, non anche quelli di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione; inoltre, il difetto di motivazione su questioni di fatto rientra nella violazione di legge, che legittima la proposizione del ricorso straordinario, quando si traduca nella radicale carenza della motivazione, ovvero del suo estrinsecarsi in argomentazioni non idonee a rivelare la ratio decidendi (motivazione apparente), o fra di loro logicamente inconciliabili o comunque perplesse od obiettivamente incomprensibili sì da integrare l'insufficienza o l'irrazionalità della motivazione in ordine alle quaestiones facti (ex multis, Cass. 2043/2010, 12027/2010, 26426/2008; SU. 319/1999)."

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 10-10-2012, n. 17263

Cancellazione dal registro delle imprese delle società di persone e effetti sul processo.


"A sua volta l'estinzione della società, come determina la costituzione di una comunione fra gli stessi soci in ordine ai beni residuati dalla liquidazione o sopravvenuti alla cancellazione, così - sia pure nei limiti e alle condizioni di cui all'art. 2312 c.c., comma 2 o all'art. 2495 c.c., comma 2 - rende personalmente responsabili i soci (e i liquidatori, se in colpa circa il mancato pagamento) per i crediti insoddisfatti.

Si tenga presente che gli effetti sostanziali e processuali della cancellazione della società dal registro delle imprese sono già stati definiti dalle Sezioni Unite con sentenza 22.2.10 n. 4062, secondo la quale la cancellazione dal registro delle imprese provoca l'immediata estinzione della società di capitali, indipendentemente dall'esaurimento dei rapporti giuridici ad essa facenti capo, nel caso in cui tale adempimento abbia avuto luogo (come accaduto nel caso di specie) dopo l'entrata in vigore del D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, art. 4, che, modificando l'art. 2495 c.c., comma 2, ha affermato l'efficacia costitutiva della cancellazione.

Sempre alla luce di quanto statuito dalle S.U., la natura costitutiva riconosciuta per legge, a decorrere dal 1.1.04, degli effetti delle cancellazioni già iscritte (e di quelle future per le società di capitali che con esse si estinguono) suggerisce, in via di applicazione analogica e di interpretazione costituzionalmente conforme, uguale vicenda estintiva anche per quelle di persone, affinchè sia garantita la parità di trattamento dei terzi creditori di entrambi i tipi di società.

L'applicazione analogica alle società di persone di tale vicenda estintiva espressamente regolata per quelle di capitali impone di estendere anche alle prime i principi elaborati per le altre, in particolare quello secondo cui (cfr. Cass. 15.10.08 n. 25192, 18.9.07 n. 19347, 28.8.06 n. 18618) la cancellazione dal registro delle imprese produce la perdita della capacità processuale della società.

Dopo la cancellazione dal registro delle imprese (anche) di una società di persone, quindi, il processo può essere instaurato soltanto da (o nei confronti di) soggetti effettivi, senza eccezione neppure in caso di ignoranza della giuridica cessazione della società (cfr. Cass. 10.11.10 n. 22830)."

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 10-10-2012, n. 17261

Licenziamento disciplinare e affissione del codice disciplinare.


"Con il quinto motivo il ricorrente denuncia la violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7 e degli artt. 345 e 416 c.p.c., nonchè insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, relativamente alla mancata affissione del codice disciplinare, che la Corte territoriale ritenne non necessaria, secondo una deduzione svolta dalla società solo in grado di appello.

Anche tale motivo è infondato.

Ed invero, premesso che la questione della mancata affissione del codice disciplinare fu posta a base del ricorso introduttivo del giudizio da parte del C., la rilevanza o meno dell'adempimento non solo non costituisce una eccezione in senso stretto ma mera difesa, ed inoltre, e per ciò, ben può essere rilevata dal giudice nell'esercizio del suo potere di accertare la conformità del fatto sottoposto al suo esame alle norme dell'ordinamento.

Nella specie la Corte territoriale ha fatto buon governo dei principi più volte affermati da questa Corte (Cass. n. 16291/04; Cass. n. 19306/04; Cass. n. 1926/11) secondo cui ai fini della validità del licenziamento intimato per ragioni disciplinari non è necessaria la previa affissione del codice disciplinare, in presenza della violazione di norme di legge e comunque di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione convenzionale."

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 10-10-2012, n. 17258

Licenziamento disciplinare del funzionario di banca.


"Il primo motivo del ricorso principale è infondato. Va rilevato anzitutto che, in ordine ai criteri che il giudice deve applicare per valutare la sussistenza o meno di una giusta causa di licenziamento, la giurisprudenza è pervenuta a risultati sostanzialmente univoci affermando ripetutamente - cfr. ex plurimis Cass. 3865/2008, Cass. 19270/2006, Cass. 7543/2006, Cass. 13883/2004, Cass. 9299/2004, Cass. 4061/2004 - che per stabilire in concreto l'esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all'intensità dell'elemento intenzionale, dall'altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell'elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare. Anche nell'ipotesi in cui la disciplina collettiva preveda un determinato comportamento quale giusta causa di licenziamento, il giudice investito della legittimità di tale recesso deve comunque valutare alla stregua dei parametri di cui all'art. 2119 c.c., l'effettiva gravità del comportamento stesso alla luce di tutte le circostanze del caso concreto (Cass. 1095/2007, Cass. 13983/2000, Cass. 8139/2000, Cass. 6900/2000, Cass. 7834/98, Cass. 1604/98), con l'ulteriore precisazione secondo cui la previsione di ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta in un contratto collettivo non vincola il giudice, dato che questi deve sempre verificare, stante l'inderogabilità della disciplina dei licenziamenti, se quella previsione sia conforme alla nozione di giusta causa, di cui all'art. 2119 c.c., e se, in ossequio al principio generale di ragionevolezza e di proporzionalità, il fatto addebitato sia di entità tale da legittimare il recesso, tenendo anche conto dell'elemento intenzionale che ha sorretto la condotta del lavoratore (Cass. 16260/2004, Cass. 5103/98). E' stato altresì precisato (Cass. 25743/2007) che il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione dell'illecito commesso - istituzionalmente rimesso al giudice di merito - si sostanzia nella valutazione della gravità dell'inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo tenersi al riguardo in considerazione la circostanza che tale inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della "non scarsa importanza" di cui all'art. 1455 c.c., sicchè l'irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata soltanto in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali (L. n. 604 del 1966, art. 3) ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto (art. 2119 c.c.).

Questa Corte, in una controversia avente ad oggetto la legittimità del licenziamento disciplinare di un funzionario di banca addetto al settore del credito agrario, al quale erano state mosse contestazioni di contenuto simile a quello di cui si tratta nella fattispecie in esame (cfr. Cass. n. 2013/2012), ha ribadito ancora una volta che spetta al giudice di tenere conto di ogni aspetto concreto della vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risulti sintomatico della sua gravità rispetto ad un'utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi, innanzi tutto, rilievo alla configurazione che delle mancanze addebitate faccia la contrattazione collettiva, ma pure all'intensità dell'elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal dipendente, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto (ed in specie alla sua durata e all'assenza di precedenti sanzioni), alla sua particolare natura e tipologia.

Nella specie, la Corte territoriale ha ritenuto che i fatti addebitati al lavoratore con la lettera del 27.6.2005 non fossero di gravità tale da integrare gli estremi della giusta causa di licenziamento e da giustificare, quindi, l'applicazione della massima sanzione espulsiva, osservando che alcune delle mancanze oggetto della contestazione disciplinare (ed in particolare quelle che riguardavano l'omesso controllo sull'attività degli altri addetti alle operazioni di mutuo fondiario) non avevano trovato riscontro nel contenuto di specifiche prescrizioni aziendali, nè era emersa una situazione del comparto mutui fondiari tale da giustificare, per la sua eccezionalità, l'esercizio di poteri di controllo ancor più penetranti di quelli normalmente demandati al direttore della filiale. Considerazioni analoghe potevano essere svolte relativamente ai criteri di valutazione degli immobili sui quali era stata iscritta ipoteca a garanzia del mutuo fondiario, mentre le anomalie della documentazione relativa alla situazione reddituale dei mutuatati non avevano trovato alcun riscontro obiettivo nella effettiva situazione reddituale dei clienti (nè la Banca aveva dimostrato che tale situazione fosse realmente diversa da quella rappresentata dalla suddetta documentazione). Altre irregolarità - come quelle relative alla concessione di mutui in favore di soggetti non residenti o non operanti nell'area di competenza della filiale - avevano, in una valutazione globale dei fatti addebitati al lavoratore, un rilievo piuttosto marginale o non erano comunque tali da giustificare, di per sè, la risoluzione del rapporto (così quelle relative alle modalità del prefinanziamento)."

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 10-10-2012, n. 17257