26 settembre 2012

Nuovo biglietto da visita.

Protezione internazionale dello straniero, disciplina processuale e tempus regit actum.


"Il ricorso proposto merita accoglimento. Secondo l'orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, in virtù dell'applicazione del principio tempus regit actum la sentenza deve essere impugnata nei modi previsti dalla legge al momento dell'impugnazione. Pertanto nell'ipotesi dello jus superveniens, l'efficacia della nuova norma regola anche gli atti dei processi già in corso se tali atti siano compiuti successivamente all'entrata in vigore di essa e ciò sia se si tratti di atti di parte che debbano compiersi nel senso indicato dalla novella, sia nel senso, meramente consequenziale, che gli atti compiuti successivamente all'entrata in vigore debbono essere valutati nella loro ritualità applicando la norma nuova. (Cass. 3688 del 2011). L'ampiezza del principio non è scalfita dalla pronuncia citata nella sentenza impugnata n. 15352 del 2010 la quale correttamente applica il principio secondo il quale il potere d'impugnare spetta in via generale a chi sia stato parte nel giudizio di primo grado, salva la possibilità di dimostrare la preesistenza di tale qualità, come nella fattispecie costituente oggetto della sentenza da ultimo citata. Si tratta di una pronuncia che non affronta, perchè estraneo al giudizio, il problema del rapporto tra la norma processuale e lo jus superveniens e, conseguentemente, non può avere alcuna incidenza sull'applicazione del principio tempus regit actum alla legittimazione ad impugnare.

Peraltro in due recenti pronunce, la prima sezione di questa Corte ha affrontato specificamente la questione relativa all'ambito di applicazione della novella processuale che ha modificato il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35, comma 5, affermando la legittimazione del Ministero degli Interni a proporre reclamo. (Cass. 7781 del 2011 e ??? del 2012 non massimate). In particolare in quest'ultima pronuncia è stato affermato : "la modifica normativa del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35, comma 11, per effetto della L. n. 94 del 2009, art. 1, comma 13, è entrata in vigore il giorno 8 agosto 2009.

La legge non contiene una disciplina transitoria per le norme di natura processuale. Deve, pertanto, ritenersi, anche alla luce dell'orientamento di legittimità citato dalla parte ricorrente (Cass. 20414 del 2006), che la novella sia applicabile agli atti processuali successivi alla sua entrata in vigore, ai sensi dell'art. 11 preleggi, comma 1, e art. 15 preleggi, ma non a quelli precedenti.

(...) Ne consegue che, con riferimento alla proposizione dell'impugnazione della pronuncia di primo grado, la esclusione della legittimazione ad agire del Ministero dell'interno, permane in vigore fino al giorno 7 agosto 2009, mentre per le impugnazioni successive, quale quella relativa al presente procedimento risulta pienamente applicabile la nuova disciplina normativa, in virtù del principio secondo il quale ogni atto del procedimento giurisdizionale è regolato dalla legge processuale applicabile al momento in cui viene in essere, salva una diversa disciplina transitoria.

In conclusione, il ricorso deve essere accolto e la pronuncia d'inammissibilità del reclamo cassata con rinvio alla Corte d'Appello di Palermo in diversa composizione perchè si adegui al seguente principio di diritto : Nei procedimenti giurisdizionali riguardanti la protezione internazionale dello straniero, è ammissibile l'impugnazione della pronuncia di primo grado da parte dei Ministero degli Interni, se avvenuta nel vigore del novellato D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35, comma 5, (vigente dal giorno 8 agosto 2009) ancorchè nel primo grado il Ministero non abbia partecipato al giudizio."

Cass. civ. VI - 1, Sent., 24-09-2012, n. 16227

Processo tributario e l'equa ripartizione: se c'è il requisito "civile" è ammissibile.


"secondo il consolidato orientamento di questa Corte, per individuare l'area di applicazione della disciplina del diritto all'equa riparazione per mancato rispetto del termine ragionevole del processo, previsto dalla L. n. 89 del 2001, art. 2, occorre tener conto delle indicazioni emergenti dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo, alle quali il giudice interno deve conformarsi, attesa la coincidenza dell'area di operatività dell'equa riparazione ai sensi della L. n. 89 del 2001, con l'area delle garanzie assicurate dalla Convenzione Europea per la salvaguardia. dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali: in particolare, poichè la Corte considera meritevoli di tale speciale tutela i diritti e i doveri di "carattere civile" di ogni persona, e non le obbligazioni di natura pubblicistica, laddove non sia estensibile il campo di applicazione dell'art. 6 della Convenzione alle controversie tra il cittadino e il Fisco aventi ad oggetto provvedimenti impositivi (stante l'estraneità ed irriducibilità di tali vertenze al quadro di riferimento delle liti in materia civile), ciò nondimeno non può affermarsi in assoluto che tutte le controversie portate all'attenzione del giudice tributario rimangano estranee alla possibile applicazione della tutela di cui alla L. n. 89 del 2001, in quanto potrebbero rientrarvi le richieste di rimborso di somme, rifluenti nell'area delle obbligazioni privatistiche, o anche le pretese tributarie dell'amministrazione qualora siano connesse a sanzioni, che in questo caso sono suscettibili di rientrare nella seconda parte del paraqrafo 1 dell'art. 6 della Convenzione (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 13657 del 2007 e 2371 del 2001);

che, nella specie, è pacifico che il giudice tributario è stato adito dalla M. per contestare un avviso di accertamento dell'Ufficio del registro di Ravenna concernente la rettifica del valore di un immobile assoggettato ad In.v.im., per contestare cioè un provvedimento impositivo;

che, dunque, il processo tributario presupposto de quo è estraneo all'ambito di applicazione della L. n. 89 del 2001;"

Cass. civ. VI - 1, Sent., 24-09-2012, n. 16212

Concordato preventivo e esecuzione del concordato.

"...può valere anche nella specie il consolidato principio più volte enunciato da questa Corte con riferimento all'istituto del concordato preventivo, secondo cui, una volta esauritasi, con la sentenza di omologazione, la procedura di concordato preventivo, tutte le questioni che hanno ad oggetto diritti pretesi da singoli creditori o dal debitore e che attengono all'esecuzione del concordato, danno luogo a controversie che sono del tutto sottratte al potere decisionale del giudice delegato e costituiscono materia di un ordinario giudizio di cognizione, da promuoversi, da parte del creditore o di ogni altro interessato, dinanzi al giudice competente (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 16598 del 2008 e 14797 del 2000)."

Cass. civ. VI - 1, Ord., 24-09-2012, n. 16187

25 settembre 2012

Risarcimento del danno per licenziamento illegittimo e l'art. 1227 c.c.: occorre iscriversi nelle liste di collocamento


"Le prime due censure, che vanno trattate unitariamente essendo strettamente connesse dal punto di vista logico-giuridico, sono infondate.

Al riguardo va rimarcato che, come ribadito di recente da Cass. 11 marzo 2010 n. 5862, l'elaborazione giurisprudenziale di questa Corte sulla interpretazione dell'art. 1227 c.c. è pervenuta ad affermare i seguenti principi

1) tale articolo contiene ai commi 1 e 2 due distinte norme che regolano fattispecie diverse (Cass. 14 gennaio 1992 n. 320; Cass. 22 agosto 2003 n. 12352): il comma 1 regola il concorso del danneggiato nella produzione del fatto dannoso ed ha come conseguenza una ripartizione di responsabilità, rappresentando un'ipotesi particolare della più generale previsione del concorso di più autori del fatto dannoso (art. 2055 c.c.), nel quale uno dei coautori è lo stesso danneggiato. Il comma 2 contempla una situazione, del tutto diversa, di danno causato dal solo debitore, e quindi non concerne problemi di nesso causale, ma solo di estensione o di evitabilità del danno; si tratta di conseguenze dannose che si sono effettivamente verificate, ma che il creditore avrebbe potuto evitare, usando la ordinaria diligenza.

2) Quanto al contenuto dell'ordinaria diligenza esigibile, l'art. 1227 c.c., comma 2, non si limita a prescrivere al danneggiato un comportamento meramente negativo, consistente nel non aggravare con la propria attività il danno già prodottosi, ma richiede un intervento attivo e positivo, volto non solo a limitare, ma anche ad evitare le conseguenze dannose. La norma che onera il danneggiato ad uniformarsi ad un comportamento attivo ed attento dell'altrui interesse, rientra tra le fonti di integrazione del regolamento contrattuale, per cui la stessa "evitabilità" del danno è coordinata con i principi di correttezza e di buona fede oggettiva, contenuti nell'art. 1175 c.c., applicabile ad entrambe le parti del rapporto obbligatorio e non al solo debitore, nel senso che costituisce onere sia del debitore che del creditore di salvaguardare l'utilità dell'altra parte nei limiti in cui ciò non comporti un'apprezzabile sacrificio a suo carico (Cass. 7 aprile 1983 n. 2468; Cass. 14 gennaio 1992 n. 320 cit.).

3) Il limite alla esigibilità del comportamento attivo è costituito dalla "ordinaria" e non "straordinaria" diligenza, nel senso che le attività che il creditore avrebbe dovuto porre in essere al fine dell'evitabilità del danno, non siano gravose o straordinarie, come esborsi apprezzabili di denaro, assunzione di rischi, apprezzabili sacrifici (Cass. 15 luglio 1982 n. 4174; Cass. 14 novembre 1978 n. 5243; Cass. 25 gennaio 1975 n. 304; Cass. 6 luglio 2002 n. 9850). In applicazione degli esposti principi alla materia in oggetto, questa Corte ha affermato che il lavoratore, licenziato senza giusta causa, deve collocare sul mercato la propria attività lavorativa per ridurre, ex art. 1127 c.c., il pregiudizio subito (ex multis Cass. 18.2.1980 n. 1208; Cass. 11 novembre 2002 n. 15838; Cass. 22 agosto 2003 n. 12352).

La Corte di Appello ha fatto corretta applicazione di tale principio, in quanto ha basato il proprio decisum sul rilievo secondo il quale non era risultato che, dopo il licenziamento, il lavoratore si era iscritto nelle liste di collocamento ovvero nelle liste dei disoccupati aspiranti ad un posto di lavoro, nè che, adoperandosi per la ricerca di esso, era rimasto nondimeno privo di occupazione.

Siffatta argomentazione è conforme al principio secondo cui, in tema di risarcimento del danno cui è tenuto il datore di lavoro in conseguenza del licenziamento illegittimo e con riferimento alla limitazione dello stesso ex art. 1227 c.c., comma 2, l'onere della ordinaria diligenza nella ricerca di una nuova occupazione deve ritenersi assolto dal lavoratore con l'iscrizione nelle liste di collocamento, mentre spetta al debitore provare ulteriori elementi significativi della mancanza dell'ordinaria diligenza. (Cass. 11 maggio 2005 n. 9898 e Cass. 11 marzo 2010 n. 5862 cit.).

Nè sotto diverso profilo risulta incongrua la motivazione della sentenza impugnata laddove avuto riguardo alle condizioni di mercato ed a quelle soggettive del lavoratore (ed in particolare alla giovane età del lavoratore) la Corte del merito ritiene che nell'arco di tempo di tre anni dall'intervenuta risoluzione del rapporto di lavoro il C. avrebbe potuto trovare un'altra occupazione se si fosse diligentemente attivato in tal senso."

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 21-09-2012, n. 16076

Danni dello studente a scuola.


"Con citazione notificata il 29 marzo 2006 V.I. e A., in qualità di genitori e legali rappresentanti di V.N., convennero in giudizio innanzi al Tribunale di Bolzano la Provincia Autonoma per ivi sentirla condannare al risarcimento dei danni subiti dalla figlia a causa delle lesioni riportate durante la lezione di educazione fisica del (OMISSIS).

Esposero che quel giorno la ragazza, mentre sotto la vigilanza dell'insegnante giocava a baseball, era stata colpita dalla mazza della compagna H.S., fratturandosi alcuni denti.

Costituitosi in giudizio, l'Ente convenuto contestò le avverse pretese.

Con sentenza del 28 ottobre 2008 il giudice adito condannò la Provincia a pagare agli attori, a titolo di responsabilità extracontrattuale, ex art. 2048 c.c., la complessiva somma di Euro 16.188,00, oltre rivalutazione monetaria e interessi legali, detratto l'acconto di Euro 1.807,60, già corrisposto dalla società assicuratrice.

Proposto gravame dalla Provincia Autonoma, la Corte d'appello, in data 29 marzo 2010, in parziale riforma della impugnata sentenza, l'ha condannata a pagare a V.N. la somma di Euro 14.381,06, oltre accessori.

Per la cassazione di detta pronuncia ricorre a questa Corte la Provincia Autonoma di Bolzano, formulando dodici motivi e notificando l'atto a V.N., I. e A..

[...]

Questa Corte ha già avuto modo di evidenziare che, in materia di risarcimento danni per responsabilità civile conseguente ad un infortunio sportivo subito da uno studente all'interno della struttura scolastica durante le ore di educazione fisica, ai fini della configurabilità di una responsabilità a carico della scuola ex art. 2048 c.c., non è sufficiente il solo fatto di avere incluso una gara sportiva nel programma della suddetta disciplina, essendo altresì necessario che il danno sia conseguenza del fatto illecito di un altro studente impegnato nella competizione e che, inoltre, la scuola non abbia predisposto tutte le misure idonee a evitare il sinistro (confr. Cass. civ. 28 settembre 2009, n. 20743).

Nello specifico, mentre incombe sul danneggiato l'onere di provare il fatto costitutivo della sua pretesa, ovvero di essersi infortunato perchè bersaglio di un'azione colposa da parte di altro studente impegnato nella partita, spetta alla scuola dimostrare le circostanze impeditive all'insorgere della sua responsabilità, ovvero di non aver potuto evitare, pur avendo predisposto le necessarie cautele, il verificarsi del danno (confr. Cass. civ. 14 ottobre 2003, n. 15321).

[...]

Ora, per giurisprudenza costante di questa Corte, dalla quale non v'è ragione di discostarsi, il giudice del merito, quando aderisce alle conclusioni del consulente tecnico che nella relazione abbia tenuto conto, replicandovi, dei rilievi delle parti, esaurisce l'obbligo della motivazione con l'indicazione delle fonti del suo convincimento, di talchè non è necessario che egli si soffermi sulle contrarie deduzioni dei consulenti di fiducia o dei difensori delle stesse, deduzioni che, anche se non espressamente confutate, restano implicitamente disattese perchè incompatibili con le argomentazioni accolte: in tal caso le critiche di parte, che tendano al riesame degli elementi di giudizio già valutati dal consulente tecnico, si risolvono in mere allegazioni difensive, che non possono configurare il vizio di motivazione previsto dall'art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. civ., 3 aprile 2007, n. 8355). A ciò aggiungasi che, nel contestare l'applicazione delle tabelle del Triveneto, l'impugnante neppure ha chiarito le ragioni per le quali esse non consentivano, a suo avviso, una liquidazione effettivamente adeguata alle circostanze del caso concreto, rilievo che invece costituisce la vera ratio decidendi della scelta decisoria adottata dal giudice di merito, di talchè le critiche sono, sul punto, generiche e aspecifiche."

Cass. civ. Sez. III, Sent., 21-09-2012, n. 16056

Poteri del Commissario ad acta



Poteri del Commissario ad acta e "paternità" degli atti adottati

La nomina governativa, ai sensi dell'art. 120 Cost., del commissario ad acta nella persona del Presidente della Giunta regionale non muta l'imputazione degli effetti degli atti dallo stesso adottati in tale qualità, che ricadono nella sfera giuridica della Regione, e non certo in quella dello Stato.

T.A.R. / T.A.R. Calabria - Reggio Calabria / Sentenza 11 settembre 2012 da NORMA

24 settembre 2012

Spese a carico dell'intimante (che può appellare) a seguito di estinzione del procedimento di convalida di sfratto


"M.A. intimava sfratto per morosità, ai sensi dell'art. 658 cod. proc. civ., davanti al Tribunale di Perugia, Sezione distaccata di Todi, nei confronti di S.G.L. e H. F., conduttori di un appartamento di sua proprietà.

All'udienza fissata, il difensore della M. non si presentava e il giudice, su richiesta degli intimati, preso atto della mancata comparizione dell'intimante, dichiarava estinta la procedura. Con successivo provvedimento, emesso a seguito di scioglimento di apposita riserva, il medesimo giudice poneva le spese del giudizio a carico della M. e le parti convenute intimavano precetto sulla base di tale provvedimento.

[...]

Occorre innanzitutto rilevare che non risultano precedenti di questa Corte che abbiano affrontato specificamente il problema oggi in esame, avente ad oggetto il solo profilo della liquidazione delle spese in un procedimento per convalida di sfratto nel quale l'intimante non sia comparso all'udienza indicata nell'atto di citazione (art. 662 cod. proc. civ.). La pronuncia di maggiore interesse in rapporto all'odierna fattispecie è la sentenza 18 giugno 1988, n. 4171, citata nel ricorso: in quell'occasione si stabilì che la mancata comparizione del locatore alla menzionata udienza fa perdere all'intimazione tutti gli effetti di carattere processuale (salvi quelli sostanziali, come, ad esempio, la rinnovazione tacita del contratto); con la conseguenza che il giudice è tenuto - in caso di mancata comparizione tanto del locatore quanto del conduttore - a dichiarare estinto il procedimento per convalida, evidentemente senza applicare il diverso meccanismo di cui all'art. 181 cod. proc. civ. (nel testo allora vigente e poi oggetto di successive modifiche).

Nel presente caso, invece, il conduttore intimato era presente all'udienza fissata ed ha chiesto che il locatore fosse condannato alle spese.

Ciò posto e dando per pacifico che il giudice debba in simile evenienza dichiarare l'estinzione del procedimento per convalida di sfratto, è opportuno rammentare che, in relazione all'estinzione del processo di cognizione, mentre l'art. 306 c.p.c., comma 4, stabilisce che il rinunciante deve rimborsare le spese alle altre parti e che la relativa liquidazione è fatta dal giudice "con ordinanza non impugnabile", l'art. 310 c.p.c., comma 4, dispone che le spese del processo estinto "stanno a carico delle parti che le hanno anticipate". Al riguardo questa Corte, già con la sentenza 13 giugno 1992, n. 7254, poi ribadita dalla sentenza 6 agosto 2002, n. 11768, stabilì che l'ordinanza di liquidazione delle spese emessa ai sensi dell'art. 306 c.p.c., u.c., è impugnabile con il ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost., in considerazione del suo carattere decisorio e definitivo e della espressa previsione di non impugnabilità.

Nel caso in esame vi sono ragioni di carattere sistematico che inducono il Collegio a ritenere che nel caso specifico l'impugnazione da esperire sia l'appello.

In primo luogo, va detto che l'estinzione di cui all'art. 662 cod. proc. civ., pur con la sua indubbia particolarità, è assimilabile più ad un'estinzione per inattività della parte (l'intimante) che non ad un'estinzione per rinuncia agli atti; ne consegue che il paragone con l'ordinanza non impugnabile prevista dal citato art. 306 c.p.c., comma 4, non è appropriato. Assumono maggiore interesse, invece, i precedenti di cui alle ordinanze 10 ottobre 2006, n. 21707, e 14 dicembre 2009, n. 26210, nelle quali questa Corte ha ritenuto che la pronuncia sulle spese è da impugnare con l'appello ove abbia contenuto esorbitante rispetto alla fattispecie di cui all'art. 306, comma 4, cit., trattandosi di pronuncia che decide sulle spese risolvendo una contestazione sul punto.

In secondo luogo, la decisione sulle spese nel caso in esame, non avendo un contenuto prestabilito dalla legge, assume i connotati di una decisione sul merito e, in quanto tale, deve logicamente subire, ai fini dell'impugnazione esperibile, la medesima sorte del provvedimento che sarebbe stato emesso nel giudizio di primo grado ove il medesimo fosse giunto alla sua naturale conclusione; ed è chiaro che in una simile situazione non ha senso escludere l'appello.

Infine occorre anche considerare che la pacifica giurisprudenza di questa Corte ha già più volte affermato che il provvedimento col quale il giudice istruttore con funzione di giudice unico dichiara l'estinzione del processo, pur avendo forma di ordinanza, ha natura di sentenza, non soggetta a reclamo ed impugnabile con l'appello e non con il ricorso straordinario per cassazione (sentenze 6 aprile 2006, n. 8041, 3 luglio 2008, n. 18242, e 11 novembre 2010, n. 22917); e tale declaratoria di estinzione può anche contenere la regolamentazione delle spese.

Va enunciato, pertanto, il seguente principio di diritto:

"Nel procedimento per convalida di sfratto, ove il locatore intimante non compaia all'udienza indicata nell'atto di citazione ed il conduttore intimato, comparso a tale udienza, chieda la condanna del locatore alle spese, è impugnabile con l'appello e non con il ricorso straordinario per cassazione il provvedimento col quale il giudice, ai sensi dell'art. 662 cod. proc. civ., dichiarata l'estinzione del procedimento di convalida, pone le spese di giudizio a carico dell'intimante, trattandosi di provvedimento decisorio di merito in relazione al quale manca - a differenza di quanto previsto dall'art. 306 c.p.c., comma 4, - un'espressa previsione di non impugnabilità"."

Cass. civ. Sez. III, Sent., 20-09-2012, n. 15933

Spese condominiali a carico della venditrice: se è scritto, è scritto


"La controversia concerne le spese condominiali che T.M. G. è stata condannata a rifondere ai suoi aventi causa P. M.C. e F.M., i quali avevano acquistato da lei un appartamento, sito in (OMISSIS), con la clausola che eventuali spese condominiali successive sarebbero rimaste a carico della venditrice.

[...]

Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1304, 1372 e 1965 c.c., vizi di motivazione e omessa pronuncia.

La doglianza si riferisce all'individuazione delle somme dovute dalla T. agli acquirenti dell'immobile in adempimento dell'impegno contrattuale a farsi carico degli oneri dovuti sino al rogito "anche se accertati o liquidati successivamente".

Con pretesa quasi temeraria, la ricorrente nega che potesse essere posto a base del calcolo di detti oneri l'atto transattivo, recepito in delibera condominiale, con il quale fu chiusa la vertenza con il portiere dello stabile. Si tratterebbe a suo dire di un atto arbitrario e volontario e non di atti "previsti o predeterminati in forza di legge o di un provvedimento dell'autorità", quali previsti per "l'operatività della clausola".

La censura non ha pregio.

Fondamento dell'accordo era che gli oneri - in questo caso condominiali - successivamente emersi fossero accertati o comunque liquidati e, ovviamente che fossero relativi al periodo di proprietà T..

L'accertamento della natura condominiale del debito proviene, come ha ben osservato il tribunale (significativamente v. pag. 11 rigo 6), dal riconoscimento di esso da parte del condominio. Infatti non era stata prevista contrattualmente la necessità di un accertamento giurisdizionale, previsione che sarebbe stata insensatamente onerosa.

A fronte della liquidazione condominiale, la T. avrebbe potuto contestare l'inerenza della spesa al condominio e all'epoca di sua pertinenza."

Cass. civ. Sez. II, Sent., 20-09-2012, n. 15846

Fatturazione per operazione soggettivamente inesistente


"La fatturazione per operazione soggettivamente inesistente si ha quando la fornitura è stata acquisita effettivamente dal contribuente, ma essa è stata fornita da soggetto diverso dal fatturante. L'Iva che il cessionario assume di aver pagato al cedente per l'operazione soggettivamente inesistente (e cioè per la cessione non effettuata da quel preteso cedente) non è detraibile in quanto pagata ad un soggetto che non era legittimato alla rivalsa nè era assoggettato all'obbligo di pagamento dell'imposta. Unica eccezione alla non detraibilità in questi casi potrebbe essere che l'acquirente non sapesse che il fornitore effettivo non era il fatturante ma un altro. Ipotesi non impossibile ma meramente di scuola e l'onere di provarla grava ovviamente sul contribuente che fa valere la detrazione. Al di fuori di tale caso, nell'ipotesi di fatturazione per operazioni soggettivamente inesistenti il fisco, per escludere la detraibilità, ha solo l'onere di provare - e può farlo anche mediante presunzioni essendo principio di carattere generale che la prova dei fatti può essere data anche mediante presunzioni - che la cessione non è stata effettivamente operata dal fatturante."

Cass. civ. Sez. V, Sent., 19-09-2012, n. 15741

Motivazione apparente: dovere di motivazione del giudice - lavoratrici madri licenziate


"E' ben vero che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, non adempie il dovere di motivazione il giudice che si limiti a richiamare principi giurisprudenziali asseritamente acquisiti senza tuttavia formulare alcuna specifica valutazione sui fatti rilevanti di causa e, dunque, senza ricostruire la fattispecie concreta ai fini della sussunzione in quella astratta; in una situazione di tal tipo, infatti, il sillogismo che distingue il giudizio finisce per essere monco della premessa minore e, di conseguenza, privo della conclusione razionale (Cass. n. 11710 del 2011). Tuttavia, tale situazione nella fattispecie in esame non ricorre, in quanto la decisione impugnata ha richiamato i principi giurisprudenziali che la stessa P., appellante principale, aveva indicato a sostegno della sua doglianza relativa al mancato riconoscimento delle retribuzioni dal giorno del licenziamento senza necessità di un atto di messa in mora del datore di lavoro. La motivazione della sentenza contiene una chiaro riferimento alla giurisprudenza espressa in materia di licenziamento nullo perchè intimato durante lo stato di gravidanza della lavoratrice ("con l'appello principale la P. ... ha comunque rilevato la contrarietà di tale decisione rispetto a tutta la consolidata elaborazione giurisprudenziale, in base alla quale la lavoratrice licenziata in stato di gravidanza non ha alcuna necessità di fare offerta della propria prestazione. La censura è completamente fondata...ed è qui inutile riportare i principi giurisprudenziali in materia, ampiamente citati nel ricorso in appello ed a tutti noti").

E' evidente che non si versa in una situazione di motivazione apparente, essendo stata indicata la fattispecie legale cui atteneva l'orientamento giurisprudenziale condiviso e nella quale era ritenuta sussumibile la fattispecie concreta e tale giudizio espresso dal giudice di merito non è stato specificamente censurato in sede di ricorso per cassazione.

Va pure osservato che soddisfa l'obbligo di motivazione la sentenza del giudice di merito che, in punto di diritto e sulla questione discussa e decisa, abbia riportato l'orientamento della giurisprudenza di legittimità, dichiarando di condividerlo e di volervisi uniformare, in quanto anche in tal caso e con tali modalità risultano esposte, sia pure sinteticamente, le ragioni giuridiche della decisione (Cass. n. 13066 del 2007).

[...]

In ordine al quarto motivo, deve osservarsi che i principi di diritto di cui il giudice di appello ha fatto applicazione nel caso in esame sono quelli affermati dalla costante giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la nullità del licenziamento derivante dalla normativa di tutela delle lavoratrici madri comporta l'obbligo datoriale di pagare le retribuzioni anche in mancanza di richiesta di ripristino del rapporto, dovendo il rapporto ritenersi come mai interrotto (cfr. Cass. n. 6595 del 2000; n. 1312 del 1998, n. 16189 del 2002, n. 10531 del 2004, nn. 426 e 10139 del 2005). Il licenziamento intimato in violazione delle norme anzidette è improduttivo di effetti, con la conseguenza che il rapporto deve ritenersi giuridicamente pendente e il datore di lavoro inadempiente va condannato a riammettere la lavoratrice in servizio ed a pagarle tutti i danni derivanti dall'inadempimento, in ragione dal mancato guadagno (Cass. n. 18537 del 2004). La nullità è comminata per il solo fatto che il licenziamento viene intimato nell'arco temporale protetto, risultando, pertanto, tale declaratoria del tutto svincolata dalle motivazioni - eccetto l'ipotesi della giusta causa - che l'abbiano determinato e, tra l'altro, indipendentemente dall'elemento psicologico del recedente.

Al riguardo, la società ricorrente non ha addotto argomenti atti a contrastare le ragioni su cui l'orientamento giurisprudenziale anzidetto si fonda, limitandosi ad opporre una propria diversa soluzione interpretativa, del tutto svincolata dall'esame e dalla confutazione della giurisprudenza costante."

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 18-09-2012, n. 15653

Disciplina del giuramento decisorio.


"Il motivo, infatti, non coglie la ratio della decisione resa dal Tribunale, che fonda l'inammissibilità dell'istanza di giuramento decisorio non già sugli aspetti relativi alle modalità formali della sua proposizione sui quali indugia la ricorrente, bensì sul contenuto stesso delle formule decisorie utilizzate, che sono state ritenute non suscettibili di integrare gli estremi della dichiarazione favorevole alla parte che è richiesta di renderla sotto giuramento.

In altri termini, il Tribunale ha applicato il principio, enunciato più volte da questa Corte (Cass., sez. 1, 22 novembre 2006, n. 24855; Cass., sez. lav., 2 settembre 2003, n. 12779; Cass., sez. 3, 16 novembre 1979, n. 5955), per cui la formula del giuramento decisorio - oltre che risolversi in articoli separati, chiari e specifici, vertenti su fatti idonei a definire, in tutto o in parte, la lite - deve essere congegnata in modo che il destinatario possa, a sua scelta, giurare e vincere la lite o non giurare e perderla.

Sicchè, "un giuramento formulato in modo da non consentire l'attuazione di detto meccanismo è inammissibile, in quanto la sua mancata prestazione, non potendo essere considerata come riconoscimento della fondatezza della pretesa della parte avversa, non potrebbe essere posta a base delle sentenza di condanna"; apprezzamento in concreto, quello rimesso al giudice del merito, insindacabile in sede di legittimità ove congruamente motivato e privo di vizi logici e giuridici.

Risulta, dunque, evidente come il motivo di ricorso in esame manchi di censurare proprio il fondo della decisione assunta nella sentenza impugnata e cioè il fatto che il Tribunale abbia ritenuto che le modalità del deferimento del giuramento sull'avvenuto pagamento da parte dei coniugi S. - M. della somma poi oggetto del decreto ingiuntivo opposto ("Giuro e giurando affermo di aver ricevuto..."), nonchè del giuramento sulla qualità di socia della società 3D s.n.c. - esecutrice dei lavori condominiali - in capo alla D.A., la quale, rivestendo anche la carica di amministratrice del Condominio "(OMISSIS)", si sarebbe trovata in una situazione di conflitto di interessi ("Giuro e giurando affermo di essere contitolare della Società 3D..."), non vertevano su fatti che avrebbero giovato al dichiarante (la stessa D.A.), riproducendo invece fatti favorevoli alla stessa parte che aveva deferito il giuramento e che alla parte alla quale esso era stato deferito avrebbero nuociuto."

Cass. civ. Sez. II, Sent., 18-09-2012, n. 15642

Silenzio: quando può considerarsi illegittimo?



Silenzio: quando può considerarsi illegittimo?

Sulla legittimità o meno del silenzio serbato dalla P.A. a seguito della presentazione da parte di un cittadino di un'istanza tesa a sollecitare l'esercizio di un potere sanzionatorio nei riguardi di un terzo.

T.A.R. / T.A.R. Marche - Ancona / Sentenza 13 settembre 2012 da NORMA

21 settembre 2012

Sproporzione tra spese liquidate dal Giudice e valore della causa.


"Da accogliere è invece il quinto motivo di ricorso, con cui il ricorrente si duole della liquidazione delle spese di lite, stabilita in milleottocento Euro oltre iva e c.p.a., sebbene il valore della lite fosse solo di 172 Euro e parte opponente non avesse neppure depositato nota spese.

Fondatamente il ricorso si chiede quale sia stato il "criterio di ragionevolezza utilizzato dal giudice di prime cure per fondare il proprio giudizio di equità".

Manca infatti in sentenza, sebbene la liquidazione sia estranea ad ogni parametro tariffario conosciuto, qualsiasi giustificazione e motivazione della liquidazione.

L'omessa indicazione, in caso di abnorme superamento del massimo tariffario, del diverso criterio adottato per discostarsi dai limiti posti dalle tariffe, e delle ragioni per le quali il giudice abbia ritenuto che il relativo superamento non contrasti con i principi sottesi all'adozione ed al contenuto delle tariffe rende palese la sussistenza della violazione dei principi informatori della materia.

Discende da quanto esposto l'accoglimento del solo quinto motivo ricorso.

La sentenza impugnata va conseguentemente cassata e la cognizione rimessa ad altro giudice di pace di Catania per nuova liquidazione delle spese di lite controverse e di quelle di questo giudizio. Va precisato che l'amministratore non necessitava di preventiva autorizzazione dell'assemblea per agire in giudizio, richiesta soltanto per le liti attive e passive esorbitanti dalle incombenze proprie dell'amministratore stesso (Cass. SU 18331/10; 21841/10)."

Cass. civ. Sez. II, Sent., 18-09-2012, n. 15638

Interpretazione del contratto e formulazione letterale della dichiarazione negoziale.


"A tal proposito, questa Corte ha già avuto occasione di affermare che "In tema di interpretazione del contratto - che costituisce operazione riservata al giudice di merito, le cui valutazioni sono censurabili in sede di legittimità soltanto per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale o per vizio di motivazione - ai fini della ricerca della Comune intensione dei contraenti, il primo e principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto, con la conseguente preclusione del ricorso ad altri criteri interpretativi, quando la Comune volontà delle parti emerga in modo certo ed immediato dalle espressioni adoperate, e sia talmente chiara da precludere la ricerca di una volontà diversa. Il rilievo da assegnare alla formulazione letterale dev'essere peraltro verificato alla luce dell'intero contesto contrattuale, e le singole clausole vanno considerate in correlazione tra loro, dovendo procedersi al loro coordinamento a norma dell'art. 1363 cod. civ., e dovendosi intendere per "senso letterale delle parole" tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole alfine di chiarirne il significato" (Cass. 2005 n. 28479)."

Cass. civ. Sez. II, Sent., 18-09-2012, n. 15629

Il compenso per prestazioni professionali e la convenzione intervenuta fra le parti.


"Anche il secondo motivo di ricorso, che denuncia violazione dei minimi tariffari obbligatori e degli artt. 1339, 1418, 1419 e 2233 c.c., art. 112 c.p.c. è palesemente infondato.

La Corte d'appello ha individuato una prima ratio decidendi, costituita dalla mancata prova che il compenso forfettario fosse inferiore ai minimi tariffari. Ha comunque opportunamente osservato che in ogni caso la pattuizione di un compenso inferiore a tali minimi sarebbe stata perfettamente legittima. Ha anche indicato un preciso precedente di legittimità che specifica come tra privato e professionista (quali sono il committente M. e l'architetto B.) è possibile pattuire un compenso che deroghi ai minimi della tariffa professionale (Cass. 1223/03).

Incomprensibilmente il ricorso propone una diversa interpretazione di questa sentenza, ma la Corte intende ribadire, come ha fatto di recente (con Cass 21235 del 05.10.2009) che "il compenso per prestazioni professionali va determinato in base alla tariffa ed adeguato all'importanza dell'opera solo nel caso in cui esso non sia stato liberamente pattuito, in quanto l'art. 2233 c.c. pone una garanzia di carattere preferenziale tra i vari criteri di determinazione del compenso, attribuendo rilevanza in primo luogo alla convenzione che sia intervenuta fra le parti e poi, solo in mancanza di quest'ultima, e in ordine successivo, alle tariffe e agli usi e, infine, alla determinazione del giudice, mentre non operano i criteri di cui all'art. 36 Cost., comma 1, applicabili solo ai rapporti di lavoro subordinato. La violazione dei precetti normativi che impongono l'inderogabilità dei minimi tariffari (quale, per gli ingegneri ed architetti, quello contenuto nella L. 5 maggio 1976, n. 340) non importa la nullità, ex art. 1418 c.c., comma 1, del patto in deroga, in quanto trattasi di precetti non riferibili ad un interesse generale, cioè dell'incera collettività, ma solo ad un interesse della categoria professionale".

Pertanto ove anche l'accordo forfettario abbia condotto a un importo inferiore ai minimi tariffari giustamente viene considerato legittimo."

Cass. civ. Sez. II, Sent., 18-09-2012, n. 15628

19 settembre 2012

Opponibilità ex L. 689/81 solo dell'ordinanza ingiunzione e non dell'avviso di pagamento (ma non per le sanzioni al Codice della Strada)


"Con il secondo il ricorrente afferma che erroneamente sarebbe stata affermata l'opponibilità L. n. 689 del 1981, ex artt. 22 e 23, soltanto dell'ordinanza ingiunzione, ben potendo il trasgressore opporsi preventivamente alla sanzione, come nel caso di violazioni del codice della strada.

[...]

La impugnabilità dell'atto amministrativo opposto L. n. 689 del 1981, ex art. 23, costituisce questione rilevabile d'ufficio e non eccezione a cura di parte soggetta alle preclusioni previste dal codice di rito civile. Attiene infatti all'ammissibilità stessa dell'opposizione (Cass. 314/99; 1240/03).

L'amministrazione contumace poteva pertanto farne oggetto di censura in sede di appello, volta a far dichiarare che l'atto notificato non era soggetto ad impugnazione.

Quanto alla impugnabilità dell'atto, va richiamato il costante insegnamento giurisprudenziale secondo il quale in tema di opposizione all'applicazione di sanzioni amministrative, il verbale di accertamento delle violazioni per le quali sia prevista l'irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria non è, di per sè, lesivo di situazioni giuridiche soggettive della persona cui sia attribuita la violazione, trattandosi di un atto di natura procedimentale cui fa seguito un'attività istruttoria destinata a concludersi, ove l'autorità competente ritenga la sussistenza dell'infrazione contestata, con l'emanazione del provvedimento irrogativo della sanzione, la cui impugnabilità, in sede giurisdizionale, è espressamente riconosciuta dal legislatore (Cass. 17674/04; 11797/05; 12696/07; 21493/07).

A tale principio è fatta eccezione solo per le contravvenzioni al codice della strada, relativamente alle quali il verbale di accertamento dell'infrazione, in forza della normativa speciale prevista al riguardo, possiede potenziale attitudine a divenire titolo esecutivo ed a porsi, pertanto, quale atto terminale del procedimento sanzionatorio in luogo dell'ordinanza ingiunzione: per le altre violazioni soggette alla disciplina generale della L. n. 689 del 1981, il verbale di accertamento è privo di tale potenziale efficacia, e non è, quindi, direttamente impugnabile in sede giurisdizionale (Cass. 20167/04).

La giurisprudenza più recente è intervenuta in argomento, sia pur senza esaurire le sfumature problematiche della materia, formulando aperture sfociate in Cass. SU 12944/09, la quale, sul solco di SU 19 novembre 2007 n. 23832, ha sancito che: "L'atto amministrativo di sollecito di pagamento, pur distinguendosi dall'avviso di mora, per la sua natura ontologicamente non impositiva, è autonomamente impugnabile da parte del destinatario, davanti al giudice competente, quando, nonostante il carattere atipico derivante dalla diversa denominazione attribuitagli dall'Amministrazione, abbia lo stesso contenuto e funzione del provvedimento tipizzato impugnabile. Ne consegue l'ammissibilità dell'opposizione ad ordinanza ingiunzione L. 24 novembre 1981, n. 689, ex art. 23, avverso un atto contenente un sollecito di pagamento per una sanzione amministrativa rientrante nell'ambito di applicazione di tale legge".

Nella specie, dal brevissimo e non autosufficiente motivo di ricorso, non emerge quale fosse il contenuto dell'atto impugnato, che è desumibile dalla sentenza impugnata, la quale ha precisato che si trattava di atto di contestazione della violazione di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 190, utile a innescare, L. n. 689 del 1981, ex art. 16, il procedimento sanzionatorio.

Non si trattava quindi di atto sanzionatorio motivato, emesso a seguito di istruttoria e calibrato, in relazione ad an e quantum della sanzione, con riferimento alle deduzioni di controparte.

Su questo presupposto non vi è equiparabilità tra l'avviso di pagamento de quo e l'ordinanza ingiunzione che avrebbe potuto essere emessa al termine del procedimento amministrativo, con la conseguenza che la opposizione proposta era inammissibile. Il Collegio condivide quanto osservato nella relazione preliminare, che è stata sostanzialmente qui riportata.

Va sottolineato che l'avviso di pagamento ha funzione ben diversa dalla sanzione, poichè vuole stimolare, anche attraverso il pagamento in misura ridotta, una definizione anticipata del procedimento sanzionatorio.

Ove il trasgressore non si avvalga dell'opportunità datagli, all'amministrazione resta la possibilità di proseguire ed emettere l'ordinanza ingiunzione sia tenendo conto delle eventuali deduzioni difensive inoltratele, sia valutando, con tempistica meno stringente di quella impostale dall'obbligo di contestazione tempestiva, le ragioni e i fatti da porre a fondamento della pretesa.

Ammettere un'anticipata opposizione, in presenza di un atto che non sia, in tutto e per tutto, identico a quello definitivo significherebbe stravolgere il disposto normativo di cui all'art. 689/81."

Cass. civ. VI - 2, Ord., 17-09-2012, n. 15596



Notifica presso il procuratore costituito, anche se non domiciliatario.


"Secondo la costante giurisprudenza di questa Suprema Corte, allorchè la notificazione di un atto debba per espressa disposizione di legge, come nel caso della notificazione della sentenza, essere compiuta presso il procuratore costituito, diviene irrilevante la circostanza che tale procuratore sia o no anche domiciliatario della parte, essendo egli l'unico legittimato, e non questa, alla ricezione dell'atto medesimo, con la conseguenza che, qualora la parte si sia costituita in giudizio a mezzo di due procuratori, è valida, al fine della decorrenza del termine per l'impugnazione, la notificazione della sentenza effettuata presso uno di questi, ancorchè la parte stessa abbia eletto presso l'altro il proprio domicilio (Cass. nn. 7094/82, 3995/83, 7699/86, 5774/88 e 5759/04), sempre che il procuratore destinatario della notificazione non sia esercente fuori dal circondario e non eligente domicilio R.D. n. 37 del 1934, ex art. 82, (Cass. nn. 8169/04 e 2774/11). Norma, quest'ultima, che si applica al giudizio di primo grado, come si evince dal riferimento alla "circoscrizione del tribunale" e trova applicazione al giudizio d'appello solo se trattasi di procuratore esercente fuori del distretto, attesa la ratio della disposizione, volta ad evitare di imporre alla controparte l'onere di una notifica più complessa e costosa se svolta al di fuori della circoscrizione dell'autorità giudiziaria procedente e ad escludere un maggiore aggravio della notifica ove il procuratore sia assegnato al medesimo distretto ove si svolge il giudizio di impugnazione (Cass. nn. 13587/09 e 11486/10).

Nella fattispecie, il procuratore cui è stata effettuata la notifica della sentenza d'appello risulta esercitare la professione nel circondario di Treviso e, quindi, nel distretto della Corte d'appello di Venezia, per cui la notificazione della sentenza a lui soltanto e non anche al procuratore domiciliatario, non è d'ostacolo alla produzione dell'effetto di cui all'art. 326 c.p.c..

Conseguentemente, essendo stata notificata la sentenza d'appello l'I.3.2010 e il ricorso per cassazione il 13.1.2011, quest'ultimo risulta tardivo, per cui se ne impone la declaratoria d'inammissibilità."

Cass. civ. VI - 2, Ord., 17-09-2012, n. 15594

Successione nel processo: i soci di una società di persone cancellata dal registro delle imprese


"Il primo motivo è infondato, per le ragioni di seguito precisate.

Con esso i ricorrenti, censurano l'affermazione della Corte d'appello che ha negato la legittimazione di G.B. (ora defunto) ed C.E. personalmente a proporre appello avverso la sentenza di primo grado del presente giudizio - pronunciata nei confronti della G. L. s.n.c., con le consequenziali determinazioni assunte nei confronti della società stessa, in persona del liquidatore - onde far valere i diritti originariamente spettanti ad una società cancellata dal registro delle imprese, sul presupposto secondo cui l'ordinamento delle società di persone - quale è quella in nome collettivo - prevede la corresponsabilità della società e dei soci, ma affinchè le persone fisiche possano essere ritenute responsabili di una obbligazione che riguarda la società occorre che dette persone siano individuate nella loro qualità di soci, non nella più ampia qualità di persone fisiche, scollegata dalla società, come si è verificato nella specie.

Secondo i ricorrenti, dopo l'entrata in vigore del D.Lgs. n. 6 del 2003, una siffatta affermazione non avrebbe più fondamento, poichè le modifiche apportate dal legislatore al testo dell'art. 2495 cod. civ., renderebbero invece evidente che la cancellazione di una società di capitali dal registro delle imprese implica la definitiva estinzione dell'ente, e che tale conclusione non potrebbe non essere sistematicamente estesa anche all'ipotesi di cancellazione dal registro di una società di persone.

I ricorrenti, perciò, chiedono a questa Corte di affermare che la cancellazione di una società in nome collettivo dal registro delle imprese ha efficacia costitutiva e comporta l'immediata estinzione della medesima società, con la conseguenza che questa non può più essere considerata titolare dei diritti o degli obblighi che in precedenza facevano ad essa capo; e che siffatto principio è applicabile, a partire dal 1 gennaio 2004, data di entrata in vigore del citato D.Lgs. n. 6 del 2003, anche con riguardo a cancellazioni intervenute in epoca anteriore, secondo quanto affermato dalle Sezioni unite di questa Corte, con le sentenze n. 4060, n. 4061 e n. 4052 del 22 febbraio 2010.

Come è stato sottolineato da Cass. 16 luglio 2010, n. 16758 (che ha esaminato una fattispecie simile alla presente), nelle anzidette sentenze è stato affermato: che l'art. 2495 c.c., comma 2, come modificato dal D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, art. 4: a) non è norma interpretativa, bensì innovativa ed ultrattiva, pur essendo diretta a disciplinare anche gli effetti delle cancellazioni delle iscrizioni di società di capitali e cooperative intervenute precedentemente alla sua entrata in vigore (1 gennaio 2004), prevedendo la loro estinzione a partire da tale data in conseguenza dell'indicata pubblicità, diversamente da quanto opinava l'unanime pregresso orientamento della giurisprudenza di legittimità; b) per ragioni di ordine sistematico, dalla stessa data del 1 gennaio 2004 anche per le società di persone, pur restando esclusa l'efficacia costitutiva della cancellazione dal registro (impossibile in difetto di analoga efficacia della loro iscrizione), l'intervenuta cancellazione fa presumere il venir meno della capacità e della legittimazione dell'ente, pur se perdurino rapporti o azioni in cui esso era parte, stante l'esigenza di garantire la parità di trattamento dei terzi creditori di entrambi i tipi di società, onde occorre far leva sull'analogia juris ed utilizzare, anche per le società di persone, regole corrispondenti alla nuova disciplina introdotta per definire gli effetti della cancellazione delle società di capitali.

Da tali principi non v'è ragione di discostarsi nel presente caso, nel quale si pone, però, un problema ulteriore, non sottoposto all'attenzione delle Sezioni unite nelle suindicate sentenze e, invece, esaminato da Cass. 16 luglio 2010, n. 16758 cit.: se (ed eventualmente in qual misura) spetti ai singoli soci la legittimazione a far valere in giudizio diritti o azioni la cui titolarità competeva alla società prima della sua cancellazione, ovvero quale è la sorte dei rapporti processuali che facevano capo alla società ove ne sopravvenga, in corso di causa, la cancellazione (vedi, sul punto, per una fattispecie particolare, Cass. 16 maggio 2012, n. 7676).

All'indomani della riforma del diritto societario che ha condotto alla nuova formulazione dell'art. 2495 cod. civ., la dottrina ed, in taluni casi, anche la giurisprudenza di merito non hanno mancato d'interrogarsi sulla sorte delle sopravvenienze attive scoperte dopo la cancellazione della società dal registro o sulla sorte dei residui patrimoniali attivi non liquidati prima della cancellazione (così come sulla situazione dei processi di cui la società cancellata fosse parte). E diverse soluzioni sono state prospettate:

1) da taluni è stata ipotizzata la necessità della nomina di un curatore speciale, deputato al completamento delle attività non ultimate dal liquidatore prima della cancellazione; 2) da altri è stato invocato il potere del giudice del registro di cancellare d'ufficio le iscrizioni - in questo caso la pregressa cancellazione della società - effettuate in difetto delle condizioni richieste dalla legge (vedi: Cass. SU 9 aprile 2010, n. 8426); 3) da altri ancora è stato configurato un meccanismo successorio dal quale scaturirebbe una situazione di comunione tra gli ex soci, avente ad oggetto i beni non liquidati, o comunque una contitolarità in capo a costoro dei diritti spettanti alla società prima della cancellazione.

Non sembra, tuttavia, che sia necessario prendere posizione su tali opzioni ricostruttive nel presente giudizio, nel quale non di sopravvenienze o residui attivi deve parlarsi, bensì di una pretesa il cui carattere contenzioso rende problematico anche costruire - secondo il suggerimento che s'è visto provenire da una parte della dottrina per le sopravvenienze attive - un meccanismo successorio dal quale possa scaturire una situazione di comunione tra gli ex soci, o comunque una contitolarità in capo a loro di diritti prima spettanti alla società.

Prima ancora d'interrogarsi sulla possibilità che solo alcuni tra gli eventuali successori o contitolari siano legittimati all'esercizio di una simile pretesa, occorre considerare come sia assai dubbio che l'azione, in appello esercitata solo da alcuni degli ex soci non qualificatisi come tali, possa corrispondere ad una posizione giuridica loro trasmessa dalla società estinta: perchè, se è indiscutibile che la società medesima sarebbe stata legittimata a continuare a difendere i proprì diritti nella presente controversia e, quindi, anche a proporre l'atto di appello di cui si discute, sta di fatto che con la decisione di porsi in liquidazione e cancellarsi dal registro (decisione assunta molto dopo l'inizio del presente giudizio), ha evidentemente scelto di non farlo.

Certamente un successore può esercitare un'azione spettante al suo dante causa, ma soltanto se risulti che egli agisca in qualità di socio abilitato a succedere nel processo alla società estinta (Cass. 16 maggio 2012, n. 7676 cit.) e non ricorra un pregresso comportamento del dante causa inequivocabilmente inteso a rinunciare alla pretesa azionata, giacchè in tal caso è venuto meno l'oggetto stesso dell'ipotizzata trasmissione successoria (Cass. 16 luglio 2010, n. 16758 cit).

Ne consegue che la motivazione dell'impugnata sentenza va esente dalle censure prospettate dai ricorrenti e il primo motivo del ricorso deve esser rigettato, con l'enunciazione del seguente principio di diritto: "In caso di cancellazione di una società di persone dal registro delle imprese, intervenuta nel corso di un giudizio iniziato nei confronti della società, singoli soci possono essere legittimati a proseguire il giudizio stesso solo se risulti che agiscano in qualità di soci abilitati a succedere nel processo alla società estinta e sempre che non risulti che la società, sciogliendosi e facendosi cancellare dal registro, abbia scelto di non coltivare il processo stesso"."

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 17-09-2012, n. 15525

Esercizio del diritto di opzione L. n. 300 del 1970, ex art. 118, comma 5 e ammontare del risarcimento in caso di ritardata corresponsione dell'indennità.


"Con il motivo proposto si allega la violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 5. L'interpretazione seguita dalla Corte di appello contrasta con l'orientamento prevalente della Suprema Corte di cassazione secondo cui il diritto al risarcimento del danno è conseguenza preminente dell'accertamento dell'illegittimità del recesso e solo in via mediata dell'ordine di reintegrazione e trova un limite solo con l'adempimento effettivo dell'obbligazione pecuniaria, comportamento che la legge considera equivalente alla reintegrazione nel posto di lavoro ove il lavoratore eserciti il diritto all'opzione. La legge mira a realizzare in modo effettivo il diritto del lavoratore a non subire danni (o a limitarli al minimo dal licenziamento subito), il che impedisce al datore di lavoro di tardare nel pagamento dell'indennità sostitutiva.

Il motivo appare fondato. L'orientamento seguito dalla Corte territoriale nella sentenza impugnata appare contrastante con quello prevalente (e comunque preferibile) della Corte di cassazione secondo il quale il danno da risarcire in caso di licenziamento illegittimo e di esercizio del diritto di opzione, va commisurato alle retribuzioni che sarebbero maturate fino al giorno del pagamento dell'indennità sostitutiva e non fino alla data in cui il lavoratore ha operato la scelta (cass. n. 24199/2009; cass. n. 6342/2009, cass. n. 2262/2007 e più di recente cass. n. 3481/2012 e cass, n. 6735/2010). Le ragioni anche di ordine "sistematico" di questa soluzione interpretativa sono state molto efficacemente ricordate sin dalla decisione n. 24199/2009 secondo la quale "il sistema dell'art. 18 cit. sì fonda sul principio di effettiva realizzazione dell'interesse del lavoratore a non subire, o a subire al minimo, i pregiudizi conseguenti al licenziamento illegittimo; principio che Cass. n. 6342 del 2009 chiama "di effettività dei rimedi" e che impedisce al datore di lavoro di tardare nel pagamento dell'indennità in questione assoggettandosi al solo pagamento di rivalutazione e interessi ex art. 429 c.p.c.. Il principio di effettività dei rimedi giurisdizionali, espressione dell'art. 24 Cost., significa per quanto qui interessa che il rimedio risarcitorio, ossia del risarcimento del danno sopportato dal lavoratore per ritardato percepimento dell'indennità sostitutiva ex art. 18 cit., deve ridurre il più possibile il pregiudizio subito dal lavoratore e, in corrispondenza, distogliere il datore di lavoro dall'inadempimento o dal ritardo nel l'adempiere l'obbligo indennitario ......... l'ammontare del risarcimento del danno da ritardo deve essere pari alle retribuzioni perdute, fino a che il lavoratore non venga effettivamente soddisfatto". (cfr. anche cass. n. 3481/2012). In questa prospettiva ermeneutica il regime dell'opzione e la determinazione del danno risarcibile vengono persuasivamente collegati e saldati con il complessivo regime normativo di cui all'art. 18 ed ai valori sottesi alla disciplina garantistica statutaria, diretti a tutelare con strumenti processuali efficaci e tempestivi il diritto del lavoratore ad una idonea tutela (anche dal punto di vista risarcitorio e sotto il profilo della deterrenza) contro il licenziamento ingiustificato che oggi trova riscontro anche sul piano dei valori e dei principi dello stesso ordinamento sovranazionale all'art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, certamente non direttamente applicabile alla fattispecie ex art. 51 della stessa Carta (non investendo la presente controversia una questione di diritto dell'Unione), ma che può certamente operare come fonte di "libera interpretazione" anche del dato normativo nazionale, stante il suo "carattere espressivo di principi comuni agli ordinamenti Europei" (Corte cost. n. 135/2002) e, quindi, in linea generale, operanti anche nei sistemi nazionali (sull'art. 30 della Carta cfr. cass. 29678/2010; sul rilievo della Carta come fonte interpretativa cfr.

cass. n. 28658/2010, cass. n. 7/2011,sul richiamo alla Carta anche in caso non di diritto comunitario cfr. Corte cost. n. 93/2010, n. 81/2011, Corte cost. n. 31/2012). La soluzione prescelta rafforza, anche alla luce di principi comuni agli stati dell'Unione, la garanzia di un pronto ristoro del danno in favore del lavoratore e dissuade, come detto, il datore di lavoro da ritardi e dilazioni nel pagamento di una indennità dovuta per la lesione di un diritto fondamentale anche di matrice Europea.

Pertanto va accolto il ricorso, va cassata la sentenza impugnata con rinvio, anche per le spese, alla Corte di appello di Roma in diversa composizione che si atterrà al seguente principio di diritto "in caso di esercizio del diritto di opzione L. n. 300 del 1970, ex art. 118, comma 5 l'ammontare del risarcimento in caso di ritardata corresponsione dell'indennità deve essere pari alle retribuzioni perdute fino a che il lavoratore non venga effettivamente soddisfatto"."

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 17-09-2012, n. 15519

18 settembre 2012

La cartella, quale 1° atto che informa della sanzione, è impugnabile ex art. 22 L. 689/81


"Il ricorrente ha impugnato sei diversi verbali per violazioni al codice della strada, assumendo di non aver mai ricevuto regolare notifica degli stessi, perchè eseguita ai sensi dell'art. 143 c.p.c., e di aver avuto conoscenza dei verbali in questione soltanto il 21 dicembre 2009 in occasione di un suo accesso ad Equitalia di Sassari per il pagamento di altri di tributi.

Il ricorrente ha chiaramente indicato la natura recuperatoria dell'opposizione proposta, che poneva a suo fondamento la mancata notificazione dell'atto presupposto.

Il giudice di pace non avrebbe dovuto pronunciarsi ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 23, comma 1, dovendo invece verificare la correttezza dell'assunto in ordine alla mancata conoscenza dell'atto presupposto ed in relazione ai vizi di notifica denunciati.

Costituisce, infatti, orientamento consolidato di questa Corte, pienamente condiviso da questo Collegio, il principio secondo cui in relazione alla cartella esattoriale o all'avviso di mora emessi per riscuotere sanzioni amministrative pecuniarie è ammissibile l'opposizione L. 24 novembre 1981, n. 689, ex art. 22, allorchè la parte assuma che tali atti sono i primi attraverso i quali essa è venuta a conoscenza della sanzione irrogatale in quanto sia mancata la notifica dell'ordinanza ingiunzione (Cass. 18-7-2005 n. 15149, Cass. 13-3-2007 n. 5871), come appunto nella fattispecie.

Il ricorso va accolto, il provvedimento impugnato cassato, e la causa va rimessa per nuovo esame ad altro giudice del merito pari ordinato, che si indica in diverso giudice di pace dello stesso ufficio, cui è anche demandato, ex art. 385 c.p.c., di pronunziare sulle spese del giudizio di legittimità."

Cass. civ. VI - 2, Ord., 14-09-2012, n. 15479

Illiceità della causa e i motivi soggettivi, o intendimenti particolari, che ciascuna parte si propone di realizzare.


"Con contratto del 18 luglio 1996 la s.p.a. Saffi - Società fiduciaria finanziaria italiana concesse in mutuo alla s.r.l. Formificio Forlivese la somma di lire 100 milioni con piano di ammortamento in rate bimestrali per ventiquattro mesi, garantito dalla dazione in pegno di una quota pari all'84,21% del capitale sociale della CMC Plastici s.r.l., per un valore di lire 80 milioni, della quale la mutuataria era titolare.

[...]

Interposto appello da parte sia della Bianco s.r.l. sia della Formificio Forlivese s.r.l., e riuniti gli appelli, la Corte di Milano, con sentenza depositata il 15 febbraio 2006, ha ammesso la questione di nullità del contratto di mutuo pignoratizio in questione ed i documenti prodotti al riguardo, ed ha accertato tale nullità, per illiceità della causa. In tal senso, premesso che il contratto era intercorso in sostanza tra M.M., quale amministratore della società mutuataria, ed il medesimo, quale mandante (e fornitore della provvista) della fiduciaria mutuante Saffi in base a scrittura privata in atti, ha osservato che tale contratto non era diretto a svolgere l'obiettiva funzione sociale che lo contraddistingue (anche perchè non risultava neppure prospettata la ragione del finanziamento, in un contesto nel quale la società era priva di qualsiasi operatività e dei mezzi per restituire la somma mutuata), bensì la diversa funzione, perseguita dal M., di sottrarre alla proprietaria Formificio Forlivese la quota sociale data in pegno, finalità vietata dall'ordinamento perchè in violazione tanto degli obblighi propri dell'amministratore di società di capitali quanto della funzione propria del pegno, che non è quella di acquisizione diretta della proprietà del bene dato in garanzia. Obiettivo, questo, che risultava perseguito nella specie attraverso una condotta, tenuta da Saffi s.p.a. (evidentemente conforme alle direttive ricevute dal mandante M.), di astensione dall'intimare alla debitrice il pagamento del debito, negandole poi ogni collaborazione per consentirle di provvedervi.

[...]

Quanto ai due ricorsi principali, essi si basano su quattro motivi, tutti diretti a censurare le statuizioni della sentenza di appello aventi ad oggetto l'illiceità del contratto di mutuo pignoratizio in questione. Con il primo motivo si denuncia la violazione delle norme di diritto in materia di nullità dei contratti per illiceità della causa, sostenendo che la Corte avrebbe disapplicato il principio secondo cui i motivi o moventi soggettivi (nella specie del M., dominus effettivo dell'operazione), che non siano esteriorizzati in una condizione o patto, sono elementi estranei al contratto e ininfluenti ai fini del giudizio sulla illiceità dello stesso, salva l'ipotesi distinta di illiceità dei motivi. Con il secondo motivo si denuncia l'omissione, insufficienza e/o contraddittorietà della motivazione: la Corte avrebbe tratto il suo convincimento in merito alla illiceità della causa presupponendo, senza considerare alcune circostanze di segno contrario, che la mutuataria non avesse alcuna valida ragione per chiedere un finanziamento. Con il terzo motivo si denuncia la violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto, per avere la Corte identificato nella violazione dei doveri in capo agli amministratori di società una ragione di nullità del contratto per illiceità della causa: si sostiene che non esiste nell'ordinamento una norma che preveda in via generale l'invalidità del contratto stipulato in frode ai terzi, bensì norme che accordano diversi rimedi specifici, correlati alle varie ipotesi di pregiudizio (azione revocatoria, azione di responsabilità nei confronti dell'amministratore, azione di annullamento del contratto per conflitto di interessi del rappresentante), salve ipotesi di particolare disvalore, sanzionate anche penalmente (art. 2642 c.c.).

[...]

Le doglianze espresse con i ricorsi principali, attesa la loro connessione, possono essere esaminate congiuntamente, e meritano accoglimento, nei limiti delle considerazioni che seguono.

Invero, il tema su cui focalizzare l'attenzione non attiene alla pacifica distinzione tra i motivi soggettivi, o intendimenti particolari che ciascuna parte si propone di realizzare, e la causa quale obiettiva funzione economico - sociale del contratto. Posto che l'indagine su tale elemento essenziale del contratto va svolta non "in astratto" ma "in concreto", onde verificare - secondo il disposto degli artt. 1343 e 1344 c.c. - la conformità a legge dell'attività negoziale posta in essere dalle parti e quindi la riconoscibilità nella specie della tutela apprestata dall'ordinamento giuridico (cfr. ex multis Sez. 1 n. 1898/2000; Sez. 3 n. 5324/03; Sez. 1 n. 3646/09), una siffatta indagine in ordine alla funzione obiettiva del negozio posto in essere non può prescindere dall'apprezzamento degli interessi che lo stesso è destinato a realizzare, quali emergono dalle circostanze obiettive (pregresse, coeve e successive alla sua conclusione) secondo la valutazione, riservata al giudice del merito, del materiale probatorio acquisito. E, ove da tale indagine risulti che le parti abbiano utilizzato un determinato modello negoziale per realizzare una funzione obiettiva che sia non solo diversa da quella per la quale tale strumento giuridico è previsto dalla legge ma anche in contrasto con norme imperative (ciò che caratterizza l'illiceità della causa), il giudice deve negare al negozio posto in essere dalle parti la tutela apprestata dall'ordinamento.

Tuttavia in tale prospettiva - nella quale sembra muoversi la Corte milanese - riveste rilevanza decisiva la chiara indicazione delle norme imperative la cui violazione risulti perseguita nel contratto in esame: ed è su questo punto che la motivazione della sentenza impugnata si mostra carente, atteso che in essa è dato solo rinvenire alcuni generici riferimenti del tutto inidonei a sostenere la conclusione cui la Corte è giunta.

Ciò vale, in primo luogo, per il riferimento alla violazione (che sarebbe realizzata dalla appropriazione da parte del M. della partecipazione in CMC) degli obblighi, gravanti sugli amministratori delle società di capitali, di conservazione del patrimonio sociale, violazione che è piuttosto fonte di responsabilità a carico degli amministratori, per la quale la legge appresta in favore dei soggetti titolari degli interessi lesi mezzi tipici di reazione. Analogamente, deve ritenersi inidoneo ad individuare una violazione di norma imperativa la elusione della norma che vieta al rappresentante di acquistare beni del rappresentato, atteso che anche per tale condotta in conflitto di interessi l'ordinamento appresta in favore del rappresentato uno specifico rimedio, costituito dall'azione di annullamento del contratto concluso dal rappresentante. Quanto, poi, alla evidenziata deviazione dalla funzione di garanzia propria del pegno, con attribuzione a tale negozio della diversa funzione di strumento di acquisizione diretta da parte del creditore della proprietà del bene dato in garanzia, va osservato che, ove in tal modo si intendesse far riferimento alla violazione del divieto del patto commissorio previsto dall'art. 2744 c.c., tale riferimento sarebbe nella specie inappropriato, attesa la specifica clausola del contratto che, contrariamente all'automatismo traslativo che caratterizza il patto commissorio, prevedeva il ricorso al giudice (del quale la Saffi si è per l'appunto avvalsa) per l'assegnazione al creditore del bene dato in garanzia.

In definitiva, l'impianto motivazionale sulla illiceità della causa concreta perseguita con il negozio in esame risulta vulnerato dal difetto di una chiara e specifica individuazione ed esplicazione circa l'elemento decisivo costituito dal contrasto tra lo scopo obiettivamente perseguito con il negozio in esame ed il disposto di norme imperative. La cassazione sul punto della sentenza impugnata si impone dunque (restando assorbito il ricorso incidentale), con il rinvio della causa alla Corte territoriale, la quale provvederà anche a regolare le spese di questo giudizio di cassazione."

Cass. civ. Sez. I, Sent., 14-09-2012, n. 15449

Il difensore d'ufficio che abbia inutilmente esperito la procedura esecutiva volta alla riscossione dell'onorario, ha diritto al rimborso dei compensi ad essa relativi.


"L'avv. D.F.P., difensore d'ufficio di M. Z. nel processo penale svoltosi a carico di quest'ultimo innanzi al Tribunale di Milano, domandava al giudice innanzi al quale aveva svolto il proprio ufficio la liquidazione delle spese e delle competenze a lui spettanti, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 116, dopo aver invano notificato al patrocinato, irreperibile e di residenza, domicilio e dimora sconosciuti, apposito decreto ingiuntivo di pagamento. Il giudice, escluse le spese e le competenze concernenti il tentativo di recupero, riduceva il dovuto al solo onorario difensivo (Euro 300,00) e alle spese generali e agli accessori di legge, secondo il protocollo in uso presso il Tribunale di Milano per la liquidazione del compenso spettante ai difensori delle persone ammesse al patrocinio a carico dello Stato.

L'opposizione ex art. 170, D.P.R. cit. proposta dall'avv. D. F. era respinta dal Tribunale, il quale riteneva che nella ridetta fonte di cognizione non vi era alcuna norma esplicita che prevedesse la liquidazione delle spese sostenute dall'avvocato per recuperare coattivamente le sue spettanze, ed osservava che, in concreto, già a priori il procedimento esecutivo instaurato dall'avvocato opponente nei confronti del suo assistito appariva vano, atteso che questi soggiornava irregolarmente in Italia ed era senza fissa dimora. Rilevava, infine, che per il resto il decreto di liquidazione non era stato impugnato.

[...]

Due i motivi d'impugnazione.

Il primo denuncia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 82, 116 e 117, nonchè della L. n. 794 del 1942, art. 29, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, in quanto il giudice dell'opposizione ha disatteso i precedenti, pure richiamati in quella sede, di Cass. penale nn. 28117/07 e 27473/09, che hanno riconosciuto al difensore d'ufficio, che abbia inutilmente esperito la procedura esecutiva volta alla riscossione dell'onorario, il diritto di percepire il rimborso dei compensi ad essa relativi.

[...]

Il primo motivo è fondato.

Questa Corte ha avuto occasione di affermare che il difensore d'ufficio che abbia inutilmente esperito la procedura esecutiva volta alla riscossione dell'onorario, ha diritto al rimborso dei compensi ad essa relativi in sede di liquidazione degli stessi da parte del giudice, ai sensi del combinato disposto del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, artt. 82 e 116. Ciò in quanto l'esperimento della procedura monitoria costituisce un passaggio obbligato per chiedere la liquidazione del compenso ai sensi delle precitate norme, sicchè i relativi costi, comprensivi di spese, diritti e onorari, non possono restare a carico del professionista, ma devono rientrare fra quelli rimborsabili dall'erario (Cass. n. 24104/11, che richiama espressamente Cass. penale nn. 27473/09 e 1630/08)."

Cass. civ. VI - 2, Ord., 13-09-2012, n. 15394

17 settembre 2012

Profili di giurisdizione sulla nomina o mancata conferma del Segretario Comunale


Nomina (o mancata conferma) del Segretario Comunale: profili di giurisdizione

A chi spetta la giurisdizione sul contenzioso promosso dal Segretario Comunale che non sia stato confermato nel suo incarico, concernente anche l'avvio della procedura di nomina e individuazione di un nuovo Segretario?

T.A.R. / T.A.R. Lazio - Roma / Sentenza 3 settembre 2012 da NORMA

Sei secchione ? Puoi copiare.



Copiare agli esami di maturità si può... basta avere un ottimo curriculum scolastico!

Il Consiglio di Stato stupisce con una decisione destinata a fare discutere: a dispetto della normativa dettata in materia di concorsi pubblici, analogicamente applicabile anche agli esami di maturità, la sanzione espulsiva è stata ritenuta recessiva rispetto alle circostanze di fatto in concreto rilevabili a favore del candidato sorpreso a copiare con particolare riferimento al suo curriculum scolastico.

Consiglio di Stato / Sentenza 12 settembre 2012 da NORMA

No alla reintegra nella servitù di parcheggio se il condomino chiude il cortile con la sbarra


Tale essendo il contenuto del diritto reale del quale i ricorrenti hanno chiesto la tutela in via possessoria, assumendo di avere esercitato una servitù sul bene di proprietà di altri soggetti, la domanda possessoria non poteva trovare accoglimento per l'assorbente ragione che non è configurabile una servitù di parcheggio.

Nella giurisprudenza di questa Corte si è infatti chiarito che "in tema di possesso, l'utilizzazione, da parte dei condomini di uno stabile, di un'area condominiale ai fini di parcheggio, non è tutelabile con l'azione di reintegrazione del possesso di servitù, nei confronti di colui che - come nel caso di specie - l'abbia recintata nella asserita qualità di proprietario. Per l'esperimento dell'azione di reintegrazione occorre infatti un possesso qualsiasi, anche se illegittimo ed abusivo, purchè avente i caratteri esteriori di un diritto reale, laddove il parcheggio dell'auto non rientra nello schema di alcun diritto di servitù, difettando la caratteristica tipica di detto diritto, ovverosia la realità (inerenza al fondo dominante dell'utilità cosi come al fondo servente del peso), in quanto la comodità di parcheggiare l'auto per specifiche persone che accedono al fondo non può valutarsi come una utilità inerente al fondo stesso, trattandosi di un vantaggio del tutto personale dei proprietari" (Cass. n. 1551 del 2009). Invero, "il parcheggio di autovetture su di un'area può costituire legittima manifestazione di un possesso a titolo di proprietà del suolo, ma non anche estrinsecazione di un potere di fatto riconducibile al contenuto di un diritto di servitù, diritto caratterizzato dalla cosiddetta realitas, intesa come inerenza al fondo dominante dell'utilità così come al fondo servente del peso, mentre la mera commoditas di parcheggiare l'auto per specifiche persone che accedano al fondo (anche numericamente limitate) non può in alcun modo integrare gli estremi della utilità inerente al fondo stesso, risolvendosi, viceversa, in un vantaggio affatto personale dei proprietari" (Cass. n. 8137 del 2004).

Ed ancora, si è chiarito che "il nostro sistema giuridico non prevede la facoltà, per i privati, di costituire servitù meramente personali (cosiddette servitù irregolari), intese come limitazioni del diritto di proprietà gravanti su di un fondo a vantaggio non del fondo finitimo, bensì del singolo proprietario di quest'ultimo, sì che siffatta convenzione negoziale, del tutto inidonea alla costituzione del diritto reale limitato di servitù, va inquadrata nell'ambito del diritto d'uso, ovvero nello schema del contratto di locazione o dei contratti affini, quali l'affitto o il comodato. In entrambi i casi, il diritto trasferito, attesane la natura personale ed il carattere obbligatorio, non può ritenersi ipso facto trasmissibile, in assenza di una ulteriore, apposita convenzione stipulata dall'avente diritto con il nuovo proprietario del bene asservito. (Nella specie, il giudice di merito aveva qualificato come costitutiva di una duplice servitù, di passaggio e di parcheggio, una convenzione tra privati con la quale il venditore di un appartamento aveva altresì concesso all'acquirente, in sede di stipula dell'atto pubblico di alienazione, il diritto d'uso di uno scantinato al fine di parcheggiarvi un'autovettura - nonchè il diritto di passaggio sull'area che ne consentita l'accesso -, diritto non riconosciuto, in seguito, dagli eredi dello stesso venditore. La S.C., nel cassare la pronuncia, ha sancito il principio di diritto di cui in massima)" (Cass. n. 190 del 1999).

Alla luce di tali principi, deve quindi escludersi che la domanda possessoria proposta dal dante causa degli odierni ricorrenti, in quanto volta a tutelare non un possesso riferibile ad un diritto di proprietà sull'area in contestazione (che anzi, come rilevato, si afferma esplicitamente l'appartenenza di detta area ad altri soggetti), ma l'affermato possesso di una servitù di parcheggio dell'auto in un cortile di proprietà di altre persone, potesse essere accolta.

La sentenza impugnata, che, in riforma della sentenza di primo grado, ha rigettato la domanda possessoria proposta dal dante causa degli odierni ricorrenti, è dunque corretta nel dispositivo. Ne consegue che il ricorso per cassazione deve essere rigettato, con assorbimento del ricorso incidentale condizionato.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 13-09-2012, n. 15334

14 settembre 2012

Spending review giudiziaria: si attuerà tra un anno.


Giustizia, cambia tutto (tra un anno)

Le norme sulla riorganizzazione adottate in virtù della legge delega acquisteranno effettiva efficacia decorsi dodici mesi dalla loro entrata in vigore.

Legislazione Nazionale / Decreto Legislativo 7 settembre 2012 da NORMA