20 agosto 2012

Avvocati e fatturazione


Nel corso di un rapporto professionale, anche se è il cliente a chiedere di non effettuare la fatturazione delle somme dovute, il professionista non può sottrarsi a tale obbligo previsto dalla legge, e non costituisce circostanza attenuante della sua responsabilità, che, anzi, risulta aggravata dalla sua intenzione di porre in essere una evasione fiscale continuata, comportamento che può portare alla cancellazione dall'albo.

Cass. civ. Sez. Unite, 01-08-2012, n. 13791

03 agosto 2012

INFORTUNI SUL LAVORO - Responsabilità civile del datore di lavoro


Le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, finalizzate ad impedire la insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso. Il datore di lavoro, pertanto, è sempre responsabile dell'infortunio occorso al prestatore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente. La condotta dell'imprenditore che abbia provocato un infortunio sul lavoro per violazione delle relative prescrizioni non può essere, invero, scriminata dall'eventuale concorso di colpa del lavoratore, rilevante, in termini di esonero totale della parte datoriale, solo qualora recante i caratteri della abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, nonché come concausa dell'infortunio in ipotesi di carenza dei caratteri predetti, con proporzionale riduzione della responsabilità del datore di lavoro.

Cass. civ. Sez. lavoro, 31-07-2012, n. 13701

Giustizia Amministrativa - Stalking e licenziamento



Perseguita l'ex marito... che perde il lavoro !

E' legittimo l'ammonimento del Questore nel caso di condotta consistente nell'invio di sms, telefonate ed ingerenze nell'ambito lavorativo dell'ex marito, tali da determinarne il licenziamento dal posto di lavoro.

T.A.R. / T.A.R. Marche - Ancona / Sentenza 27 luglio 2012 da NORMA

Circolari Ministeriali e Dipartimentali - silenzio-inadempimento e Corte dei Conti



Silenzio-inadempimento della P.A., intervento della Funzione pubblica

Una circolare sul nuovo art. 2 della L. n. 241/1990 chiarisce che la trasmissione alla Corte dei Conti delle sentenze definitive che accolgono il ricorso proposto avverso il silenzio inadempimento dell'amministrazione va assicurata dagli Uffici giudiziari.

Legislazione Nazionale / Circolari Presidenziali, Ministeriali e Dipartimentali / C. Dip. Funzione Pubblica 10 maggio 2012 da NORMA

02 agosto 2012

Cassa di previdenza dei ragionieri e periti commerciali: la garanzia costituita dal principio c.d. del pro rata


"Le questioni sollevate con il ricorso ed il controricorso sono già state portate all'esame di questa Corte che si è ripetutamele pronunciata in proposito.


Vi è stato un iniziale orientamento favorevole alle tesi della Cassa (Cass., sez. lav., 25 giugno 2007, n. 14701), che ha escluso l'applicabilità della regola c.d. del pro rata (temporis), essendosi in particolare affermato che la Delib. 28 giugno e Delib. 26 luglio 1997, con le quali la Cassa nazionale di previdenza e assistenza dei ragionieri e periti commerciali ha apportato variazioni al sistema di calcolo della pensione, sono valide ed efficaci, anche nella parte in cui comportano la liquidazione della pensione sulla base dei migliori redditi di dodici anni sugli ultimi diciassette e non ai migliori redditi di dieci anni sugli ultimi quindici; a ciò non osta il principio del pro rata, cui fa riferimento il secondo periodo del citato comma dell'art. 3, il quale non è applicabile a parametri non suscettibili di frazionamento nell'arco dell'intero periodo contributivo e quindi al sistema di calcolo della pensione, il cui computo deve essere eseguito con riferimento alle norme in vigore al momento dell'accoglimento della domanda di pensionamento.


Successivamente questa Corte, seppur con riferimento ad altro (ma analogo) sistema previdenziale categoriale (la previdenza forense), si è successivamente orientata in senso opposto, favorevole agli assicurati; cfr. Cass., sez. lav., 16 novembre 2009, n. 24202, che ha affermato che "i lavoratori iscritti ad enti previdenziali privatizzati - nel caso di successione, durante il periodo dell'iscrizione, di sistemi diversi di calcolo della pensione - hanno, quindi, diritto - in ossequio, appunto, al principio del pro rata - ad altrettante quote di pensione, da calcolare - in relazione a ciascun periodo dell'anzianità maturata - secondo il sistema, rispettivamente, in vigore". In senso conforme, con riferimento alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza dei ragionieri e periti commerciali, cfr. Cass., sez. lav., 24 settembre 2010, n. 20235 (invece, con riferimento all'ENASARCO, v. Cass., sez. lav., 21 luglio 2010, n. 17102).


Più recentemente all'udienza del 6 aprile 2011 sono stati chiamati numerosi ricorsi riguardanti il sistema previdenziale della Cassa e decisi con plurime sentenze di analogo contenuto (a partire da Cass., sez. lav., 18 aprile 2011, n. 8846), favorevoli agli assicurati nel senso di ritenere applicabile nella fattispecie il principio del pro rata.


Altri analoghi ricorsi sono poi stati avviati alla trattazione in camera di consiglio sul presupposto dell'ormai più volte affermato orientamento favorevole agli assicurati (ex plurimis Cass., sez. 6^- L, 7 marzo 2012, n. 3613).


Successivamente però - anche in ragione di più estese argomentazioni sviluppate dalla difesa della Cassa ricorrente che in sostanza invoca un revirement di tale orientamento - il presente ricorso ed altri analoghi sono stati fissati in udienza pubblica, alcuni dei quali rinviati all'udienza pubblica dopo essere stati fissati per la trattazione in Camera di consiglio.


[...]


 La Cassa, in forza di tale (comunque assai ampia) investitura di potere regolamentare, ha adottato un primo regolamento del 1 gennaio 1995 che, per quanto interessa la presente controversia, ha ribadito il criterio retributivo della L. n. 414 del 1991 (art. 49, comma 2, della regolamento).


Le cose cambiano profondamente a seguito della riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare adottata dalla L. 8 agosto 1995, n. 335. Si è introdotto - com'è noto - il sistema contributivo e si è previsto il graduale passaggio a quest'ultimo dal sistema retributivo. In particolare l'art. 1, comma 12, ha previsto che per i lavoratori iscritti alle forme di assicurazione generale obbligatoria e a quelle sostitutive ed esclusive della stessa, che alla data del 31 dicembre 1995 potevano far valere un'anzianità contributiva inferiore a diciotto anni, la pensione era - ed è - determinata dalla somma di due quote distinte: la quota A) di pensione corrispondente alle anzianità acquisite anteriormente al 31 dicembre 1995 calcolata, con riferimento alla data di decorrenza della pensione, secondo il sistema retributivo previsto dalla normativa vigente precedentemente alla predetta data; la quota B) di pensione corrispondente al trattamento pensionistico relativo alle ulteriori anzianità contributive calcolato secondo il sistema contributivo.


E' questo il cosiddetto criterio del "pro rata" alla stregua del quale una parte della pensione è calcolata secondo il più favorevole previgente criterio retributivo e un'altra parte della pensione è calcolata secondo il nuovo criterio contributivo.


Il successivo comma 13 ha poi previsto una più specifica clausola di garanzia. Per i lavoratori già iscritti alle forme di previdenza suddette che alla data del 31 dicembre 1995 potevano far valere un'anzianità contributiva di almeno diciotto anni, la pensione sarebbe stata interamente liquidata secondo la normativa vigente in base al sistema retributivo.


[...]


In riferimento a tale criterio (del pro rata) può in generale considerarsi che gli assicurati hanno, non già un mero interesse di fatto al futuro trattamento pensionistico, ma una "posizione previdenziale" già maturata e che appartiene al patrimonio dell'assicurato come diritto al montante complessivo della contribuzione già versata. Ciò non vuoi dire che ci sia un diritto quesito alla pensione calcolata secondo un più favorevole criterio previgente - tra quelli in vigore al momento del versamento della contribuzione - rispetto a quello vigente al momento del collocamento in quiescenza. Ma neppure, al contrario, che l'assicurato ha solo una mera aspettativa alla pensione sicchè, quanto ai criteri di calcolo, il legislatore ordinario potrebbe liberamente determinarli nell'esercizio della sua discrezionalità.


C'è una soglia minimale di trattamento pensionistico corrispondente alla "posizione previdenziale" già maturata via via nel corso della vita lavorativa secondo un criterio sinallagmatico (contribuzione versus prestazione) al pari, ad es., della rendita vitalizia per le assicurazioni private. L'ammontare della contribuzione fino ad un certo momento accumulata dall'assicurato ha un suo valore economico in termini di potenziale rendita vitalizia; una sorta di "maturato previdenziale" che non può essere sterilizzato dal legislatore.


Quindi il sistema previdenziale pubblico e privato ha un'intrinseca soglia minimale di protezione, derivata - e garantita a livello costituzionale - dal criterio di "adeguatezza" prescritto dall'art. 38 Cost., comma 2, e modulata diacronicamente in quanto dipendente dalla variabilità di plurimi parametri che concorrono a definirla (primo tra i quali il coefficiente che esprime l'aspettativa di vita); ciò che porta a negare validità alla tesi, sostenuta dalla difesa della Cassa, secondo cui l'assicurato avrebbe soltanto una mera aspettativa di fatto ad un trattamento pensionistico (di anzianità o di vecchiaia).


Il legislatore - chiamato ripetutamente a riequilibrare il sistema pensionistico - è stato ben consapevole che, mutando in termini meno favorevoli i criteri di calcolo delle pensioni, occorre comunque apprestare una clausola di garanzia a tutela delle posizioni previdenziali già maturate nel vigore di precedenti criteri più favorevoli. Quindi la tutela del "maturato previdenziale" si traduce in una specifica clausola di garanzia, tra le tante astrattamente ipotizzabili come attualizzazione in concreto della garanzia di soglia minimale di trattamento pensionistico.


Già il legislatore della riforma del 1995 ha previsto le specifiche clausole di garanzia di cui si è detto sopra: quella massima del comma 13, art. 1 (in favore gli assicurati che alla data del 31 dicembre 1995 potevano far valere un'anzianità contributiva di almeno diciotto anni); quella "bilanciata" del precedente comma 12 (il criterio del pro rata in favore gli assicurati che alla data del 31 dicembre 1995 potevano far valere un'anzianità contributiva inferiore a diciotto anni); quella preventiva del comma 12, art. 3 (in favore degli assicurati delle Casse privatizzate ex D.Lgs. n. 509 del 1994, in caso di future modifiche peggiorative del sistema previdenziale categoriale ad opera degli emanandi Regolamenti delle Casse stesse).


Di tutti tali tre criteri può predicarsi la natura di concreta - nonchè idonea (ex art. 38 Cost., comma 2) - attualizzazione di quella soglia minimale di garanzia del maturato previdenziale di cui si è finora detto.


[...]


Insomma il legislatore nell'art. 3, comma 12, ha optato per una clausola di garanzia - quella del pro rata - che operava a tutto campo e indubbiamente costituiva uno scudo di protezione per i "vecchi" assicurati privilegiandoli rispetto ai "nuovi", così però riducendo gli ambiti di riforma possibile per le Casse privatizzate.


Questa garanzia "forte" sarebbe stata resa meno rigida soltanto con la legge finanziaria 2007 (L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 763). Ma fino a quella data il potere regolamentare della Cassa si sarebbe dovuto confrontare con tale garanzia del pro rata.


11. Posto il paletto di questa garanzia del pro rata, come norma di legge a carattere imperativo ed inderogabile dal potere regolamentare delle Casse privatizzate in genere, può ora considerarsi lo sviluppo che in concreto ha avuto l'esercizio del potere regolamentare da parte della Cassa ricorrente.


All'indomani della riforma del 1995, la Cassa - ove ciò fosse stato reso necessario da esigenze di riequilibrio del bilancio e di stabilità della gestione - avrebbe potuto già subito, in simmetria con il sistema pensionistico pubblico, adottare il criterio contributivo con il rispetto del principio del pro rata.


Invece la Cassa, nella sua discrezionalità gestionale, ha lasciato il sistema retributivo per vari anni ancora, preferendo medio tempore (nel 1997) solo un aggiustamento di quello retributivo per alleggerire il carico pensionistico: solo a partire dal 1 gennaio 2004 viene introdotto il sistema contributivo in una situazione di progressiva difficoltà nel sostenere l'onere di pensioni calcolate con il sistema retributivo tanto da porle alla fine a carico del patrimonio della Cassa e non più della contribuzione corrente (artt. 64, 65 e 66 del Regolamento in vigore a partire dalla data suddetta).


Contemporaneamente però la Cassa ha modificato anche (in peius per gli assicurati) lo stesso criterio di calcolo della quota retributiva delle pensioni maturate dopo la data suddetta sicchè il riequilibrio di gestione è stato perseguito non solo con il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo, ma anche con l'"aggiustamento" dello stesso sistema retributivo.


[...]


Insomma il legislatore nell'art. 3, comma 12, ha optato per una clausola di garanzia - quella del pro rata - che operava a tutto campo e indubbiamente costituiva uno scudo di protezione per i "vecchi" assicurati privilegiandoli rispetto ai "nuovi", così però riducendo gli ambiti di riforma possibile per le Casse privatizzate.


Questa garanzia "forte" sarebbe stata resa meno rigida soltanto con la legge finanziaria 2007 (L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 763). Ma fino a quella data il potere regolamentare della Cassa si sarebbe dovuto confrontare con tale garanzia del pro rata.


Posto il paletto di questa garanzia del pro rata, come norma di legge a carattere imperativo ed inderogabile dal potere regolamentare delle Casse privatizzate in genere, può ora considerarsi lo sviluppo che in concreto ha avuto l'esercizio del potere regolamentare da parte della Cassa ricorrente.


All'indomani della riforma del 1995, la Cassa - ove ciò fosse stato reso necessario da esigenze di riequilibrio del bilancio e di stabilità della gestione - avrebbe potuto già subito, in simmetria con il sistema pensionistico pubblico, adottare il criterio contributivo con il rispetto del principio del pro rata.


Invece la Cassa, nella sua discrezionalità gestionale, ha lasciato il sistema retributivo per vari anni ancora, preferendo medio tempore (nel 1997) solo un aggiustamento di quello retributivo per alleggerire il carico pensionistico: solo a partire dal 1 gennaio 2004 viene introdotto il sistema contributivo in una situazione di progressiva difficoltà nel sostenere l'onere di pensioni calcolate con il sistema retributivo tanto da porle alla fine a carico del patrimonio della Cassa e non più della contribuzione corrente (artt. 64, 65 e 66 del Regolamento in vigore a partire dalla data suddetta).


Contemporaneamente però la Cassa ha modificato anche (in peius per gli assicurati) lo stesso criterio di calcolo della quota retributiva delle pensioni maturate dopo la data suddetta sicchè il riequilibrio di gestione è stato perseguito non solo con il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo, ma anche con l'"aggiustamento" dello stesso sistema retributivo.


[...]


 In conclusione il ricorso principale va quindi rigettato con l'affermazione del seguente principio di diritto; "Nel regime dettato dalla L. 8 agosto 1995, n. 335, art. 1, comma 12 (di riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), prima delle modifiche a tale disposizione apportare dalla L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, comma 763 (legge finanziaria 2007), la garanzia costituita dal principio c.d. del pro rata - il cui rispetto è prescritto per le casse privatizzate ex D.Lgs. 30 giugno 1994, n. 509, nei provvedimenti di variazione delle aliquote contributive, di riparametrazione dei coefficienti di rendimento o di ogni altro criterio di determinazione del trattamento pensionistico, in termini peggiorativi per gli assicurati, in modo che siano salvaguardate le anzianità già maturate rispetto alla introduzione delle modifiche derivanti dai provvedimenti suddetti - ha carattere generale e trova applicazione anche in riferimento alle modifiche in peius dei crateri di calcolo della quota retributiva della pensione e non già unicamente con riguardo alla salvaguardia, ratione temporis, del criterio retributivo rispetto al criterio contributivo introdotto dalla normativa regolamentare delle Casse. Pertanto con riferimento alla Cassa nazionale di previdenza ed assistenza a favore dei ragionieri e periti commerciali e alle modifiche regolamentari adottare con Delib. 22 giugno 2002, Delib. 7 giugno 2003 e Delib. 20 dicembre 2003, che, nel complesso, hanno introdotto il criterio contributivo distinguendo, per gli assicurati al momento della modifica regolamentare, la quota A di pensione, calcolata con il criterio retributivo, e la quota B, calcolata con il criterio contributivo, opera - per il calcolo della quota A - il principio del pro rata e quindi trova applicazione il previgente più favorevole criterio di calcolo: la media di 15 redditi professionali annuali più elevati nell'arco di 20 anni di contribuzione anteriori a quello di maturazione del diritto a pensione, e non già la media dei redditi degli ultimi 24 anni"."

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 30-07-2012, n. 13607

L'area dei soggetti non fallibili delineata attraverso la previsione di una soglia quantitativa


"Il ricorrente muove dall'errato presupposto che, nel regime anteriore all'entrata in vigore dei decreti legislativi nn. 5/06 e 167/07, l'accertamento della qualità di piccolo imprenditore - non soggetto a fallimento ai sensi dell'art. 2221 c.c., e del precedente testo della L. Fall., art. 1 - prescindesse totalmente dalla verifica dei parametri dimensionali dell'impresa.


In contrario, anche sotto la previgente disciplina, questa Corte ha costantemente affermato che la prevalenza del lavoro sul capitale, quale criterio identificativo del piccolo imprenditore non fallibile, andasse apprezzata in concreto, tenendo conto dell'attività svolta, dell'organizzazione dei mezzi impiegati, dell'entità dell'impresa e delle ripercussioni che il dissesto produce nell'economia generale (cfr. Cass. nn. 2455/08,3690/200, nonchè, in tema di impresa artigiana, fra le tante, Cass. nn. 12847/05, 20640/04, 18835/02, che escludono la rilevanza, ai fini della fallibilità, dell'iscrizione all'apposito albo).


Il legislatore della riforma, peraltro, proprio allo scopo di superare i contrasti interpretativi sorti in ordine alla nozione di piccolo imprenditore, ha delimitato l'area dei soggetti non fallibili non più attraverso il rinvio all'art. 2083 c.c., ma attraverso la previsione di una soglia quantitativa (riferita ai tre requisiti, da considerare congiuntamente, dell'attivo patrimoniale, dei ricavi e dell'ammontare dell'indebitamento) al di sotto della quale non può farsi luogo alla dichiarazione di insolvenza (Cass. n. 13086/010).


Come correttamente osservato dalla Corte di merito, l'introduzione di concreti criteri dimensionali, in luogo dell'astratto criterio della prevalenza del lavoro sul capitale, ha indubbiamente ampliato il novero degli imprenditori non assoggettabili a fallimento, includendovi anche gli esercenti di attività commerciali che non sarebbero mai state considerate "piccole" ai sensi dell'art. 2083 c.c.: tuttavia la questione sollevata dal ricorrente (se la L. Fall., art. 1, comma 2, riformata abbia ridefinito la portata dell'art. 2083 c.c., creando una sorta di nuova categoria di piccolo imprenditore, o se, piuttosto, abbia introdotto una deroga all'art. 2221 c.c., rendendo fallibili anche i piccoli imprenditori che abbiano superato, negli ultimi tre anni di attività, 300.000 Euro di attivo patrimoniale o 200.000 Euro di ricavi, od abbiano contratto debiti per un ammontare superiore ai 500.000 Euro) è, nella specie, del tutto priva di rilievo, posto che ciò che la norma stabilisce con chiarezza è che spetta all'imprenditore di dimostrare il possesso congiunto dei requisiti dimensionali che escludono la sua fallibilità.


Tanto, del resto, in piena coerenza con il principio di prossimità della prova vigente nel nostro ordinamento (Cass. n. 13533/01, e, nel suo solco, Cass. nn. 17874/07, 9439/08), non potendosi porre a carico del creditore l'onere di allegare dati contabili di cui non ha la disponibilità e che sono, invece, nella piena disponibilità del debitore.


L'assunto del L., secondo cui tale onere andrebbe capovolto qualora il debitore sia qualificabile piccolo imprenditore ai sensi dell'art. 2083 c.c., sembra, d'altro canto, fondarsi sull'esistenza di una sorta di presunzione - non ricavabile dalle norme codicistiche - di appartenenza a tate categoria di coloro che sono iscritti nella specifica sezione del R.I. e che esercitano l'impresa in via individuale e non tiene conto che, anche alla stregua della disciplina civilistica, la prevalenza dell'apporto personale del titolare rispetto al capitale investito andrebbe accertata in concreto.

Con il terzo motivo, L. solleva questione di legittimità costituzionale della L. Fall., art. 1, comma 2, per violazione dell'art. 3 Cost., nella parte in cui addossa al debitore l'onere di provare la propria non assoggettabilità a fallimento.


Anche questo motivo è infondato.


La questione è stata infatti già esaminata e dichiarata inammissibile dal giudice delle leggi che, con la sentenza n. 198 del 2009, ha sottolineato come l'eventuale ribaltamento dell'onere della prova sul creditore o sul P.M. renderebbe spesso impossibile per costoro ottenere l'accoglimento dell'istanza proposta ed ha altresì rilevato che, in materia, residua in ogni caso in capo al Tribunale un ampio potere officioso di indagine, il cui uso prudente e consapevole costituisce strumento di per sè idoneo ad evitare, nei limiti di quanto ragionevolmente dovuto, che siano dichiarati fallimenti che, date le caratteristiche del debitore, sarebbero ingiustificati."

Cass. civ. Sez. I, Sent., 30-07-2012, n. 13542

Il capo condannatorio relativo alle spese accessorie ad una sentenza di I° grado di rigetto della domanda è immediatamente esecutivo


"Con il terzo motivo si censura la sentenza impugnata per violazione dell'art. 282 c.p.c., dovendosi, ai sensi di tale norma, ritenere esecutivo il capo di condanna alle spese, ancorchè non accessorio ad una sentenza di condanna.


Il motivo è fondato, perchè la giurisprudenza di questa Corte ha da lungo tempo affermato che il capo di condanna alle spese accessorio ad una sentenza di primo grado di rigetto della domanda, pur essendo sentenza di mero accertamento, è esecutiva ai sensi dell'art. 282 c.p.c., nel testo introdotto dalla L. n. 353 del 1990.


Tale giurisprudenza è ampiamente consolidata, sicchè non v'è alcuna situazione di contrasto che renda opportuno rimettere la questione alle Sezioni Unite, come ha sollecitato nel controricorso e continua a sollecitare il resistente.


Inoltre, non v'è alcuna situazione di contrasto dell'orientamento ormai consolidato con la sentenza n. 232 del 2004, pure evocata dal resistente.


A favore della tesi dell'esecutività immediata si vedano: Cass. n. 22495 del 2010; n, 1283 del 2010; n. 16003 del 2008; n. 16262 del 2005; 16263 del 2005; n. 8059 del 2007; n, 16262 del 2005. Le stesse Sezioni Unite, nell'esaminare (sentenza n. 4059 del 2010) la questione della esecutività dei capi condannatori accessori a sentenza costitutiva ai sensi dell'art. 2932 c.c., hanno adottato una soluzione negativa in ragione della peculiarità di tale tipo di decisione, mostrando di avallare l'idea che al di fuori di questa particolarità, la soluzione è ben diversa anche con riferimento alle stesse sentenze costitutive: si veda ampiamente in termini Cass. n. 24447 del 2011.


In particolare, sull'uno e sull'altro problema questa Corte si è ampiamente con l'ordinanza n. 6639 del 2010, emessa a seguito di decisione ai sensi dell'art. 380 bis c.p.c., e della quale è opportuno riportare la motivazione, che si è così articolata:


"(...) si deve rilevare che del tutto inesattamente ed impropriamente si attribuisce nel ricorso alla citata sentenza della Corte costituzionale valore di legge in senso contrario a quell'asserito. In proposito, la Corte, nell'ord. n. 26276 del 2008 (sul ricorso n. r.g. 24961 del 2007) ha già osservato quanto segue: L'orientamento che ritiene applicabile l'immediata esecutività della sentenza di primo grado assoggettata ad impugnazione anche alla condanna alle spese giudiziali accessoria ad una pronuncia di rigetto (e, quindi, di mero accertamento della infondatezza della domanda) è ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte: alla sentenza n. 21367 del 2004, che parte ricorrente conosce e da cui dissente quanto alle motivazioni, sono seguite le conformi Cass. n. 16262 del 2005, n. 16263 del 2005, n. 4306 del 2008; inoltre Cass. n. 18512 del 2007, con motivazione che ricostruisce il significato del precetto di cui all'art. 282 c.p.c., autonomamente rispetto a Cass. n. 21367 del 2004, ha ritenuto provvisoriamente esecutivi i capi condannatori accessori a pronuncia costitutiva: la motivazione di questa sentenza è idonea anche a superare le perplessità affacciate nel ricorso - sulla base di Corte costituzionale n. 232 del 2004 (peraltro discutibilmente supponente che la sentenza n. 21367 del 2004 abbia usato la nozione di accessorietà nel significato rilevante ai fini delle modificazioni della competenza per ragioni di connessione ai sensi dell'art. 31 c.p.c.) - circa l'utilizzazione della nozione di accessorietà ai fini della condanna nelle spese.... la sentenza n. 232 del 2004 del Giudice delle leggi, pur avendo un dispositivo di rigetto, ha, in realtà, la sostanza di una declaratoria di inammissibilità, in quanto la Corte costituzionale esaurisce espressamente la motivazione dicendo che la questione sollevata dal rimettente è fondata su un erroneo presupposto interpretativo, che cioè l'art. 282 c.p.c., sia idoneo a giustificare l'esecutorietà del capo sulle spese di una sentenza non condannatoria nel merito.


Poichè siffatta lettura dell'art. 282 c.p.c., è stata offerta dalla Corte costituzionale non già con una pronuncia interpretativa di rigetto, per evidenziare, com'è suo tipico compito, un'interpretazione che renderebbe superabile la questione di costituzionalità dell'art. 282 c.p.c., nella specie non può venire in rilievo il principio di diritto che regola in punto di interpretazione i rapporti fra l'interpretazione del Giudice delle leggi e quella della Corte di cassazione e degli altri giudici.


Principio che è stato condivisibilmente così espresso: con la sentenza interpretativa di rigetto la Corte Costituzionale, nel ritenere non infondato il denunciato vizio di incostituzionalità della disposizione nella interpretazione non implausibile fornitane dal giudice a quo, in luogo di emettere una pronuncia caducatoria o additiva, indica una possibile, diversa interpretazione della stessa disposizione conforme a Costituzione. Tale interpretazione adeguatrice operata dal giudice delle leggi rappresenta un esito di merito del sindacato di costituzionalità che non interferisce con il controllo di legittimità rimesso alla Corte di Cassazione, ed ha un effetto vincolante per i giudici ordinari e speciali, non esclusa la stessa Corte di Cassazione, nel senso che essi non possono più accogliere quella interpretazione che la Corte costituzionale ha ritenuto, sia pure con una pronuncia di infondatezza della questione di legittimità costituzionale sottoposta al suo esame, viziata.


Essi possono solo risollevare la questione, ove non intendano aderire alla interpretazione adeguatrice del giudice delle leggi, nè ad altra interpretazione che, seppur diversa, ritengano patimenti conforme a Costituzione. (Cass. n. 166 del 2004). Viene, invece, in rilievo il principio - ribadito di recente da questa Corte ed espressione tendenziale del principio di tendenziale coerenza dell'ordinamento nelle varie manifestazioni delle competenze dei suoi organi - secondo il quale l'interpretazione di una norma sottoposta a scrutinio di costituzionalità, offerta dalla Corte costituzionale in una sentenza dichiarativa dell'infondatezza della questione, pur non essendo vincolante per il giudice chiamato successivamente ad applicare quella norma, rappresenta, per l'autorevolezza della fonte da cui proviene, un fondamentale contributo ermeneutico, che non può essere disconosciuto senza valida ragione: il fondamento comune delle due distinte attività, pur finalisticamente diverse, esige infatti che, al fine dell'utile risultato della certezza del diritto oggettivo, le interpretazioni non vengano a divergere, se non quando sussistano elementi sicuri per attribuire prevalenza alla tesi contraria a quella in precedenza affermata (Cass. n. 5747 del 2007).


Questo principio, peraltro, non si attaglia al caso di specie, nel quale il giudizio dinanzi alla giurisdizione ordinaria pervenuto a questa Corte non è quello in cui ha avuto luogo il giudicato costituzionale di rigetto (che, com'è noto, avuto riguardo all'art. 136 Cost., comma 1, non ha nemmeno un'efficacia preclusiva, potendo la questione non solo essere riproposta, sia pure con altri argomenti, ma addirittura potendo esserlo con gli stessi argomenti e ricevere una diversa risposta dalla Corte costituzionale in un diverso momento storico, come spesse volte è accaduto, non essendo la Corte stessa vincolata al suo precedente di rigetto). Viceversa, ciò che viene in rilievo nella specie è un principio più risalente, ancora una volta espressione del principio di tendenziale coerenza dell'ordinamento, pur nelle manifestazioni di competenza di organi diversi. Esso è quello secondo cui il fondamento comune delle interpretazioni, finalisticamente diverse, che compiono la Corte costituzionale e la Corte di cassazione esige che, ai fini dell'utile risultato della certezza del diritto obiettivo, le interpretazioni stesse non vengano a divergere, se non quando sussistano elementi sicuri per attribuire prevalenza alla tesi contraria a quella in precedenza affermatasi e saldamente costituita nella communis opinio dottrinale e giurisprudenziale (Cass. sez. un. n. 2175 del 1969).


Ora, è vero che l'affermazione direttamente riferita all'esegesi dell'art. 282 c.p.c. si inserisce nel solco della tradizionale interpretazione che legava l'esecutività alla sentenza di condanna nel merito, ma non ne fa proprie le premesse, posto che non esclude che l'esecutività possa riferirsi anche ai capi condannatoli di merito accessori a capi di accertamento o costitutivi che ne siano il presupposto, bensì sceglie di seguire un percorso argomentativo nuovo, cioè l'intendere la condanna nelle spese come estranea alla logica dell'anticipazione di tutela sostanziale rispetto al giudicato che sarebbe sottesa ad una norma come l'art. 282 c.p.c., (e lo sarebbe stata quando l'esecutività era riferita alla sentenza di secondo grado). Si tratta di una logica che, innanzi tutto è espressione di attività interpretativa che non assume a fondamento alcuna giustificazione costituzionale, cioè non si pone al livello dei principi costituzionali, e che, dunque, non può essere ritenuta espressione di esercizio da parte della Corte costituzionale della sua attività istituzionale di interprete dell'ordinamento costituzionale. Ne consegue che essa, ferma l'autorevolezza dell'organo da cui proviene, si pone sul piano della normale esegesi interpretativa e, pertanto, come tale può essere oggetto di dissenso, specie da parte del giudice cui compete istituzionalmente lo svolgimento della c.d. funzione di nomofilachia, atteso altresì che nella dottrina processualcivilistica da tempo era stato posto in discussione l'orientamento tradizionale. Peraltro, nella specie i passaggi argomentativi con i quali la sentenza mostra di ricollegare l'esecutività di cui dice l'art. 282 c.p.c., alla sentenza di condanna nel merito non sono nemmeno espliciti nell'individuate il fondamento di un simile collegamento esclusivo. Là dove precisano che il fondamento della condanna nelle spese è il principio di soccombenza non chiariscono perchè, una volta che il principio della soccombenza ha trovato manifestazione per il tramite del potere del giudice in una condanna, tale condanna, quale amminicolo della tutela in giudizio del diritto del convenuto che ha avuto ragione non debba trovare immediate attuazione. Va detto, semmai, che il lettore della sentenza - e ne è prova il commento che la sentenza ha ricevuto in dottrina - dall'accento posto dalla Corte sul valore del principio di soccombenza ricava l'impressione che la Corte, pur opinando che non sia l'art. 282 c.p.c., la chiave per giustificare l'esecutività del capo condannatorio alle spese giudiziali accessorio a sentenza di rigetto della domanda di merito, ritenga, in realtà, che tale esecutività si giustifichi proprio come implicazione del principio di soccombenza. Se, infatti, la giustificazione ultima di quest'ultimo è che il soggetto che agisce o resiste in giudizio non deve, se ha ragione, subire (almeno di regola: l'eccezione è il potere di compensazione) sacrifici per essere stato costretto ad agire o a resistere in giudizio, quali quelli del costo del processo, allora appare giustificato che, mano a mano che il processo segue il suo corso, l'autorità della decisione non definitiva possa giustificare l'esecutività immediata del capo sulle spese. Di modo che essa si giustifica per le ragioni poste a base dell'orientamento interpretativo sull'art. 282 c.p.c., ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte siccome espresse da Cass. n. 18512 del 2007. Esse non sono basate sul concetto di accessorietà cui allude il Giudice delle leggi e da Esso non sono state in alcun modo esaminate ed anzi parrebbero, come non ha mancato di rilevare la dottrina, ricevere surrettizio avallo. In fine, nel senso dell'orientamento qui condiviso, si veda, da ultimo, Cass. n. 16003 del 2008. Il ricorso, conclusivamente, dovrebbe essere dichiarato manifestamente infondato".


Dev'essere, dunque, ribadito che il capo condannatorio relativo alle spese accessorie ad una sentenza di primo grado di rigetto della domanda è immediatamente esecutivo ai sensi dell'art. 282 c.p.c.."

Cass. civ. Sez. III, Sent., 27-07-2012, n. 13373

L'erede beneficiato è sempre erede: è successore del defunto anche nei debiti


"Occorre muovere dalla considerazione che la dichiarazione di accettazione con beneficio di inventario - mediante la quale si realizza la separazione del patrimonio del defunto e la restrizione della responsabilità dell'erede intra vires hereditatis - è pur sempre dichiarazione di volere accettare l'eredità, sicchè l'erede beneficiato acquista i diritti caduti nella successione e diventa soggetto passivo delle relative obbligazioni. Come tale, a differenza del chiamato che non abbia ancora accettato, il quale a norma dell'art. 486 c.c., sta in giudizio in rappresentanza dell'eredità, l'erede beneficiato è legittimato in proprio a resistere e a contraddire, tant'è che l'eventuale pronuncia di condanna al pagamento dell'intero debito ereditario va emessa nei suoi confronti, salvo che, in concreto, la responsabilità andrà contenuta intra vires hereditatis nel caso in cui egli abbia fatto valere il beneficio, proponendo la relativa eccezione (Cass. civ. 19 marzo 2007, n. 6488; Cass. civ. 14 marzo 2003, n. 3791).


Posto dunque che l'erede beneficiato è, comunque, erede e che, come tale, succede anche nei debiti, l'affermazione secondo cui la disposizione dell'art. 490 c.c., comma 2, n. 2, ne limita la responsabilità per il pagamento dei debiti ereditari e dei legati intra vires e cum viribus, va posta in relazione alle cautele che nel sistema circondano l'aggressione dei beni propri dell'erede beneficiato, atteso che, a norma dell'art. 497 c.c., questi non può essere costretto al pagamento con i propri beni, se non quando è stato costituito in mora a presentare il conto e non ha ancora soddisfatto a quest'obbligo (comma 1) ovvero, dopo la liquidazione del conto, fino alla concorrenza delle somme di cui sia debitore (comma 2).


In tale contesto è stato quindi da questa Corte affermato che il beneficio d'inventario limita, normalmente, la responsabilità dell'erede non solo al valore, ma anche ai beni allo stesso pervenuti, assoggettando, in via di principio, questi e non quelli personali all'esecuzione forzata (confr. Cass. civ. 29 aprile 1993, n. 5067). Il che tuttavia non vuol dire che la vendita di un bene ereditario e il reinvestimento del denaro ricavato, rispettati gli oneri procedurali imposti dall'art. 747 c.p.c. e segg., valga a purgare definitivamente l'acquisto. E' sufficiente al riguardo considerare che il nodo della disciplina che limita la responsabilità dell'erede beneficiato è pur sempre il valore dei beni (art. 490 c.c., comma 2, n. 2, e proprio al fine di evitarne la dispersione il legislatore ha previsto non solo che gli atti dispositivi degli stessi debbano essere autorizzati, pena la decadenza dal beneficio d'inventario, dal tribunale, ma ha altresì stabilito che il giudice, quando occorre, fissi le modalità per la conservazione e il reimpiego del prezzo ricavato (art. 748 c.p.c., comma 2).


A ben vedere, infatti, in relazione all'eredità accettata con beneficio d'inventario, la trasparente ratio di tale norma è proprio quella di bloccare il valore del bene in modo che, se non cum viribus, i creditori possano comunque soddisfarsi intra vires.


Venendo al caso di specie - pacifico in causa che il bene staggito venne acquistato, in parte, anche grazie al denaro ricavato dalla vendita di un bene del de cuius e rimasto, per altro verso, fuori del dibattito processuale ogni questione in ordine a una eventuale presentazione del conto - non ha errato il giudice di merito quando ha ritenuto il cespite pignorabile ed espropriabile, ancorchè sul ricavato il creditore potrà soddisfarsi soltanto entro i limiti del valore del bene pervenuto alla minore. Nè è sostenibile che l'esecuzione dovesse essere ab initio contenuta alla sola frazione dell'immobile staggito ipoteticamente corrispondente al ricavato della vendita di quello ereditario, come la ricorrente sostiene nel terzo motivo di ricorso.


Sul piano dogmatico soccorre il rilievo, innanzi evidenziato, che l'erede beneficiato è pur sempre erede e, come tale, successore del defunto anche nei debiti; sul piano pratico, non par dubbio che la quota del bene acquistato in cui si è materializzato il valore di quello ereditario è elemento accertabile solo ex post, a esecuzione avvenuta, e che gli unici dati certi al momento del promovimento di questa sono, da un lato, il debito del de cuius rimasto impagato, e, dall'altro, il prezzo ricavato da quello ereditario reinvestito nel cespite pignorato."

Cass. civ. Sez. III, Sent., 26-07-2012, n. 13206

Più pignoramenti con lo stesso titolo esecutivo

"E' principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte che il creditore, in forza del medesimo titolo esecutivo, può procedere a più pignoramenti dello stesso bene in tempi successivi, senza dover attendere che il processo di espropriazione aperto dal primo pignoramento si concluda, atteso che il diritto di agire in esecuzione forzata non si esaurisce che con la piena soddisfazione del credito portato dal titolo esecutivo. In tal caso non si ha una situazione di litispendenza nel senso previsto dall'art. 39 c.p.c., - la cui applicazione postula la pendenza di più cause, aventi in comune le parti, la causa petendi e il petitum, incardinate dinanzi a distinte autorità giudiziarie e non davanti allo stesso giudice - ed alla pluralità di procedure così instaurate può ovviarsi con la loro riunione ex art. 493 c.p.c., senza che ciò comporti un pregiudizio per il debitore, poichè, in presenza di un pignoramento reiterato senza necessità, il giudice dell'esecuzione, applicando l'art. 92 c.p.c., può escludere come superflue le spese sostenute dal creditore procedente per reiterarlo ed il debitore può proporre opposizione contro una liquidazione delle spese che si estenda al secondo pignoramento (confr. Cass. civ. 18 settembre 2008, n. 23847)."

Cass. civ. Sez. III, Sent., 26-07-2012, n. 13204