28 giugno 2012

Elementi che rendono particolarmente gravosa la prosecuzione del rapporto locativo

"In tema di recesso del conduttore in base al disposto di cui alla L. n. 392 del 1978, art. 27, u.c., nell'ipotesi di andamento della congiuntura economica favorevole all'attività di impresa, che obblighi ad ampliare la struttura aziendale così da rendere particolarmente gravosa la persistenza del rapporto locativo, non è sufficiente la unilaterale valutazione del conduttore circa la propria convenienza a lasciare l'immobile, a seguito della sopravvenuta restituzione, in suo favore, del possesso di locali, più estesi, di sua proprietà, ma la gravosità della persistenza del rapporto locativo deve essere valutata oggettivamente ed in concreto utilizzando come parametri comparativi da una parte la dimensione e le caratteristiche dell'immobile locato e del nuovo locale e dall'altra le sopravvenute nuove esigenze di produzione e di commercio dell'azienda. Ne consegue che il giudice del merito non può limitarsi a prendere in considerazione il fatto che vi sia stato un aumento del fatturato aziendale o un aumento del personale lavorante, indici di per sè soli, utili ma non sufficienti al fine propostosi, ma deve altresì verificare, sulla base delle prove raccolte - il cui onere spetta al conduttore recedente secondo i principi generali in materia di ripartizione dell'onere probatorio - se nello specifico ed in concreto le caratteristiche dell'immobile oggetto di locazione siano divenute inadeguate alla accresciuta dimensione dell'azienda così da rendere oltremodo gravosa per il conduttore la prosecuzione del rapporto locativo"

Cass. civ. Sez. III, Sent., 26-06-2012, n. 10624

Invio della parcella del professionista e mancato immediato risconto del cliente

"La corte capitolina, aderendo alla tesi prospettata dal condominio, ribadiva che l'ing. D.L. non aveva diritto di pretendere il compenso in base alla notula liquidata dal suo ordine professionale per lire 15.860.000, avendo egli medesimo proposto e richiesto il minor compenso di L. 3.173.00 con la sua precedente nota, che era stata accetta dal citato condominio


[...]


l'invio ai cliente, da parte del professionista, della parcella per le prestazioni svolte produce effetto, ai sensi dell'art. 1334 c.c. allorchè perviene al destinatario il quale, a meno che non sia stata redatta conformemente ad un precedente accordo tra le parti, può accettarla o rifiutarla.


Pertanto spetta al giudice di merito accertare se il pagamento della somma richiesta con la prima parcella non sia liberatorio perchè effettuato dopo l'arrivo di una seconda parcella, implicante la revoca di quella proposta anteriormente (Cass. n. 15376 del 01/12/2000). Nel caso in esame la prima parcella (di L. 3.173.070) è stata pagata dal condominio ben 15 mesi dopo il suo invio, per giunta dopo il radicarsi del giudizio di opposizione al provvedimento monitorio. Non v'è dubbio dunque che l'ing. D.L., atteso il lungo tempo trascorso ed il mancato riscontro della sua proposta da parte del Condominio, si sia ritenuto legittimamente autorizzato a revocare la proposta stessa ed a sollecitare dal giudice il provvedimento monitorio poi opposto. A questo punto il pagamento della 1^ parcella da parte del Condominio dopo 15 mesi dalla sua richiesta, non sembra che possa configurare come accettazione della proposta iniziale, in assenza di una qualsiasi prova circa la conclusione della transazione adombrata dal Condominio."

Cass. civ. Sez. II, Sent., 25-06-2012, n. 10586

Impugnazione, esecuzione della sentenza e accordo transattivo

"...ribadito che l'acquiescenza tacita può desumersi soltanto da atti univoci, incompatibili con la volontà di avvalersi della impugnazione, va - invece osservato che le trattative, intese a transigere sui diritti riconosciuti nella sentenza, condotte direttamente dalle parti o da loro incaricati muniti o meno di speciale potere rappresentativo, possono conciliarsi con la volontà di avvalersi della impugnazione subordinatamente al mancato raggiungimento dell'accordo transattivo. Le proposte di transazione, da chiunque provengano, e le trattative conseguenti, non impegnando alcuna delle parti sino a che alla transazione non si addivenga, non importano riconoscimento della giustizia della sentenza o comunque accettazione della stessa, anche se la discussione delle parti prenda l'avvio dalle statuizioni del giudicato e le stesse presupponga.


Pertanto, esse non possono pregiudicare la libertà di scelta delle parti medesime di accettare la sentenza e di rinunciare esplicitamente o tacitamente alla impugnazione, ovvero di avvalersi della stessa insorgendo contro la pronuncia (Cass. 1338 del 04/06/1962).


Non può invece condividersi l'assunto secondo cui l'avvio di trattative con la controparte esprime comunque l'intento del soccombente di non accettare la sentenza e non costituisce quindi atto incompatibile con la volontà di avvalersi dell'impugnazione, preclusivo come tale di quest'ultima, a norma dell'art. 329 cod. proc. civ. (Cass. n. 2312 del 14/03/1997).


La sola proposta di eseguire la sentenza nel dictum minimale (tra i vari oggetto della statuizione) a condizione che intervenga l'accettazione di tale proposta ad opera della parte vittoriosa, ai fini dell'acquiescenza è un atto neutro, non essendo incompatibile con la volontà di impugnare, ma solo finalizzato alla conclusione della transazione, che costituisce il nuovo titolo dell'adempimento."

Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 25-06-2012, n. 10503

27 giugno 2012

Molestia o disturbo alle persone, ex art. 660 c.p.: il messaggio telematico non è assimilabile alla comunicazione col mezzo del telefono

"Con sentenza, deliberata il 3 novembre 2011 e depositata il 14 dicembre 2011, la Corte di appello di Napoli ha confermato la sentenza del Tribunale di quella stessa sede, 24 maggio 2010, di condanna alla pena dell'arresto in tre mesi (condizionalmente sospesa) a carico di C.C., imputato della contravvenzione di molestia o disturbo alle persone, ai sensi dell'art. 660 c.p., commessa in danno di persona minore di sesso femminile, mediante invio "al suo indirizzo di posta elettronica" di "una pluralità di messaggi e immagini a contenuto osceno", in (OMISSIS).


La Corte territoriale, previa accurata e pregevole illustrazione della giurisprudenza di legittimità in tema di molestie perpetrate con mezzi di comunicazione diversi dal telefono, ha disatteso la tesi difensiva circa la censurata applicazione in via analogica della norma incriminatrice, argomentando: nel caso in esame la comunicazione tra "l'account della minore e l'imputato è avvenuta attraverso MSN"; si tratta di un sistema "noto come instant messaging", ovverosia di "messaggeria istantanea (...) che permette, cioè, l'invio di messaggi immediati tra due persone", di un sistema di comunicazione "sostitutivo del telefono, il quale permette di conversare in modo istantaneo, usando la tastiera e, nelle più recenti versioni, anche utilizzando microfoni e web cam, per parlare e vedersi a distanza, sempre in tempo reale"; pertanto ricorre "l'elemento circostanziale della condotta" di comunicazione del soggetto attivo, "tipizzato dalla norma incriminatrice" e consistito nella "utilizzazione di un mezzo di comunicazione (...) del tutto simile al telefono come mezzo del reato (..) proprio per il carattere invasivo della comunicazione alla quale il destinatario non può sottrarsi se non disattivando la connessione con conseguente lesione, in tale evenienza, della propria libertà di comunicazione, costituzionalmente garantita"; sicchè è corretta la interpretazione in via estensiva della norma incriminatrice operata dal primo giudice.


[...]


Il ricorso è, nei termini che seguono, fondato.


Il tema oggetto del presente scrutinio di legittimità è se il modello di condotta, tipizzato nella norma incriminatrice, con riferimento al mezzo del reato, della comunicazione telefonica (recita l'art. 660 c.p.: "col mezzo del telefono"), ricomprenda, in via di interpretazione estensiva, le comunicazioni telematiche non foniche effettuate mediante elaboratore elettronico attraverso la rete internet.


Il progresso tecnologico realizzato sia nella telefonia (inizialmente circoscritta alle comunicazioni tra postazioni fisse, ora ampiamente integrata dalla radiotelefonia tra apparecchi mobili connessi attraverso il sistema cellulare), sia nella elettronica, caratterizzato dalla miniaturizzazione degli elaboratori, e, soprattutto, la integrazione delle due tecnologie, estrinsecatasi nella produzione di apparecchi telefonici mobili, con implementazioni delle funzioni peculiari dell'elaboratore elettronico, e di elaboratori di ridottissime dimensioni, agevolmente portabili, connessi alla rete telefonica e telematica e anche idonei a comunicare, attenuano, indubbiamente, le differenze - prima nettissime - tra la comunicazione telefonica e le altre forme di comunicazione telematica.


Purtuttavia la tipizzazione del mezzo del reato, contenuta nella norma incriminatrice dell'art. 660 c.p., impone la individuazione del discrimen della comunicazione (molesta), riconducibile al mezzo del telefono, rispetto alle altre varie forme di telecomunicazione, le quali - pel divieto di applicazione analogica della norme penali ai sensi dell'art. 14 preleggi - non consentono, invece, di ritenere integrata la contravvenzione.


In proposito, la giurisprudenza di questa Corte è pervenuta alla conclusione:


a) della inclusione, in via di interpretazione estensiva, tra i mezzi di commissione della contravvenzione in parola dello SMS (Short Message Service) ovvero delle comunicazioni di messaggi di testo telefonici (Sez. 3, 26 marzo 2004, n. 28680, Modena, massima n. 229464; Sez. 1, 22 febbraio 2011, n. 10983, Posti, massima n. 249879 e Sez. 1, 24 giugno 2011, n. 30294, Donato, massima n. 250912);


b) della esclusione della posta elettronica dal novero delle comunicazioni riconducibili alla previsione dell'art. 660 c.p. (Sez. 1, 17 giugno 2010, n. 24510, D'Alessandro, massima n. 247558).


Tali approdi ermeneutici sono pacifici e fatti propri sia dalla Corte territoriale e che dal ricorrente.


I giudici di merito hanno, piuttosto, sussunto la condotta del ricorrente sotto la previsione della norma incriminatrice supponendo, in punto di fatto, che le comunicazioni moleste e oscene sarebbero state effettuate mediante il (noto) servizio di messaggeria telematica MSN e, quindi, argomentando, in punto di diritto, che i messaggi MSN sono da ricomprendersi in quelli effettuati col mezzo del telefono "per il carattere invasivo della comunicazione".


[...]


L'uso della messaggistica elettronica non costituisce invero comunicazione telefonica, nè è assimilabile alla stessa.


Tale sistema di comunicazione, sebbene utilizzi la rete telefonica e le bande di frequenza della rete cellulare, non costituisce, tuttavia, applicazione della telefonia che consiste, invece, nella teletrasmissione, in modalità sincrona, di voci o di suoni; e si caratterizza sul piano della interazione tra il mittente e il destinatario - in relazione al profilo saliente dell'oggetto giuridico della norma incriminatrice - per la incontrollata possibilità di intrusione, immediata e diretta, del primo nella sfera delle attività del secondo.


Significativamente la Corte territoriale ha argomentato con riferimento al "carattere invasivo della comunicazione alla quale il destinatario non può sottrarsi", se non a prezzo di disattivare la propria utenza (telefonica), con conseguente nocumento della libertà di comunicazione.


Ma siffatto rilievo non è pertinente al caso di specie delle comunicazioni (moleste) effettuate dal ricorrente mediante la messaggeria telematica (MSN).


Hanno, infatti, accertato i giudici di merito che l'invio dei messaggi e delle foto oscene da parte dell'imputato fu reso possibile solo grazie alla abilitazione allo scambio degli MSN, concessa dalla madre della persona offesa (sostituitasi alla figlia), in seguito alla "richiesta di contatto su MSN Messenger" inoltrata dal ricorrente (v. la sentenza di primo grado, p. 2); e che, non appena la vittima, inserì l'identificativo telematico del giudicabile "nella black list" dei mittenti indesiderati, pose immediatamente termine ad ogni contatto e invio da parte del prevenuto (v. ibidem p. 3).


A differenza della comunicazione fatta col mezzo del telefono, la messaggeria telematica non presenta, pertanto, il "carattere invasivo", erroneamente supposto dalla Corte territoriale, ben potendo il destinatario di messaggi non desiderati da un determinato utente (sgradito), evitarne agevolmente la ricezione, senza compromettere, in alcun modo, la propria libertà di comunicazione, neppure in relazione all'impiego della particolare tecnologia in parola.


Conclusivamente, escluso l'elemento della fattispecie penale del mezzo (tipizzato) del reato (in quanto, appunto, il messaggio telematico non è assimilabile alla comunicazione col mezzo del telefono), la contravvenzione non è configurabile."

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 07-06-2012) 21-06-2012, n. 24670

Giustizia Amministrativa - le presunzioni semplici



Le presunzioni semplici nel procedimento amministrativo

E' consentito alla Pubblica Amministrazione fare ricorso alle presunzioni semplici nell'ambito del procedimento amministrativo?

T.A.R. / T.A.R. Emilia Romagna - Bologna / Sentenza 20 giugno 2012 da NORMA

Corte di Giustizia - esecuzione di decisioni - Reg. 44/2001



Cooperazione giudiziaria in materia civile

Le norme semplificate sul riconoscimento e l'esecuzione delle decisioni giurisdizionali in materia civile e commerciale di cui al Regolamento n. 44/2001 - che consentono all'attore di ottenere un'esecuzione rapida, sicura ed efficace della decisione giurisdizionale pronunciata a suo favore nello Stato membro d'origine - può essere giustificata soltanto se la decisione che dev'essere riconosciuta o eseguita sia stata adottata conformemente alle norme sulla competenza del medesimo regolamento.

Corte di Giustizia / Sentenza 21 giugno 2012 da NORMA

26 giugno 2012

Procedura di licenziamento per riduzione di personale L. 223/91

"Il Tribunale di Napoli rigettava la domanda proposta da B. E. contro la Fiat Group Automobiles s.p.a. di impugnativa del licenziamento intimatogli il 25.5.2006 in riferimento a procedura per la riduzione del personale.


L'appello proposto dal lavoratore era rigettato dalla Corte d'appello di Napoli.


[...]


Il ricorso, i cui motivi sono esaminati congiuntamente in ragione della loro connessione, merita accoglimento per le ragioni, aventi rilievo decisivo e assorbente, di seguito indicate.


Nella comunicazione preventiva agli organismi sindacali che l'azienda che intenda procedere ad una riduzione di personale deve effettuare a norma della L. n. 223 del 1991, art. 4, deve essere compresa l'indicazione "del numero, della collocazione aziendale e dei profili professionali del personale eccedente" (comma 3).


Si tratta di elementi che rilevano non solo ai fini di una valutazione circa la concreta portata del progettato ridimensionamento aziendale, ma anche per la connessione con le indicazioni sui motivi che determinano la situazione di eccedenza e per i quali non si ritiene possibile adottare una misura organizzativa diversa dalla riduzione di personale.


Nella giurisprudenza di questa Corte ha formato oggetto di un particolare approfondimento la questione relativa alla incidenza della prescrizione normativa sulla indicazione dei profili professionali. Cass., sez. un., 15 ottobre 2002, n. 14616, nel confermare l'imprescindibilità del rispetto della procedura di cui all'art. 4 L. cit., non sostituibile da un diretto accordo sindacale avente ad oggetto l'identificazione del lavoratori da licenziare sulla base della sola anzianità contributiva, ha sottolineato la rilevanza anche della specificazione delle unità produttive e dei profili professionali interessati, necessaria ai fini di una corretta individuazione dei lavoratori da coinvolgere nella riduzione di personale.


Successivamente, in relazione ad un'altra vicenda di ampia riduzione di organico di una grande azienda, si è in un primo momento ritenuto, a proposito della prescritta indicazione dei profili professionali del personale da coinvolgere nella riduzione di personale, che la dizione normativa implicasse l'insufficienza della sola indicazione del livello di inquadramento nell'ambito della classificazione del personale dettata dalla contrattazione collettiva, quando nel medesimo livello fossero raggruppate professionalità varie ed eterogenee (Cass. 11 luglio 2007, n. 15479), ma successivamente si è ritenuta sufficiente la indicazione della ripartizione del personale ritenuto eccedente per categorie o livelli contrattuali di inquadramento (oltre che per aree geografiche), tenute presenti le ragioni concrete della riduzione di personale, di alleggerimento dell'organico complessivo dell'azienda a livello nazionale (Cass. n. 82, 84 e 5884/2009, n. 5884/2011). Si è rilevato in linea di diritto che il riferimento legislativo ai "profili professionali" comporta l'esclusione della idoneità del solo dato formale delle categorie (ex artt. 2095 e 2103 c.c.), essendo privilegiato il dato funzionale delle categorie o qualifiche di inquadramento, rispetto al quale però doveva tenersi presente che nella specie la contrattazione collettiva caratterizzava le "aree funzionali" (livelli) di inquadramento per l'idoneità allo svolgimento di una pluralità di mansioni.


Nella specie, premesso che l'attuale ricorrente, come da atto la stessa sentenza impugnata, aveva lamentato la mancata precisazione dei motivi dell'eccedenza di lavoratori e in tale quadro anche, in particolare, la mancanza di specificazioni relative ai profili professionali coinvolti dalla riduzione di personale, la sentenza impugnata ha violato gli esposti principi nel non dare rilievo alla circostanza che nella specie nella comunicazione iniziale è mancata la specificazione dei profili professionali, sicuramente per tale non potendosi intendere il solo riferimento alle generiche e complessive categorie legali degli operai, impiegati, quadri e dirigenti (oltre che degli "intermedi", categoria contrattuale diretta ad integrare detta classificazione di origine legale), che non sono idonee, particolarmente con riferimento alle ampie categorie degli operai e degli impiegati, a fornire in maniera adeguata quelle specificazioni funzionali che sono indispensabili al fine di dare adeguata concretezza e motivazione a qualsiasi piano di ristrutturazione aziendale, ancorchè focalizzato su risparmi conseguibili sul piano dei costi del personale.


Nè può ritenersi adeguato, al fine di ritenere sufficiente la iniziale comunicazione, il riferimento alla circostanza del raggiungimento di un accordo con le organizzazioni sindacali. E' vero che la conclusione di un accordo in esito alle consultazioni seguite all'iniziale comunicazione dell'azienda può rendere irrilevanti le lacune di tale comunicazione di avvio, a meno che i suoi vizi siano tali da fuorviare o eludere l'esercizio dei poteri di controllo preventivo attribuiti alle organizzazioni sindacali (cfr. Cass. n. 25758/2008, 5582/2012), ma il dato circa la consistenza della riduzione di personale con riferimento ai vari profili professionali costituisce, come si è visto, un elemento imprescindibile di qualsiasi esame e valutazione in merito ad una prospettata ristrutturazione aziendale e quindi, per poter attribuire efficacia sanante all'accordo sindacale è condizione minima necessaria che almeno in tale occasione tale dato venga precisato. Nella specie, invece, è mancato qualunque positivo accertamento in tal senso da parte del giudice di appello (peraltro, secondo quanto dedotto dal ricorrente con riferimento specifico alle produzioni documentali, l'accordo farebbe riferimento, nei suoi allegati, alle sole categorie generali di operai, impiegati, ecc, mentre la resistente nel controricorso con riguardo all'accordo menziona solo il riferimento del medesimo al criterio di individuazione costituito dalla possibilità del lavoratore di conseguire un trattamento di quiescenza nell'arco di fruizione della mobilità ordinaria).


La sentenza impugnata è censurabile anche nella parte in cui ha ritenuto idonei i criteri di scelta adottati nella specie.


Il principio al quale al riguardo ha fatto riferimento - quello secondo cui la circostanza che del criterio di scelta della possibilità dei lavoratori di accedere al pensionamento non sia sufficiente da solo alla identificazione dei lavoratori ricompresi nella riduzione di personale non ne determina l'illegittimità, semprechè il datore di lavoro nella attuazione del medesimo criterio si attenga a criteri correttezza, buona fede e non discriminazione -, inizialmente recepito da alcune sentenze di questa Corte (Cass. n. 9956/2000 e 13393/2002), è stato sottoposto a riesame e condivisibilmente si è ritenuto che il criterio di scelta adottato nell'accordo sindacale tra datore di lavoro e organizzazioni sindacali per l'individuazione dei destinatari del licenziamento può anche essere unico e consistere nella prossimità al pensionamento, alla condizione però che esso permetta di formare una graduatoria rigida e possa essere applicato e controllato senza alcun margine di discrezionalità da parte del datore di lavoro. (Cass. n. 12781/2003, 21541/2006, 9866/2007, 1938/2011).


Si tratta di un indirizzo indubbiamente condivisibile perchè i criteri di scelta possono implicare aspetti discrezionali nella fase attuativa, e in questo caso il datore di lavoro nella comunicazione prevista dall'art. 4, comma 9, della legge deve fornire puntuali indicazione delle modalità con cui essi sono stati applicati (cfr.


Cass. n. 24166/2004 circa la necessità che in questa sede emergano univoche modalità di esplicazione dei criteri), ma non vi può essere un'area residua di discrezionalità di scelta da parte del datore di lavoro nella quale non risulti operante nessun criterio predeterminato, in ragione della insufficiente capacità selettiva dell'unico criterio di scelta convenzionalmente stabilito.


Ed è opportuno sottolineare come l'obiettività dei criteri di scelta costituisca una misura di tutela necessaria al fine di evitare che il datore di lavoro possa scegliere a sua discrezione quali lavoratori in concreto licenziare in occasione di una riduzione di personale. Nè sarebbe sufficiente per contrastare un tale modo di esercizio dei poteri del datore di lavoro la facoltà del lavoratore di provare l'eventuale carattere discriminatorio del suo licenziamento.


In conclusione il ricorso deve essere accolto, con cassazione della sentenza impugnata e rinvio della causa ad altro giudice (stessa Corte in diversa composizione) che si atterrà ai seguenti principi: 1) "La indicazione nella comunicazione agli organismi sindacali di avvio della procedura di licenziamento per riduzione di personale, dei profili professionali del personale eccedente, a norma della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3, non è validamente integrata dalla sola indicazione delle generiche categorie degli operai, intermedi, impiegati, quadri e dirigenti, mentre la conclusione, nell'ambito della procedura di consultazione, di un accordo tra il datore di lavoro e i sindacati sul licenziamento collettivo non può ritenersi idonea a rendere irrilevante, ai fin della legittimità dei licenziamenti, l'indicata carenza della comunicazione iniziale se anche l'accordo non contiene le necessarie indicazioni sui profili professionali dei lavoratori destinatari del licenziamento"; 2) "non è legittima l'adozione, nell'accordo sindacale tra datore di lavoro e organizzazioni sindacali relativo all'attuazione di licenziamenti per riduzione di personale, dell'unico criterio di scelta consistente nella prossimità al pensionamento, se lo stesso non permetta l'esauriente e univoca selezione dei lavoratori destinatari del licenziamento, in modo da poter essere applicato senza alcun margine di discrezionalità da parte del datore di lavoro".

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 22-06-2012, n. 10424

Giustizia Amministrativa - Auditel



Legittimità della condanna della Auditel per abuso di posizione dominante

Il T.A.R. Roma delinea compiutamente le modalità di l'accertamento di abuso della posizione dominante nel mercato alla luce della normativa e della giurisprudenza europea in materia.

T.A.R. / T.A.R. Lazio - Roma / Sentenza 21 giugno 2012 da NORMA

25 giugno 2012

Collocamento di strumenti finanziari e jus poenitendi - contrasto - assegnazione alle SS.UU.

"La riscontrata divaricazione delle posizioni assunte dalla dottrina e dalla giurisprudenza, sia in sede di merito che di legittimità, correlata alla centralità dello jus poenitendi nel sistema giuridico di protezione del consumatore, inducono, anche per la sempre frequente emersione giurisprudenziale dell'ambito di applicazione del diritto al ripensamento in tema di contratti inerenti all'intermediazione finanziaria compiuti fuori sede, a ritenere la questione prospettata di massima di particolare importanza. Si pone, pertanto l'esigenza di rimettere gli atti al Primo Presidente affinchè disponga l'eventuale assegnazione della questione alle Sezioni Unite."

Cass. civ. Sez. I, Ord., 21-06-2012, n. 10376

Mancata distrazione delle spese di lite - errore materiale

"osserva che il ricorso è inammissibile, siccome Cass. S.U. n. 16037/10 ha stabilito che, in caso di omessa pronuncia sull'istanza di distrazione delle spese proposta dal difensore, il rimedio esperibile, in assenza di un'espressa indicazione legislativa, è costituito dal procedimento di correzione degli errori materiali di cui agli artt. 287 e 288 c.p.c., e non dagli ordinari mezzi di impugnazione, non potendo la richiesta di distrazione qualificarsi come domanda autonoma. La procedura di correzione, oltre ad essere in linea con il disposto dell'art. 93 c.p.c., comma 2 - che ad essa si richiama per il caso in cui la parte dimostri di aver soddisfatto il credito del difensore per onorar e spese - consente il migliore rispetto del principio costituzionale della ragionevole durata del processo, garantisce con maggiore rapidità lo scopo del difensore distrattario di ottenere un titolo esecutivo ed è un rimedio applicabile, ai sensi dell'art. 391-bis c.p.c., anche nei confronti delle pronunce della Corte di cassazione."

Cass. civ. Sez. III, Sent., 21-06-2012, n. 10313

Notaio - responsabilità - concorso colposo del danneggiato

"Per il notaio richiesto della preparazione e stesura di un atto pubblico di trasferimento immobiliare, la preventiva verifica della libertà e disponibilità del bene e, più in generale, delle risultanze dei registri immobiliari attraverso la loro visura, costituisce, salvo espressa dispensa per concorde volontà delle parti, obbligo derivante dall'incarico conferitogli dal cliente e, quindi, fa parte dell'oggetto della prestazione d'opera professionale, poichè l'opera di cui è richiesto non si riduce al mero compito di accertamento della volontà delle parti, ma si estende a quelle attività preparatorie e successive necessarie perchè sia assicurata la serietà e certezza dell'atto giuridico da rogarsi ed, in particolare, la sua attitudine ad assicurare il conseguimento dello scopo tipico di esso e del risultato pratico voluto dalle parti partecipanti alla stipula dell'atto medesimo. Conseguentemente, l'inosservanza dei suddetti obblighi accessori da parte del notaio da luogo a responsabilità ex contractu per inadempimento dell'obbligazione di prestazione d'opera intellettuale, a nulla rilevando che la legge professionale non contenga alcun esplicito riferimento a tale peculiare forma di responsabilità, e, stante il suddetto obbligo, non è ontologicamente configurabile il concorso colposo del danneggiato ex art. 1227 c.c." (Cass. n. 24733 del 2007)."

Cass. civ. Sez. III, Sent., 21-06-2012, n. 10296

22 giugno 2012

Intimazione di pagamento - iscrizione di ipoteca - espropriazione forzata

"Il ricorso ai sensi dell'art. 380 bis c.p.c. assegnato allo scrivente relatore - può essere definito ai sensi dell'art. 375 c.p.c..


Infatti, con il terzo motivo di impugnazione (improntato alla violazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 50, comma 2, e dell'art. 77, dello stesso D.P.R. e che appare più liquido degli altri precedenti e perciò degno di essere esaminato prioritariamente) la parte ricorrente si duole del fatto che il giudicante abbia ritenuto che sia condizione necessaria per iscrivere ipoteca la previa notifica al debitore moroso dell'intimazione di pagamento ex art. 50, comma 2 dianzi menzionato.


Ma la norma in parola impone, in realtà, di notificare il predetto avviso prima dell'inizio dell'espropriazione forzata, mentre l'iscrizione ipotecaria (secondo quanto deduce per espresso dall'art. 77 citato, comma 2, nel quale si dice che "prima di procedere all'esecuzione, il concessionario deve iscrivere ipoteca"), come questa Corte ha chiarito nell'ordinanza n. 14831/2008 a proposito dell'omologo istituto del fermo amministrativo, non può più essere considerato quale "mezzo preordinato all'espropriazione forzata" che "si inserisce nel processo di espropriazione forzata esattoriale quale mezzo di realizzazione del credito", di fronte alla chiara volontà del legislatore (manifestata con la modifica del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19 portata dal D.L. n. 223 del 2006) di escludere il fermo di beni mobili registrati dalla sfera tipica dell'espropriazione forzata. In quest'ottica è infatti prevalsa la tesi che l'adozione dell'atto in questione si riferisca ad una procedura alternativa all'esecuzione forzata vera e propria.


D'altronde, la stessa lettera dell'art. 77 - con l'esplicito riferimento al termine di cui all'art. 50, comma 1 - costituisce esplicito supporto all'anzidetta interpretazione, posto che non si intenderebbe il senso di un richiamo monco ad una disposizione che invece il legislatore avesse supposto applicabile in toto.


Non resta che concludere che il giudice di appello ha erroneamente risolto la lite sulla scorta della questione pregiudiziale di cui si è detto, sicchè la controversia deve essergli rimessa affinchè il medesimo giudice torni ad affrontare le questioni che ne risultano assorbite.


Pertanto, si ritiene che il ricorso può essere deciso in camera di consiglio per manifesta fondatezza."

Cass. civ. VI - 5, Ord., 20-06-2012, n. 10234

Le SS.UU. sul R.D. n. 37 del 1934, art. 82 - PEC - domicilio presso la cancelleria

"Preliminare all'esame del merito del ricorso è la verifica della sua ammissibilità in ragione della ritualità, o no, della sua notifica alla parte intimata presso il suo procuratore in appello, domiciliato ex lege presso la cancelleria della corte d'appello dell'Aquila in applicazione dell'art. 82 cit.. Tale verifica implica l'esame della questione di diritto posta nella richiamata ordinanza interlocutoria della sezione lavoro (ord., 15 novembre 2011 - 18 gennaio 2012, n. 702) e che ha ad oggetto l'interpretazione di tale disposizione; questione sulla quale si è radicato il denunciato contrasto di giurisprudenza della cui composizione sono state investite queste sezioni unite.


Il R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 82 recante norme integrative e di attuazione del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, convertito nella L. 22 gennaio 1934, n. 36, sull'ordinamento delle professioni di avvocato e di procuratore - disposizione questa che, pur essendo risalente nel tempo, è rimasta immutata e tuttora vigente anche dopo l'entrata in vigore del codice di procedura civile del 1940 e delle varie leggi di riforma che si sono succedute nel tempo - prevede che gli avvocati - e, prima della soppressione dell'albo dei procuratori legali L. 24 febbraio 1997, n. 27, ex art. 3, i procuratori - i quali esercitano il proprio ufficio in un giudizio che si svolge fuori della circoscrizione del tribunale al quale sono assegnati - devono, all'atto della costituzione nel giudizio stesso, eleggere domicilio nel luogo dove ha sede l'autorità giudiziaria presso la quale il giudizio è in corso. Ed aggiunge che, in mancanza della elezione di domicilio, questo si intende eletto presso la cancelleria della stessa autorità giudiziaria.


L'onere di elezione di domicilio non esclude che comunque - come recita il R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 4 - gli avvocati iscritti in un albo possano esercitare la professione davanti a tutte le Corti d'appello ed i Tribunali (nonchè, in passato, alle Preture) della Repubblica. Mentre davanti alla Corte di cassazione (ed altri organi giurisdizionali, quali in particolare il Consiglio di Stato e la Corte dei conti in sede giurisdizionale) il patrocinio può essere assunto soltanto dagli avvocati iscritti nell'apposito albo speciale.


L'art. 82 contiene quindi un duplice riferimento topografico: alla circoscrizione del tribunale e alla sede dell'autorità giudiziaria presso la quale il giudizio è in corso.


Il primo riferimento si raccorda all'albo degli avvocati di cui al R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 17 tenuto dal consiglio dell'ordine degli avvocati presso ciascun tribunale, al quale sono iscritti, a domanda, gli avvocati per l'esercizio della professione forense e che presuppone che l'avvocato abbia la residenza nella circoscrizione del tribunale nel cui albo l'iscrizione è domandata (art. 26, R.D.L. cit.); cfr. l'art. 31, R.D.L. cit. che prescrive che la domanda per l'iscrizione all'albo degli avvocati è rivolta al Consiglio dell'ordine degli avvocati e dei procuratori nella cui circoscrizione il richiedente ha la sua residenza. L'art. 10 r.d.l. cit. poi prescrive che l'avvocato debba risiedere nel capoluogo del circondario del Tribunale al quale è assegnato, ma il Presidente del Tribunale, sentito il parere del Consiglio dell'ordine, può autorizzarlo a risiedere in un'altra località del circondario, purchè egli abbia nel capoluogo un ufficio presso un altro procuratore.


L'iscrizione a tale albo deve costantemente sussistere per svolgere l'attività difensiva; la cancellazione dall'albo costituisce tipica sanzione disciplinare (art. 40 r.d.l. cit.).


Alla circoscrizione del tribunale fa riferimento anche il D.Lgs. 2 febbraio 2001, n. 96, art. 6 (sull'esercizio della professione in uno Stato membro dell'UE) che prevede che per l'esercizio permanente in Italia della professione di avvocato, i cittadini degli Stati membri in possesso dei prescritti titoli, sono tenuti ad iscriversi in una sezione speciale dell'albo costituito nella circoscrizione del tribunale in cui hanno fissato stabilmente la loro residenza o il loro domicilio professionale. Gli avvocati possono chiedere il trasferimento dell'iscrizione all'albo di altra circoscrizione, anche di un diverso distretto, nella quale intendano fissare la propria residenza (L. 4 marzo 1991, n. 67, art. 6). La perimetrazione del circondario dei singoli tribunali è stata rivista dal D.Lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, recante l'istituzione del giudice unico di primo grado.


Il secondo riferimento topografico coincide con la sede - e quindi con il comune dove è ubicata la sede - dell'autorità giudiziaria presso la quale il giudizio è in corso.


Quindi l'avvocato che è assegnato a una determinata circoscrizione del tribunale può esercitare innanzi a qualsiasi autorità giudiziaria che ha sede in quella circoscrizione senza necessità di elezione di domicilio altrove. Ma se quest'ultima ha sede in una diversa circoscrizione, l'avvocato è onerato dell'elezione di domicilio nel luogo sede dell'autorità giudiziaria adita; altrimenti opera ex lege l'elezione di domicilio presso la cancelleria di quella autorità giudiziaria.


Il collegamento topografico posto dall'art. 82 comporta una vicinanza dell'avvocato alla sede dell'autorità giudiziaria innanzi alla quale è instaurato il giudizio per essere quest'ultima interna al territorio della circoscrizione del tribunale dove è l'albo professionale al quale è iscritto l'avvocato. La finalità è quella di agevolare le comunicazioni e le notificazioni all'avvocato;


finalità questa che è maggiormente evidente se si pensa all'epoca in cui la norma è stata posta e al diverso contesto dei mezzi di comunicazione che la connotava a fronte del progresso tecnologico dell'epoca attuale. Basti considerare che recentemente il D.L. 29 dicembre 2009, n. 193, art. 48, lett. d), conv., con mod., dalla L. 22 febbraio 2010, n. 24, ha inserito nel codice di rito l'art. 149- bis sulla notificazione a mezzo di posta elettronica. E prima ancora la L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2, aveva aggiunto un terzo comma nell'art. 136 c.p.c. che prevede la possibilità delle comunicazioni di cancelleria mediante telefax o posta elettronica.


Pur in questo diverso contesto di comunicazioni e notifiche effettuabili anche in via telematica, la finalità dell'art. 82 è rimasta quella originaria: l'avvocato, in quanto iscritto all'albo del tribunale nella cui circoscrizione ricade la sede dell'autorità giudiziaria innanzi alla quale è instaurato il giudizio, deve essere "prossimo" a quest'ultima. In difetto di tale prossimità topografica, scatta un onere di elezione di domicilio che, ove disatteso, comporta la domiciliazione ex lege presso la cancelleria della stessa autorità giudiziaria. La giurisprudenza di questa Corte (cfr. ex plurimis Cass., sez. 1, 9 marzo 1977, n. 976) ha sottolineato come l'art. 82 mira a rendere più agevoli e sollecite le comunicazioni e notificazioni degli atti processuali.


[...]


Il disposto dell'art. 82 cit. comporta quindi, per l'avvocato che difende in un giudizio innanzi ad un'autorità giudiziaria con sede in una circoscrizione diversa da quella del tribunale presso il quale è l'albo dove egli è iscritto, un onere di elezione di domicilio al fine di assicurare la "prossimità" dell'avvocato per ogni comunicazione o notifica.


La conseguenza del mancato rispetto di tale onere, che ha una connotazione quasi sanzionatoria in senso lato, è l'elezione di domicilio ex lege presso la cancelleria dell'autorità giudiziaria suddetta; ciò che significa in concreto una marcata difficoltà per l'avvocato di avere notizia di comunicazioni e notificazioni fattegli presso la cancelleria, anche se, fin da epoca risalente (Cass., sez. 3, 10 agosto 1965, n. 1919), si è precisato che comunque vi è, non già un obbligo, ma solo una facoltà per il notificante di effettuare la notifica presso la cancelleria (cfr. anche Cass., sez. lav., 22 novembre 1995, n. 12064; sez. 2, 4 maggio 2005, n. 9225). Ma se il notificante si avvale di tale facoltà, la notifica è rituale.


[...]


Questo orientamento tradizionale e più volte ripetuto è stato recentemente disatteso da Cass., sez. lav., 11 giugno 2009, n. 13587, che all'opposto ha affermato che il R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 82 - secondo cui i procuratori che esercitano il proprio ufficio in un giudizio che si svolge "fuori della circoscrizione del tribunale" al quale sono assegnati devono, all'atto della costituzione in giudizio, eleggere domicilio nel luogo dove ha sede l'autorità giudiziaria presso la quale il giudizio è in corso e, in mancanza dell'elezione di domicilio, questo si intende eletto presso la cancelleria della stessa autorità giudiziaria - si applica al giudizio di primo grado, come si evince dal riferimento alla "circoscrizione del tribunale" e trova applicazione al giudizio d'appello solo se trattasi di procuratore esercente fuori del distretto, attesa la rado della disposizione, volta ad evitare di imporre alla controparte l'onere di una notifica più complessa e costosa se svolta al di fuori della circoscrizione dell'autorità giudiziaria procedente e ad escludere un maggiore aggravio della notifica ove il procuratore sia assegnato al medesimo distretto ove si svolge il giudizio di impugnazione; ne consegue che, ove il procuratore sia esercente all'interno del distretto, la notifica della sentenza di primo grado effettuata presso la cancelleria della corte d'appello è inidonea a far decorrere il termine breve di sessanta giorni per l'impugnazione. Successivamente Cass., sez. 2, 12 maggio 2010, n. 11486, ha ritenuto di dover aderire a questo nuovo orientamento limitandosi a ribadire che il richiamato art. 82 si applica al giudizio di primo grado, come si evince dal riferimento alla "circoscrizione del tribunale", e trova applicazione al giudizio di appello solo se trattasi di procuratore esercente fuori dal distretto (conf. da ultimo, Cass., sez. 3, 20 settembre 2011, n. 19125).


Il contrasto di giurisprudenza, denunciato dalla Sezione Lavoro con la citata ordinanza di rimessione della questione a queste Sezioni Unite, va risolto ribadendo l'orientamento tradizionale di cui si è finora detto.


[...]


Va quindi confermato l'orientamento in precedenza più volte affermato da questa corte, e sopra illustrato, alla stregua del quale deve ritenersi, nella specie, che il ricorso per cassazione sia stato correttamente notificato presso la cancelleria della corte d'appello dell'Aquila giacchè il procuratore costituito dalla parte appellata ed attualmente intimata era assegnato alla circoscrizione del tribunale di Teramo nel cui territorio non ricadeva la sede della corte d'appello dell'Aquila. Quindi, ai sensi dell'art. 82 come sopra interpretato, tale procuratore aveva, nel giudizio d'appello, l'onere di eleggere domicilio nella sede dell'autorità giudiziaria innanzi alla quale si procedeva (L'Aquila). Non avendo ottemperato a tale onere, le notifiche potevano ritualmente essergli fatte presso la cancelleria della corte d'appello dell'Aquila; così anche la notifica del ricorso per cassazione.


Deve però aggiungersi che l'indirizzo giurisprudenziale, qui disatteso con conferma di quello tradizionale, esprime comunque un comprensibile disagio nel continuare a fare applicazione di una norma processuale "datata", perchè risalente negli anni, negli stessi termini in cui per lungo tempo è stata interpretata.


Le regole del processo civile però hanno carattere strumentale della tutela dei diritti e la loro interpretazione, rispetto all'evoluzione di questi (ossia delle situazioni sostanziali), è tendenzialmente stabile sicchè la fedeltà ai precedenti (stare decisis), in cui si esprime la funzione nomofilattica di questa Corte, ha una valenza maggiore, così come è in linea di massima giustificato (e tutelabile) l'affidamento che le parti fanno nella stabilità dell'interpretazione giurisprudenziale delle regole del processo.


In proposito da una parte queste Sezioni Unite (Cass. civ., sez. un., 18 maggio 2011, n. 10864) hanno elaborato una sorta di principio di precauzione, affermando che dinanzi a due possibili interpretazioni alternative della norma processuale, ciascuna compatibile con la lettera della legge, le ragioni di economico funzionamento del sistema giudiziario devono indurre l'interprete a preferire quella consolidatasi nel tempo, a meno che il mutamento dell'ambiente processuale o l'emersione di valori prima trascurati non ne giustifichino l'abbandono e consentano, pertanto, l'adozione dell'esegesi da ultimo formatasi.


D'altra parte, da ultimo, si è dato ingresso ad un principio innovatore a tutela dell'affidamento delle parti nella stabilità delle regole del processo, avendo queste sezioni unite (Cass., sez. un., 11 luglio 2011, n. 15144) ritenuto che il mutamento della propria precedente interpretazione della norma processuale da parte del giudice della nomofilachia, che porti a ritenere esistente, in danno di una parte del giudizio, una decadenza od una preclusione prima escluse, ove tale "overruling" si connoti del carattere dell'imprevedibilità, si giustifica una scissione tra il fatto (e cioè il comportamento della parte risultante "ex post" non conforme alla corretta regola del processo) e l'effetto, di preclusione o decadenza, che ne dovrebbe derivare, con la conseguenza che deve escludersi l'operatività della preclusione o della decadenza derivante dall'"overruling" nei confronti della parte che abbia confidato incolpevolmente (e cioè non oltre il momento di oggettiva conoscibilità dell'arresto nomofilattico correttivo, da verificarsi in concreto) nella consolidata precedente interpretazione della regola stessa, la quale, sebbene soltanto sul piano fattuale, aveva comunque creato l'apparenza di una regola conforme alla legge del tempo. Si tratta di una limitata applicazione della dottrina del c.d.


prospettive overruling: l'atto processuale compiuto al tempo della precedente giurisprudenza non è travolto da decadenza (o preclusione) sulla base di una nuova giurisprudenza, se connotata da imprevedibilità, la quale, sotto questo limitato aspetto, opera, in un certo senso, solo per il futuro.


Dopo quest'ultimo arresto giurisprudenziale risulta evidenziata la simmetria del profilo diacronico nel parallelismo tra controllo di costituzionalità e sindacato di legittimità.


Da una parte è possibile che una disposizione, oggetto di censura, sia inizialmente legittima e solo nel tempo divenga costituzionalmente illegittima per il mutamento del contesto normativo. La giurisprudenza costituzionale ha infatti elaborato la categoria dell'incostituzionalità sopravvenuta talchè, ricorrendo tale evenienza, la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale a partire da una certa data (cfr. da ultimo sent. n. 1 del 2012).


D'altra parte, sul piano del sindacato di legittimità, in particolare di questa Corte, è possibile non di meno ipotizzare che l'interpretazione di una disposizione muti nel tempo in ragione del diverso contesto normativo in cui si innesta e che quindi ci sia parimenti una modulazione diacronica del suo significato precettivo senza che ciò smentisca la natura meramente dichiarativa dell'interpretazione della legge fatta dalla giurisprudenza.


E' questo il caso dell'art. 82 cit..


Deve infatti considerarsi che il quadro normativo in cui va letto l'art. 82 ha subito di recente una significativa evoluzione che rifluisce anche sull'interpretazione della disposizione stessa.


[...]


Quindi conclusivamente - nel comporre il denunciato contrasto di giurisprudenza - può enunciarsi il seguente principio di diritto:


"Il R.D. n. 37 del 1934, art. 82 - che prevede che gli avvocati, i quali esercitano il proprio ufficio in un giudizio che si svolge fuori della circoscrizione del tribunale al quale sono assegnati, devono, all'atto della costituzione nel giudizio stesso, eleggere domicilio nel luogo dove ha sede l'autorità giudiziaria presso la quale il giudizio è in corso, e che in mancanza della elezione di domicilio, questo si intende eletto presso la cancelleria della stessa autorità giudiziaria - trova applicazione in ogni caso di esercizio dell'attività forense fuori dalla circoscrizione cui l'avvocato è assegnato per essere iscritto al relativo ordine professionale del circondario e quindi anche nel caso in cui il giudizio sia in corso innanzi alla corte d'appello e l'avvocato risulti essere iscritto ad un ordine professionale di un tribunale diverso da quello nella cui circoscrizione ricade la sede della corte d'appello, ancorchè appartenente allo stesso distretto della medesima corte d'appello. Tuttavia, dopo l'entrata in vigore delle modifiche degli artt. 366 e 125 c.p.c., apportate rispettivamente dalla L. 12 novembre 2011, n. 183, art. 25, comma 1, lett. i), n. 1), e dallo stesso art. 25, comma 1, lett. a), quest'ultimo modificativo a sua volta del D.L. 13 agosto 2011, n. 138, art. 2, comma 35-ter, lett. a), conv. in L. 14 settembre 2011, n. 148, e nel mutato contesto normativo che prevede ora in generale l'obbligo per il difensore di indicare, negli atti di parte, l'indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine, si ha che dalla mancata osservanza dell'onere di elezione di domicilio di cui all'art. 82 per gli avvocati che esercitano il proprio ufficio in un giudizio che si svolge fuori della circoscrizione del tribunale al quale sono assegnati consegue la domiciliazione ex lege presso la cancelleria dell'autorità giudiziaria innanzi alla quale è in corso il giudizio solo se il difensore, non adempiendo all'obbligo prescritto dall'art. 125 c.p.c., non abbia indicato l'indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine"."

Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 20-06-2012, n. 10143

21 giugno 2012

Contributi dovuti e non versati sulla maggiore retribuzione percepita

"Letta la relazione resa ex art. 380 bis cod. proc. civ. di manifesta fondatezza del ricorso;


Ritenuto che i rilievi di cui alla relazione sono condivisibili, perchè la Corte territoriale ha omesso di fare applicazione del principio di automaticità delle prestazioni, di cui all'art. 2126 c.c., per cui le prestazioni previdenziali spettano anche quando i contributi non siano stati regolarmente versati, purchè i medesimi fossero comunque dovuti.


Il medesimo principio vale non solo per l'insorgenza del diritto a pensione ma anche per la sua misura.


Ed infatti (Cass. n. 3108 del 03/03/2001) per l'assicurazione generale per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti gestita dall'INPS l'automaticità delle prestazioni è prevista nei limiti di cui al R.D.L. n. 636 del 1939, art. 27, come modificato dalla L. n. 153 del 1969, art. 40 e dal D.L. n. 267 del 1972, art. 23 "ter", come convertito nella L. n. 485 del 1972. Pertanto, quando il giudice abbia accertato la sussistenza di un rapporto di lavoro per il quale doveva essere effettuata la contribuzione, devesi ritenere soddisfatto il requisito contributivo nei limiti della prescrizione decennale (attualmente quinquennale) dei contributi, decorrente dal giorno in cui gli stessi dovevano essere versati.


Nello stesso senso si è affermato (Cass. n. 5263 del 27/08/1986) che "Il principio dell'automaticità della Costituzione del rapporto assicurativo e delle conseguenti prestazioni previdenziali pur in mancanza del versamento dei relativi contributi, principio che trova applicazione anche in tema di pensione d'invalidità, presuppone il duplice requisito sia dell'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, che deve essere provato dal lavoratore mediante elementi certi, sia del mancato decorso della prescrizione decennale talchè il pagamento tardivo di tali contributi possa essere effettuato dal datore di lavoro volontariamente (R.D.L. 4 ottobre 1935, n. 1827, ex art. 55) oppure coattivamente su richiesta dell'INPS".


Ha quindi errato la sentenza impugnata nel non ammettere le prove richieste dalla lavoratrice sulla esistenza del rapporto di lavoro e sulle maggiori retribuzioni percepite, giacchè il principio dell'automatismo consente al lavoratore di ottenere una pensione che tenga conto anche dei contributi dovuti e non versati sulla maggiore retribuzione percepita, ma ciò solo nell'ambito del periodo di prescrizione dei contributi medesimi, e purchè il lavoratore alleghi e dimostri sia i periodi lavorativi, sia la più alta retribuzione percepita, su cui avrebbero dovuto esser versati i contributi."

Cass. civ. VI - Lavoro, Ord., 19-06-2012, n. 10119

la disposizione del D.L. n. 203 del 2005, art. 3, co 41, ha portata retroattiva - Fermo amministrativo

"Premesso che la lettera del D.L. n. 203 del 2005, art. 3, comma 41, manifesta senza possibilità di dubbio la volontà del legislatore di imprimere a detta disposizione funzione interpretativa (Le disposizioni dell'art. 86... si interpretano ne senso che) e, quindi, efficacia retroattiva e che, d'altra, parte, la ratio legis va palesemente individuata nell'intenzione del legislatore di rendere possibile il fermo amministrativo di cui al D.P.R. n. 602 del 1972, art. 86, (nel testo introdotto dal D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 16, e successivamente modificato dal D.Lgs. n. 193 del 2001, art. 1) anche prima dell'emanazione del decreto previsto dal comma 4 di detto articolo, il punto da affrontare e se possa attribuirsi efficacia retroattiva ad una norma (non penale) che il legislatore ha qualificato come interpretativa, pur quando essa abbia, come nella specie, una portata sostanzialmente innovativa dell'ordinamento.


La risposta - negativa - fornita a tale quesito dal giudice di merito appare errata, perchè contrasta con l'insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte secondo cui: Benchè il carattere effettivamente interpretativo di una disposizione di legge che, autoqualificandosi come norma di interpretazione autentica, imponga di attribuire un determinato significalo a precedenti disposizioni introdotte da fonti di pari grado, fornisca spesso materia di dubbi, non può dubitarsi invece che il ricorso ad una norma interpretativa esprima la volontà del legislatore di far regolare da essa fattispecie formatesi precedentemente alla sua entrata in vigore. In altri termini, qualificando una disposizione di legge come norma di interpretazione autentica il legislatore intende chiaramente attribuirle effetti retroattivi, poichè per imporre solo per il futuro una determinata disciplina il ricorso a tale qualificazione sarebbe evidentemente superfluo (v. art. 11 disp. gen.). Quindi, come esattamente osservato nel ricorso, negare effetti retroattivi ad una norma di legge che intende stabilire come debba interpretarsi una legge precedente, significa violare il precetto che impone all'interprete di attribuire senso a tutti gli enunciati del discorso legislativo, senza relegarne alcuno nella zona della irrilevanza giuridica...... il discorso deve allora spostarsi, come più volte osservato nella giurisprudenza costituzionale (v. fra le molte, C. Cost. 234/2007) sui limiti che il legislatore incontra nel dettare, eventualmente tramite norme di interpretazione autentica, disposizioni ad effetto retroattivo. Va quindi ricordalo che, come più volle sottolineato dal giudice delle leggi, il principio di irretroattività della legge - pur riconosciuto come principio generale dall'art. 11 disp. gen., comma 1, delle disposizioni preliminari del codice civile - non ha ottenuto in sede costituzionale (salvo quanto espresso nell'art. 25 Cost., con riferimento alla materia penale) una garanzia specifica: di talchè la possibilità di adottare norme dotale di efficacia retroattiva (anche indipendentemente dal loro eventuale carattere interpretativo) non può essere esclusa, ove le norme stesse vengano a trovare un'adeguata giustificazione su piano della ragionevolezza e non si pongano in contrasto con altri principi o valori costituzionali specificamente proietti (C. Cast. 6/1994) sì da incidere arbitrariamente sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti (C. Cost., 419/2000). In particolare, poi, dalla disciplina costituzionale in vigore non è dato desumere, per i diritti di natura economica, una particolare protezione contro l'eventualità di norme retroattive, salvo soltanto il limite, già richiamato, del principio di ragionevolezza (C. Cost. 421/1995) onde, nel rispetto di tale limiti, legittimamente può esser data aduna norma efficacia retroattiva, qualificandola, appropriatamente a no, "interpretativa" (C. Cost. 153/1994, con specifico riferimento a diritti di natura economica connessi al rapporto di pubblico impiego)" (cosi SSUU 9941/09, in motivazione).


Deve quindi concludersi che la disposizione del D.L. n. 203 del 2005, art. 3, comma 41, ha portata retroattiva, perchè così è stato voluto dal legislatore, senza che tale scelta possa giudicarsi in contrasto con i canoni di ragionevolezza o con altri principi o valori costituzionali specificamente protetti.


Già con l'ordinanza n. 6064/09, del resto, le Sezioni Unite di questa Corte - sia pure nell'ambito di una pronuncia avente ad oggetto le questioni della giurisdizione e della competenza sull'opposizione al fermo amministrativo - hanno affermato, con riferimento ad un fermo del luglio 2004 - che: non è eludibile la precisazione contenuta nel D.L. 30 settembre 2005, n. 203, art. 3, comma 41, conv., con L. 2 dicembre 2005, n. 248, che "Le disposizioni del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 86, si interpretano nel senso che, fino all'emanazione dei decreto previsto dal comma 4 dello stesso articolo, il fermo può essere eseguito dal concessionario sui veicoli a motore pur nel rispetto delle disposizioni relative alle modalità di iscrizione e di cancellazione ed agli effetti dello stesso, contenute nel D.M. Finanze 7 settembre 1998, n. 503.


In conclusione, si ritiene che il procedimento possa essere definito in camera di consiglio con la declaratoria di inammissibilità del primo motivo e di manifesta fondatezza del secondo motivo di ricorso, la cassazione della sentenza gravata e il rinvio alla Corte di Appello di Caltanissetta, in altra composizione, che si atterrà al principio per cui la disposizione del D.L. n. 203 del 2005, art. 3, comma 41, ha portata retroattiva"."

Cass. civ. VI - 5, Ord., 19-06-2012, n. 10089

L'istituto della sospensione necessaria ha esaurito i suoi effetti ?

"E' certo consolidato orientamento della giurisprudenza della Corte che la ipotesi di contemporanea pendenza davanti a due diversi giudici del giudizio sul se dovuto e di quello sul quanto dovuto non comporta che il secondo debba rimanere sospeso in attesa della decisione del primo e che, per converso, quante volte nel primo sia pronunciata sentenza che afferma esistente il diritto, il giudice del secondo giudizio possa porre a base della propria decisione ciò che è stato già deciso, ancorchè la sentenza sia stata impugnata, l'alternativa essendo per contro quella di sospendere il giudizio di liquidazione del dovuto.


Ciò è stato affermato dalla ordinanza 27.7.2004 n. 14060 delle sezioni unite, che ha così assegnato questa relazione tra processi all'area di applicazione dell'art. 337 c.p.c., dicendola per contro sottratta all'area dell'art. 295 c.p.c..


[...]


Le sezioni unite, nell'occasione che si è appena finito di considerare, non avevano avuto ragione di porre in discussione l'ambito di applicazione dell'art. 295 sino ad allora riconosciuto, ambito costituito dai casi di cosiddetta pregiudizialità tecnica, in cui per legge o volontà delle parti che ne chiedono l'accertamento in via principale, un certo fatto o rapporto, che va dunque accertato con efficacia di giudicato, si pone a sua volta come fatto costitutivo o per contro impeditivo di un diritto sostanziale o processuale controverso od esercitato in altro giudizio.


[...]


La Corte ritiene che in linea di principio sia da accedere alla soluzione attinta dalla ordinanza 26435 del 2009.


Salvi soltanto i casi in cui la sospensione del giudizio sulla causa pregiudicata sia imposta da una disposizione specifica ed in modo che debba attendersi che sulla causa pregiudicante sia pronunciata sentenza passata in giudicato (come, esemplificando, nel caso previsto dall'art. 75 c.p.c., comma 3).


Pare alla Corte che nell'interpretazione sistematica della disciplina del processo sia da riconoscere un ruolo decisivo alla disposizione che, a seguito della L. 26 novembre 1990, n. 353, si trova ora ad essere dettata dall'art. 282 del codice di rito.


Col riconoscere provvisoria esecutività tra le parti alla sentenza di primo grado il legislatore ha determinato una cesura tra la posizione delle parti in controversia tra loro nel giudizio di primo grado - che è tendenzialmente paritaria e solo provvisoriamente alterabile da misure anticipatorie o cautelari - e la situazione in cui le stesse parti vengono poste dalla decisione del giudice di primo grado, che conosciuta la controversia, dichiara lo stato del diritto tra loro.


L'ordinamento, anche allo scopo di scoraggiare il protrarsi della lite, che al contrario risulterebbe favorito, se all'impugnazione si attribuisse l'effetto d'un ripristino delle posizioni di partenza, proclama il valore del modo di composizione della controversia, che è dichiarato conforme a diritto dal giudice, terzo ed imparziale (art. 111 Cost., comma 2).


Il diritto pronunciato dal giudice di primo grado qualifica la posizione delle parti in modo diverso da quello dello stato originano di lite e giustifica sia l'esecuzione provvisoria, quando a quel diritto si tratti di adeguare la realtà materiale, sia l'autorità della sentenza di primo grado nell'ambito della relazione tra lite sulla causa pregiudiziale e lite sulla causa pregiudicata.


Salvo che l'ordinamento non esprima in casi specifici una valutazione diversa, imponendo che la composizione della lite pregiudicata debba attendere il giudicato sull'elemento di connessione tra le situazioni giuridiche collegate e controverse, è da intendere che sia ancora al giudice che l'ordinamento rimetta, graduandolo in vario modo, il compito di valutare, tenuto conto degli elementi in base ai quali la controversia è riaperta attraverso l'impugnazione, se l'efficacia della sentenza pronunciata sulla lite pregiudicante debba essere sospesa (art. 283 cod. proc. civ.) o se la sua autorità debba essere provvisoriamente rifiutata (art. 337 c.p.c., comma 2) in questo caso attribuendo al giudice del giudizio sulla lite pregiudicata il potere di sospenderlo (già con la sentenza 31 maggio 1996 n. 182 la Corte costituzionale aveva del resto avuto modo di richiamare l'attenzione degli interpreti sul disfavore verso il fenomeno sospensivo in quanto tale, espresso dal legislatore, con la riforma del 1990, soffermandosi sugli orientamenti restrittivi che s'erano manifestati nella giurisprudenza di legittimità a riguardo della precedente interpretazione dell'art. 295 c.p.c.).


E' dunque possibile a tale riguardo una considerazione conclusiva.


Da un punto di vista logico l'istituto processuale della sospensione necessaria è costruito su questi presupposti: la rilevazione del rapporto di dipendenza che si effettua ponendo a raffronto gli elementi fondanti delle due cause, quella pregiudicante e quella in tesi pregiudicata; la conseguente necessità che i fatti siano conosciuti e giudicati secondo diritto nello stesso modo; lo stato di incertezza in cui il giudizio su quei fatti versa, perchè controversi tra le parti.


L'idoneità della decisione sulla causa pregiudicante a condizionare quella della causa che ne dipende giustifica allora che questa causa resti sospesa a prescindere dal segno che potrà avere la decisione sull'altra.


Lo impone prima di tutto l'esigenza che il sistema giudiziario non sia gravato dalla duplicazione dell'attività di cognizione nei due processi pendenti.


Ma quando nel processo sulla causa pregiudicante la decisione è sopravvenuta, quello sulla causa pregiudicata è in grado di riprendere il suo corso, perchè ormai il sistema giudiziario è in grado di pervenire al giudizio sulla causa pregiudicata fondandolo sull'accertamento che sulla questione comune alle due cause si è potuto raggiungere nell'altro processo tra le stesse parti, attraverso l'esercizio della giurisdizione.


Non dipende più da esigenze di ordine logico che il processo sulla causa dipendente resti sospeso.


La duplice connessa circostanza che la decisione del primo giudice giustifichi a questo punto il passaggio alla sua esecuzione coattiva se pur provvisoria e il correlativo progressivo restringersi degli elementi di novità suscettibili di essere introdotti nel giudizio di impugnazione consente di ritenere che l'ordinamento si appaghi ora in linea generale del risparmio di attività istruttoria e preferisca all'attesa del giudicato la possibilità che il processo sulla causa dipendente riprenda assumendo a suo fondamento la decisione, ancorchè suscettibile di impugnazione, che si è avuta sulla causa pregiudicante, perchè, come si è detto, essendo il risultato di un accertamento in contraddittorio e provenendo dal giudice, giustifica la presunzione di conformità a diritto.


L'istituto della sospensione necessaria ha così esaurito i suoi effetti.


Il rapporto di dipendenza tra le cause però resta e se la controversia si riaccende nei gradi di impugnazione, spetterà ora alla valutazione del giudice della causa dipendente decidere se mantenere in stato di sospensione il processo di cui una delle parti abbia sollecitato la ripresa.


E la valutazione andrà fatta sulla base della plausibile controvertibilità che il confronto tra la decisione intervenuta e la critica che ne è stata svolta abbia fatto emergere.


[...]


La conclusione è che il ricorso per regolamento di competenza è accolto e l'ordinanza di sospensione pronunziata in applicazione dell'art. 295 cod. proc. civ. è cassata.


Lo è in base al principio di diritto che segue.


Fuori dei casi in cui sia espressamente disposto che un giudizio debba rimanere sospeso sino a che un altro da cui dipenda sia definito con decisione passata in giudicato, intervenuta nel primo decisione in primo grado, il secondo di cui sia stata in quel grado ordinata la sospensione può essere ripreso dalla parte che vi abbia interesse entro il termine dal passaggio in giudicato della detta decisione stabilito dall'art. 297 c.p.c..


Definito il primo giudizio senza che nel secondo la sospensione sia stata disposta o ripreso il secondo giudizio dopo che il primo sia stato definito, la sospensione del secondo può solo essere pronunziata sulla base dell'art. 337 c.p.c., comma 2, dal giudice che ritenga di non poggiarsi sull'autorità della decisione pronunziata nel primo giudizio.


A questo regime non si sottrae la relazione tra il giudizio promosso per la dichiarazione di filiazione naturale definito con sentenza, pur non passata in giudicato, che l'accerta ed il giudizio di petizione d'eredità promosso da chi risulterebbe chiamato all'eredità se la sua qualità di figlio naturale dell'ereditando fosse riconosciuta."

Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 19-06-2012, n. 10027

La sentenza, per esteso, sul sito www.mauriziostorti.com alla sezione "giurisprudenza". Ecco il link diretto:

http://www.mauriziostorti.com/index.php?option=com_content&task=view&id=88&Itemid=62

20 giugno 2012

Corte Costituzionale - aborto


La legge sull'aborto non verra' toccata. La Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 della 194/78, sollevata da un giudice del Tribunale di Spoleto, dopo la richiesta di una sedicenne di abortire senza coinvolgere i genitori.

http://tinyurl.com/csa9lr3

Giustizia Amministrativa - ottemperanza



Penalità di mora nel giudizio di ottemperanza: l'interpretazione del Tar Lazio

E' possibile stabilire che la somma da corrispondere a titolo di penalità di mora, quando l'esecuzione del giudicato consista nel pagamento di una somma di denaro, non sia corrisposta al ricorrente-creditore ma, trattandosi di sanzione pecuniaria, in applicazione dell'art. 15 delle norme di attuazione del c.p.a., versato al bilancio dello Stato?

T.A.R. / T.A.R. Lazio - Roma / Sentenza 11 giugno 2012 da NORMA

19 giugno 2012

Spoglio, turbativa e compromissione dell'esercizio del possesso

"Sono invece fondate le censure relative al vizio di motivazione, rispetto alle quali il fatto controverso, nei due motivi appare sufficientemente specificato. Nelle controversie possessorie l'estensione e le modalità del possesso, che vanno individuate alla stregua della pratica dell'anno precedente ex art. 1066 c.c, è sempre necessario che la modifica dello stato dei luoghi comprometta in modo giuridicamente apprezzabile l'esercizio del possesso (Cass. 10819/01). Il giudice di appello ha sostenuto che era onere di chi lamentava lo spoglio provare di avere esercitato il possesso invadendo anche l'area recintata e ha affermato che il transito veicolare era possibile, con la dovuta attenzione, senza necessità di invadere la zona prima libera e poi recintata con il muretto. La motivazione è incongrua rispetto al thema probandum. Infatti non era controverso che l'area servisse come spazio di manovra, indipendentemente dalla prova (impossibile e non necessaria) che ogni singolo centimetro dell'area fosse concretamente percorso dall'autovettura; ciò che doveva essere provato e che doveva essere oggetto di motivazione, ai fini dell'accoglimento o del rigetto della domanda attrice, era se la modifica dello stato dei luoghi avesse compromesso in maniera apprezzabile l'esercizio del possesso per l'uso che ne era fatto, ossia per l'ingresso e l'uscita dall'abitazione con un autoveicolo.


Sotto questo profilo la motivazione è carente in quanto non offre alcuna specifica indicazione (ad esempio sulla dimensione dell'area di manovra e sull'ampiezza dell'accesso) limitandosi ad un mero rinvio a materiale fotografico senza alcun specifico riferimento agli elementi di rilevanza desunti dalle foto e limitandosi ad un accenno alla distanza del muretto dal filo interno del cancello che, tuttavia, non conoscendosi le dimensioni dell'area di manovra e di accesso è elemento non significativo.


Con questa carente motivazione la Corte di Appello ha concluso che era possibile l'entrata e l'uscita con la dovuta attenzione, mentre doveva accertare e motivare se vi fosse apprezzabile compromissione dell'esercizio del possesso, secondo i principi costantemente affermati da questa Corte secondo i quali: 


- a concretare obiettivamente lo spoglio, non si richiede la totale privazione del possesso, ma è sufficiente una privazione parziale di esso o del compossesso, la quale consegua a qualunque arbitraria modificazione dello stato dei luoghi, e che restringa o riduca le facoltà inerenti al potere esercitato sulla cosa o comunque renda meno comodo l'esercizio del possesso esclusivo o del compossesso;


- pertanto, l'arbitraria riduzione dell'ampiezza di una strada, la recinzione della medesima e il restringimento dell'ingresso ad essa costituiscono altrettanti fatti di spoglio che legittimano la proposizione dell'azione di reintegrazione (Cass. 11/5/1973 n. 1263);


- in tema di tutela possessoria, non ogni modifica apportata da un terzo alla situazione oggettiva in cui si sostanzia il possesso costituisce, spoglio o turbativa, essendo sempre necessario che tale modifica comprometta in modo giuridicamente apprezzabile l'esercizio del possesso, restando invece irrilevante qualsiasi trascurabile disagio (Cass. 6/8/2001 n. 10819: principio affermato in relazione alla costruzione di un muro comportante riduzione di un'area destinata a servitù di passaggio, senza che, però, ne risultasse impedito il transito, anche veicolare; Cass. 12/4/2011 n. 8275 Ord.: principio affermato in relazione alla costruzione di un cancello che non apportava alcuna apprezzabile menomazione del passaggio)."

Cass. civ. Sez. II, Sent., 15-06-2012, n. 9873

Giustizia Amministrativa - strade private adibite ad uso pubblico



Uso pubblico delle strade tra porzioni private di via e dedicatio ad patriam

Se la strada è adibita all'uso pubblico inteso come utilizzo al transito di una collettività indiscriminata di cittadini, l'accertamento relativo alla proprietà formale della strada stessa diviene irrilevante?

Consiglio di Stato / Sentenza 15 giugno 2012 da NORMA

Corte di Giustizia - casse previdenziali



Lo "shopping" delle casse di previdenza professionali in quote di fondi d'investimento di altri Stati membri

E' possibile - ed entro quali limiti - che una normativa nazionale consenta ad una cassa di previdenza professionale (o all'organismo d'investimento collettivo creato da quest'ultima per la gestione del suo patrimonio) di investire tale patrimonio in quote di un fondo comune d'investimento stabilito in un altro Stato membro soltanto a condizione che tale fondo sia stato autorizzato a commercializzare le sue quote sul territorio nazionale?

Corte di Giustizia / Sentenza 7 giugno 2012 da NORMA

18 giugno 2012

CATASTO - Nuovo classamento - Motivazione - Necessità

Quando procede all'attribuzione d'ufficio di un nuovo classamento ad un'unità immobiliare a destinazione ordinaria, l'Agenzia del Territorio deve specificare se tale mutato classamento è dovuto a trasformazioni specifiche subite dall'unità immobiliare in questione; oppure ad una risistemazione dei parametri relativi alla microzona, in cui si colloca l'unità immobiliare. Nel primo caso, l'Agenzia deve indicare le trasformazioni edilizie intervenute. Nel secondo caso, deve indicare l'atto con cui si è provveduto alla revisione dei parametri relativi alla microzona, a seguito di significativi e concreti miglioramenti rendendo così possibile la conoscenza dei presupposti del riclassamento da parte del contribuente.

Cass. civ. Sez. V, 13-06-2012, n. 9629

Eccezione di prescrizione estintiva e eccezione di prescrizione presuntiva

"Il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 2956 c.c., ex art. 360 c.p.c., n. 3, sostenendo che la Corte d'appello avrebbe errato nell'affermare l'estinzione presuntiva del credito derivante dall'attività professionale svolta in favore degli intimati. In particolare, il ricorrente sostiene che, nel caso di specie, non avrebbe potuto trovare applicazione la prescrizione presuntiva in quanto: a) mancavano le contestazioni in merito alla qualità e alla quantità delle prestazioni professionali di cui si discute, rimanendo cosi accertato il credito del ricorrente; b) emergeva un atteggiamento di ammissione di non aver estinto l'obbligazione da parte dei ricorrenti. 


Il ricorso è manifestamente infondato. Questa Corte ha avuto modo di affermare che, in tema di prescrizione presuntiva, mentre il debitore, eccipiente, è tenuto a provare il decorso del termine previsto dalla legge, il creditore ha l'onere di dimostrare la mancata soddisfazione del credito, e tale prova può essere fornita soltanto con il deferimento del giuramento decisorio, ovvero avvalendosi dell'ammissione, fatta in giudizio dallo stesso debitore, che l'obbligazione non è stata estinta (Cass. n. 11195 del 2007). E l'indagine sul contenuto delle dichiarazioni della parte (o del suo comportamento processuale), al fine di stabilire se importino o meno ammissione della non avvenuta estinzione del debito agli effetti dell'art. 2959 c.c., da luogo ad un apprezzamento di fatto, incensurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato sulle ragioni all'uopo adottate dal giudice del merito in quanto confacenti e coerenti (Cass. n. 22118 del 2006). Priva di rilievo è la prima deduzione dei ricorrenti, atteso che la mancata contestazione della esistenza della prestazione professionale e del credito a questa relativo non esclude l'applicazione della prescrizione presuntiva, costituendo anzi detta mancata contestazione il presupposto di applicazione dell'istituto in questione: la prescrizione presuntiva, infatti, è fondata su una presunzione iuris tantum, ovvero mista, di avvenuto pagamento del debito, esponendosi colui che la oppone al suo rigetto non solo se ammette di non aver estinto l'obbligazione ma anche se ne contesta la stessa insorgenza (Cass. n. 3443 del 2005). Orbene, nel caso di specie, nessuna ammissione è intervenuta da parte degli intimati in ordine al mancato pagamento del credito da prestazione professionale, tanto che il creditore opposto ha deferito agli opponenti il giuramento decisorio. In proposito, deve rilevarsi che il ricorrente non ha impugnato il capo della sentenza di appello con cui è stata dichiarata la inammissibilità del giuramento come deferito. Nè appaiono meritevoli di accoglimento le deduzioni del ricorrente in ordine alle modalità di formulazione dell'eccezione di prescrizione. Gli opponenti, come lo stesso ricorrente riferisce, nell'atto di citazione in opposizione ebbero ad eccepire la prescrizione estintiva e quella presuntiva. Nel giudizio di primo grado su tali eccezioni non vi è stata pronuncia; nel giudizio di appello, gli opponenti appellanti hanno, come rilevato dal ricorrente, rinunciato all'eccezione di prescrizione estintiva, insistendo invece per l'accoglimento della eccezione di prescrizione presuntiva. E la Corte d'appello ha accolto tale ultima eccezione - l'unica riproposta in appello rilevando che il creditore opposto non aveva provato l'esistenza di atti interruttivi della prescrizione. Del resto, la giurisprudenza richiamata in ricorso circa la incompatibilità tra eccezione di prescrizione estintiva ed eccezione di prescrizione presuntiva rileva non già sul piano della reiezione delle eccezioni contestualmente formulate, ma unicamente sul piano della affermazione della sussistenza di un onere di specificazione, da parte dell'eccipiente, del tipo di eccezione proposta, non potendosi desumere l'applicabilità dell'una ove venga espressamente richiesta l'altra e viceversa (Cass. n. 22649 del 2011)."

Cass. civ. Sez. VI, Ord., 14-06-2012, n. 9763