18 novembre 2012

Legitimatio ad causam


E' esatto che (sentenza n. 2091 del 14/02/2012 ) al giudice è consentito accertare d'ufficio la sussistenza, in capo alle parti, del potere di promuovere il giudizio o di resistervi, ossia la "legitimatio ad causam" attiva e passiva, ma non di rilevare d'ufficio l'effettiva titolarità dell'obbligazione dedotta in giudizio. Ne consegue che, in materia di risarcimento del danno da circolazione stradale, non è rilevabile d'ufficio la circostanza che il convenuto non sia proprietario del veicolo che ha causato il danno, se essa non sia stata tempestivamente eccepita.

Nella specie il giudice di appello ha ritenuto che l'eccezione formulata dalla società Milano nella comparsa di costituzione attenesse alla titolarità passiva del rapporto e non alla legittimazione ad causam.

La qualificazione giuridica dell'eccezione formulata dalla Milano non è stata censurata dai ricorrenti, che non hanno dedotto la violazione di alcun criterio ermeneutico, e non ricorrendo alcun vizio motivazionale nella interpretazione adottata, nei limiti rilevabili in sede di legittimità, la pronunzia nel merito del giudice di appello non è stata assunta di ufficio, ma a seguito di eccezione di parte ritualmente formulata.

Infondata è anche l'eccezione attinente all'onere probatorio. Va osservato che effettivamente la prevalente giurisprudenza di questa Corte ritiene che quando le parti controvertono sulla effettiva titolarità, in capo al convenuto, della situazione dedotta in giudizio, ossia sull'accertamento di una situazione di fatto favorevole all'accoglimento o al rigetto della domanda attrice, la relativa questione non attiene, alla "legitimatio ad causam", ma al merito della controversia, con la conseguenza che il difetto di titolarità deve essere provato da chi lo eccepisce e deve formare oggetto di specifica e tempestiva deduzione in sede di merito.

Al contrario il difetto di legittimazione "ad causam" deve essere oggetto di verifica, preliminare al merito,da parte del giudice, anche d'ufficio, in ogni stato e grado del giudizio (Cass. n. 23670/2008; Cass. n. 20819/2006; Cass. n. 2746 del 2009; 24594/2005; Cass. n. 13403/05; Cass. N. 501/01; Cass. 15537/2000; Cass. n. 6916/1997).

Tuttavia ritiene questa Corte di non condividere, quanto alla parte su cui grava l'onere probatorio, tale orientamento pressocchè unanime.

Questa Corte ha correttamente osservato (Cass. n. 10843 del 1997) che la titolarità attiva o passiva non è, a differenza di quella concernente la "legitimatio ad causam", rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio, essendo di regola affidata alla disponibilità delle parti; e segnatamente può il convenuto, col suo comportamento processuale, influire, eliminandoli o alleviandoli, sugli oneri probatori incombenti all'attore, anche a proposito della sua asserita titolarità attiva del rapporto, ove non contesti o riconosca espressamente la verità dei fatti da lui allegati a fondamento della domanda. In altri termini, al pari degli altri requisiti di fondatezza della domanda, la titolarità, attiva o passiva, del rapporto controverso soggiace agli ordinari criteri sull'onere della prova dettati dall'art. 2697 c.c., onde, in applicazione del principio per cui "non egent probatione" i fatti pacifici o incontroversi, l'attore non dovrà dimostrarla ogni qual volta il convenuto gliel'abbia esplicitamente riconosciuta o abbia impostato la sua difesa su argomenti logicamente incompatibili col suo disconoscimento.

Tale linea di principio va condivisa e adattata alla questione in esame.

In effetti la contestazione della titolarità passiva (ma il discorso è identico per la titolarità attiva), investendo un fatto costitutivo della domanda, e cioè che il soggetto convenuto non è quello che nella fattispecie concreta è tenuto per legge al comando richiesto al giudice, non integra un'eccezione in senso stretto (e cioè un fatto modificativo o estintivo), ma una mera difesa (Cass. n. 15832/2011), consistente nella contestazione del fatto costitutivo della domanda.

Pertanto vige anche in tale ipotesi il principio secondo cui l'onere della prova del fatto costitutivo grava sull'attore. Nonostante che la c.d. eccezione di difetto della titolarità passiva o attiva del rapporto dedotto in giudizio non possa essere fatta ovviamente dall'attore che ha proposto la domanda, la prova di tali titolarità grava sull'attore e non su chi "eccepisce" la loro inesistenza.

Ovviamente tale prova può essere raggiunta anche attraverso la mancata contestazione da parte dei convenuti costituiti, a norma dell'art. 115 c.p.c., comma 1, ma ciò non muta il fondo della questione, ma anzi lo corrobora, in quanto la mancata contestazione del convenuto in tanto ha una valenza probatoria (in termini di pacificità del fatto) in quanto esenta l'altra parte dall'onere della prova e non sè stesso.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 16-10-2012, n. 17701

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