12 giugno 2012

Compensazione in appello delle spese dei due gradi: recupero delle spese del 1° grado pagate e precetto

"Il Tribunale di Venezia, pronunziando su una causa di separazione personale, aveva condannato il marito B.G. a rifonderle le spese di giudizio, liquidate in complessivi Euro 8.041,72.


Detta sentenza, puntualmente eseguita dalla controparte, era stata tuttavia riformata dalla Corte d'appello che aveva integralmente compensato gli oneri dei due gradi del processo.


B.G. le aveva quindi notificato atto di precetto per il pagamento della somma di Euro 8.041,72.


Sulla base di tali premesse, la T. chiese al Tribunale di dichiarare nullo il precetto, condannando il B. al risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c. per lite temeraria. Evidenziò, a sostegno della domanda, che era stata impropriamente azionata, come titolo esecutivo, una sentenza che non conteneva alcuna statuizione di condanna, il che, del resto, era ben chiaro al precettante, il quale, nel giudizio di gravame, aveva specificamente chiesto la condanna della controparte alla restituzione della somma percepita, a titolo di spese processuali, in esecuzione della sentenza del giudice di prime cure.


Costituitosi in giudizio, il convenuto contestò le avverse richieste, senza tuttavia negare la veridicità della versione dei fatti posta a base della stessa.


Con sentenza del 27 ottobre 2004 il Tribunale accolse l'opposizione, dichiarando l'inefficacia del precetto e condannando il B. al pagamento delle spese di causa nonchè della somma di Euro 1.500,00, a titolo di risarcimento danni per lite temeraria. Il gravame proposto dal B. è stato rigettato dalla Corte d'appello di Venezia in data 9 dicembre 2009.


[...]


Le censure svolte nel primo motivo sono infondate. Il collegio non ignora che la tesi difensiva dell'impugnante si raccorda a un orientamento giurisprudenziale - minoritario, ma niente affatto isolato - il quale, sul presupposto che l'obbligo di restituzione delle somme pagate in esecuzione di una sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva, successivamente riformata in appello, sorge per il solo fatto della riforma di quella pronuncia, ancorchè la stessa non contenga alcuna statuizione al riguardo, da un lato, prefigura come implicita la condanna dell'accipiens alla restituzione in favore del solvens degli importi ricevuti; dall'altro, esclude, perciò stesso, che il giudice di appello il quale, nel riformare completamente la decisione impugnata, benchè richiestone, non disponga la condanna alle restituzioni, incorra nel vizio di omessa pronuncia (confr. Cass. civ. 13 aprile 2007, n. 8829; Cass. civ. 5 luglio 2006, n. 15295; Cass., 26 aprile 2003, n. 562476; Cass. civ. 24 giugno 2002, n. 11729; Cass. civ. 10 dicembre 2001, n. 15571; Cass. civ. 19 agosto 1999, n. 8781; Cass. civ. 6 aprile 1999, n. 3291).


A tale indirizzo se ne contrappone tuttavia un altro che, pur ammettendo l'azionabilità nella fase di gravame delle pretese restitutorie conseguenti alla riforma in appello della sentenza di primo grado, ne afferma l'utilità proprio in vista della necessaria precostituzione di un titolo esecutivo, specularmente escludendo la sufficienza, ai medesimi fini, della mera sentenza di riforma.


In proposito, fermo che la condanna restitutoria non può essere eseguita prima del suo passaggio in giudicato, si è avuto cura di precisare che, ove il giudice di appello ometta di pronunciare sul punto, la parte potrà o impugnare l'omessa pronunzia con ricorso in cassazione oppure riproporre la domanda restitutoria in separato giudizio, senza che ivi, stante la menzionata facoltà di scelta, le sia opponibile il giudicato derivante dalla mancata impugnazione della sentenza per omessa pronuncia (Cass. civ. 8 luglio 2010, n. 16152; Cass. civ. 24 maggio 2010, n. 12622; Cass. civ. 30 aprile 2009, n. 10124; Cass. civ. 11 giugno 2008, n. 15461; Cass. civ. 22 marzo 1995, n. 3260; Cass. civ. 16 maggio 2006, n. 11356).


Del resto anche laddove - in presenza di una sentenza di appello che, dopo avere specificamente dato atto: a) della proposizione di domanda per la restituzione della somma versata in esecuzione di una pronuncia di prime cure provvisoriamente esecutiva; b) dell'avvenuto pagamento della somma; c) della mancanza di contestazioni sul punto, aveva tuttavia omesso la condanna alle restituzioni nel dispositivo - si è qualificata l'omessa, esplicita statuizione al riguardo mero errore materiale, emendabile con il rimedio della correzione, piuttosto che vizio censurabile con ricorso per Cassazione (confr.


Cass. civ. 24 aprile 2008, n. 10765), si è con ciò stesso implicitamente ma inequivocabilmente riaffermata la necessità di una statuizione di condanna per potere procedere al recupero coattivo di quanto versato in esecuzione della sentenza riformata.


Tra i due esposti orientamenti, il collegio ritiene di aderire al secondo, peraltro maggioritario nella giurisprudenza di legittimità.


Supporta tale convincimento la considerazione che il ricorso all'istituto della condanna implicita, certamente ispirato a encomiabili esigenze di speditezza e semplificazione, mal si confronta, sul piano letterale e sistematico, con il disposto dell'art. 474 c.p.c., comma 1, che, con formula di icastico nitore, recita: l'esecuzione forzata non può aver luogo che in virtù di un titolo esecutivo, per un diritto certo, liquido ed esigibile.


A ciò aggiungasi che la tesi qui disattesa appare incompatibile con gli spunti ermeneutici offerti dall'art. 389 c.p.c. che, occupandosi delle domande di restituzione o di riduzione in pristino conseguenti alla sentenza di cassazione, contiene una inequivocabile opzione normativa in ordine alla necessità che al ristabilimento coattivo dello status quo ante - tutte le volte in cui, occorrendo a tal fine la cooperazione della controparte, questa venga a mancare - presieda una decisione giudiziale. Peraltro, ogni diversa ricostruzione del sistema o lo renderebbe profondamente asimmetrico, assoggettando a regimi diversi le restituzioni conseguenti, rispettivamente, alla riforma in appello della sentenza di primo grado, ovvero alla cassazione di quella impugnata innanzi al giudice di legittimità;


oppure, interpretando l'indicazione normativa racchiusa nell'art. 389 c.p.c. come volta a disciplinare una strategia processuale puramente ottativa, presenterebbe margini di estrema opinabilità.


Infine, e conclusivamente su questo punto, la possibilità di utilizzare in chiave di condanna implicita la riforma della sentenza di primo grado, conseguita in appello, rischia, sul piano pratico, di creare più problemi di quanti non sia in grado di risolverne nella misura in cui abilita la parte a estrapolare un titolo esecutivo da una pronuncia che non lo contiene espressamente, titolo che, soprattutto nei dettagli, darebbe facilmente luogo a ogni sorta di contestazioni.


Deriva da quanto sin qui detto che non ha errato il giudice di merito nel dichiarare l'inefficacia del precetto notificato alla T. dal B. per il recupero delle somme versate a titolo di spese del primo grado del giudizio: quella statuizione ha invero correttamente applicato il principio di diritto, che va qui ulteriormente ribadito, secondo cui per azionare in executivis le pretese restitutorie, non basta la mera sentenza di riforma di quella di prime cure, ma è necessario disporre di una pronuncia di condanna al rimborso degli importi già corrisposti.


[...]


Quanto sin qui detto in ordine alla mancanza di pregio delle critiche svolte nel primo mezzo, contiene, sia pure in nuce, le ragioni della ritenuta fondatezza dei successivi due motivi di ricorso che, in quanto strettamente connessi, si vanno ora a esaminare congiuntamente.


E invero, in disparte ogni questione in ordine alla correttezza di una sentenza che, a fronte di una pronuncia di prime cure di condanna per responsabilità processuale aggravata strutturata, in aderenza alla domanda, sui parametri delineati nell'art. 96 c.p.c., comma 1, l'ha confermata richiamando profili dell'elemento psicologico dell'illecito propri della fattispecie delineata nel comma 2, assorbente è il rilievo che i contrasti emersi nella giurisprudenza di legittimità in ordine alla sufficienza o meno della riforma o della cassazione della sentenza di condanna a fungere da titolo esecutivo per il recupero forzoso delle somme erogate in esecuzione della stessa, escludono in radice la sussistenza di qualsivoglia ipotesi di colpa, men che mai grave, nella condotta processuale del precettante. Nè può indurre a contrario avviso la considerazione della circostanza - ritenuta dirimente dal giudice di merito - che il B., avendo chiesto alla Corte d'appello di condannare la controparte a restituirgli le somme corrisposte in esecuzione della sentenza di prime cure, aveva mostrato di ben conoscere l'onere di promuovere autonoma azione restitutoria. Non par dubbio, infatti, che le iniziative esecutive del B. furono il frutto della improduttività della linea difensiva spiegata in sede di gravame, improduttività che dovette indurlo a far valere il suo diritto per altre vie, e ciò tanto più che esse erano state indicate come ugualmente percorribili in innumerevoli pronunce di questo giudice di legittimità. Ne deriva che la contraria valutazione che si va qui a formulare, in adesione a un diverso orientamento giurisprudenziale, non è sufficiente a qualificare come abusiva, oltre che perdente, la condotta processuale del ricorrente."

Cass. civ. Sez. III, Sent., 08-06-2012, n. 9287

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